Fascisti
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Gli italiani di Mussolini. Il regime degli italiani

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Gli italiani di Mussolini. Il regime degli italiani

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Fascisti è una storia dell'Italia tra il 1922 e il 1945, con molti straordinari ritratti - degli italiani, di Mussolini e dei principali gerarchi - e una polemica analisi dei rapporti tra italiani e fascismo fino ai nostri giorni.

Ma è anche un'originale interpretazione del fascismo in chiave di «sacralizzazione della politica», fenomeno tipico del nostro tempo, di cui proprio il movimento fascista fu l'inventore. Dal culto risorgimentale e liberale della patria, il fascismo passò al culto del littorio e poi a quello del duce.

Fu proprio l'entusiasmo per la nuova religione laica, con i suoi riti collettivi e le oggettive benemerenze sociali del governo, a indurre la maggior parte degli italiani ad aderire al fascismo, che aveva dato loro la coscienza e l'orgoglio di essere un popolo.

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Informazioni

V

Il regime degli italiani

Ora conviene seguire un andamento tematico, più che cronologico, tanti e tali sono i problemi che si intrecciano nel periodo 1925-35. E, poiché quella del regime era una politica di trasformazione globale della società, quasi tutti gli eventi – partito, vita sociale, rapporti con la Chiesa, ecc. – si riferiscono alla politica interna. Da qui la brevità del paragrafo seguente, che tocca solo alcuni passaggi istituzionali essenziali.

La politica interna

Con il discorso del 3 gennaio 1925 si apriva una nuova fase nella storia nazionale: il fascismo si presentò come una dittatura repressiva. Per prime vennero limitate le libertà di stampa e di associazione, poi il governo si rafforzò con numerosi strumenti: la possibilità di promulgare decreti di validità immediata e norme giuridiche, l’accentramento di funzioni prima appartenenti ai comuni. Fu però la rinnovata dimensione di Mussolini a evidenziare il mutato clima politico: il titolo che gli avevano dato i fascisti, Duce, era entrato negli atti ufficiali e Mussolini era così divenuto «Capo del Governo e Duce del Fascismo». Come capo del governo era responsabile soltanto di fronte al re, non più di fronte al Parlamento: era dunque sostanzialmente libero di prendere ogni decisione, perché il re non gli si oppose mai, lasciando violare in ogni modo lo Statuto. Nella legge del 1928 che inscriveva il Gran consiglio fra gli organi dello Stato Mussolini impose addirittura che quell’istituzione fascista potesse interferire nella successione dinastica.
Fu poi creato un tribunale speciale per giudicare i delitti contro lo Stato (1926) e fu prevista la revoca della cittadinanza per i «nemici dello Stato» (ovvero del fascismo), nonché il sequestro definitivo dei loro beni. Questi provvedimenti furono definiti «leggi fascistissime». Il tribunale speciale, in diciassette anni di attività, emise 42 sentenze capitali (ma molti ebbero la grazia) e circa 4600 condanne per un totale di 28.000 anni di carcere: statisticamente sono 270 condanne l’anno, per una media di 6 anni ciascuna. C’era poi la pena del confino (ovvero la deportazione in paesini o isole, dove il condannato godeva di relativa libertà); a subirlo furono in 15.470 ma non tutti per motivi politici: si poteva andare al confino anche per pederastia, mafia, reati annonari, ecc. Sono dati comunque inaccettabili e spregevoli sul piano etico, però non danno l’immagine di una dittatura feroce.
Mussolini non aveva operato direttamente ma tramite il ministro degli Interni Luigi Federzoni e quello della Giustizia Alfredo Rocco, che provenivano dal nazionalismo e quindi apparivano meno di parte fascista. Dopo le prime fondamentali leggi dittatoriali Federzoni dovette lasciare il posto al duce, mentre Rocco fu l’artefice del nuovo codice penale e di procedura penale, del testo unico di Pubblica sicurezza e del regolamento penitenziario (1930-31). Il corpus di leggi elaborate da Rocco rispondeva perfettamente alle necessità ideologiche, politiche, economiche e repressive del regime; la sua sistematicità, le sue caratteristiche tecnico-giuridiche e i vantaggi di controllo che offriva a qualsiasi governo faranno sì che rimanga quasi integralmente in vigore per decenni dopo la caduta del fascismo.
Il 22 giugno del 1925 Mussolini parlò all’Augusteo della necessità impellente di completare la fascistizzazione dell’Italia, che avrebbe preso ancora cinque anni. Nessuno lo contrastò: l’opposizione del resto era ridotta ai pochi comunisti – che presto sarebbero stati dichiarati fuorilegge – e agli aventiniani, che di lì a poco si divisero fra chi decise di rientrare in Parlamento, accettando lo stato delle cose, e chi invece preferì starne fuori, per manifestare il proprio dissenso. Al Senato rimasero – a rappresentare una tenue resistenza – Luigi Albertini, Benedetto Croce e Francesco Ruffini. Tutto sommato, anche nel 1925-26, a Mussolini vennero più fastidi dagli estremisti, dai normalizzatori, dai revisionisti: «Il guaio è che» disse «fatta la rivoluzione restano i rivoluzionari».
Il 4 novembre 1925 fu scoperto un complotto per uccidere il duce organizzato dall’onorevole socialista Tito Zaniboni e dal generale e senatore Gaetano Giardino: l’emozione portò molti incerti verso il regime e provocò nuove restrizioni delle libertà. Altri tre falliti attentati, nel 1926, ebbero le stesse conseguenze. Nel 1927 venne costituita, dal capo della Polizia Arturo Bocchini, l’OVRA. Si trattava di una polizia segreta destinata a vigilare sull’antifascismo che, sul territorio nazionale, era ridotto quasi soltanto al PCI, l’unico partito a mantenere durante tutto il regime una struttura efficiente, sia pur minima. La punta massima degli iscritti fu 9800 nel 1932; alla vigilia della Resistenza erano circa 5000, anche per via dei continui arresti operati dall’OVRA.
Nel 1926 venne istituito in tutti i comuni il sistema podestarile: i sindaci elettivi vennero sostituiti da podestà a carica quinquennale nominati dal prefetto in accordo con le autorità locali del partito. I podestà avevano tutti i poteri e le funzioni del sindaco, della giunta e del consiglio comunale.
Un passo decisivo fu la soppressione della rappresentanza politica tradizionale: i candidati alla Camera sarebbero stati scelti dai nuovi ordinamenti corporativo-sindacali e da altre associazioni e, poi, passati al vaglio del Gran consiglio, che avrebbe deciso la lista elettorale definitiva. La segretezza del voto venne di fatto abolita e, di conseguenza, le elezioni assunsero un carattere «plebiscitario». Furono tenute per la prima volta nel 1929 e il successo fu enorme: 8 milioni e mezzo di consensi contro 135.761 voti contrari (si disse persino che erano stati inventati per rendere più credibili i risultati). I votanti furono l’87,63 per cento degli aventi diritto, molto più di tutte le precedenti elezioni democratiche: infatti il non votare questa volta poteva essere considerato una forma di opposizione, ma proprio perciò il 12,37 per cento di non votanti significava qualcosa di più di una semplice astensione.a A ogni modo è indubbio che, anche in presenza di un’opposizione e di una maggiore libertà di voto, il fascismo avrebbe stravinto. Mussolini aveva curato particolarmente i rapporti con la Chiesa, le forze armate ed economiche, poteri indispensabili a garantire la saldezza del suo: la grande e piccola burocrazia pubblica e privata, l’esercito, gran parte dei cattolici, che fino ad allora erano restati a guardare, aderirono al fascismo dandogli forza ma togliendogli al contempo molto slancio innovatore e spinta politica. E questa adesione solo formale sarà fatale al regime nel momento della crisi, quasi vent’anni dopo.
Il regime godeva di prestigio all’estero, gli scioperi erano finiti, la situazione economica era migliorata, la disoccupazione calata, il limite minimo della tassabilità era passato da 1000 a 2000 lire annue e lo stipendio degli statali era stato aumentato poco prima delle elezioni. Non era migliorata, invece, la situazione di operai e contadini ma, come osserva De Felice, «Dopo anni di battaglie perdute, di persecuzioni e di violenze, la maggioranza del proletariato era sfiduciata e stanca, preoccupata di salvare il salvabile, convinta o, almeno, rassegnata che, per il momento, il fascismo avesse vinto. In questa situazione […] la maggioranza del proletariato, più che correre il rischio di nuovi giri di vite, era orientata a non perdere ciò che aveva potuto salvare e a non pregiudicarsi la possibilità di fruire di quei benefici normativi e soprattutto assistenziali che la politica “sociale” del regime poteva assicurarle».
La Camera dei deputati venne trasformata definitivamente nel 1935 e diventò la Camera dei fasci e delle corporazioni, costituita dai rappresentanti del Consiglio nazionale del PNF e da quelli delle corporazioni; queste ultime infatti erano – o avrebbero dovuto essere – la più rivoluzionaria riforma fascista.

L’economia

La prima importante decisione economica fu annunciata da Mussolini con il discorso di Pesaro, nell’agosto del 1926, e consistette in una fortissima deflazione della lira, che nel 1926 si era ridotta tra un settimo e un sesto rispetto alla quotazione di prima della guerra. La sterlina valeva quasi 153 lire; l’obiettivo era di ottenere nel giro di un anno, attraverso una serie di provvedimenti veramente di «lacrime e sangue», la «quota novanta»: ovvero la lira avrebbe dovuto essere valutata un novantesimo della sterlina. Effettivamente, nel corso del 1927, la quota novanta fu raggiunta.
Mussolini rivalutò la lira – pur sapendo che il Paese avrebbe pagato con una feroce disoccupazione – non soltanto per motivi di prestigio personale o statale ma soprattutto perché la moneta italiana era stata oggetto di forti speculazioni nelle principali borse estere: a Londra, Parigi, New York la congiuntura economica e il ribasso l’avevano resa particolarmente appetibile per gli investitori stranieri. Inoltre la rivalutazione era una diretta conseguenza della politica autocratica, che voleva favorire al massimo il prodotto nazionale risanando nel contempo l’industria avanzata e i mercati finanziari interni. Il duce dunque ammantò l’operazione di retorica «antiplutocratica», mentre in realtà si trattava di una manovra anche tendente a rafforzare lo Stato nei confronti del capitale privato e a migliorare le condizioni della piccola e media borghesia che aveva investito soprattutto in titoli statali: l’inflazione della lira finiva infatti per colpire soprattutto quei titoli.
L’antimonopolismo era un vecchio cavallo di battaglia del duce e uno dei pochi obiettivi che nel corso della sua carriera politica non aveva subito cambiamenti: Mussolini continuava a essere avverso alla Fiat, alla Banca Commerciale e a tutte le concentrazioni economiche, finanziarie e di potere in genere, perché non riusciva a controllarle completamente. Ma la politica economica imposta da lui e dal ministro delle Finanze Giuseppe Volpi, che faceva della quota novanta il suo perno, produsse anche risultati opposti a quelli desiderati: agli inizi del 1928 infatti i grandi gruppi avevano superato la crisi, che invece stringeva ancora in una morsa mortale le piccole aziende e l’agricoltura. Specialmente i contadini, i mezzadri e tutti coloro che avevano impegnato ogni cosa per comprare terre si trovarono praticamente rovinati nei confronti dei gruppi finanziari e bancari, che stavano vivendo uno splendore insperato grazie agli esiti della quota mussoliniana. L’obiettivo della quota novanta finì per irrigidire l’economia e la società italiane, bloccando le rivendicazioni operaie, rallentando la formazione delle nuove imprese e favorendo quelle già prosperose.
Soprattutto in Italia meridionale le condizioni di chi lavorava in campagna divennero spaventose: negli anni 1925-36 il Sud aumentò la produzione del 3-4 per cento mentre il Nord vide crescere la propria del 22 per cento. Mussolini cercò di contrastare il fenomeno, che era destinato a incancrenire la spaccatura del Paese, però non riuscì a escogitare di meglio che un’imponente serie di lavori pubblici e la «battaglia del grano», un tentativo di raggiungere l’autosufficienza nella produzione del grano, prodotto principale dell’alimentazione nazionale. Un nuovo dazio e l’imposizione dei fertilizzanti chimici fecero raggiungere presto l’obiettivo ma ancora una volta i vantaggi maggiori andarono ai grandi gruppi, come la Montecatini.
Quanto ai lavori pubblici, furono intensissimi: la propaganda poteva dire che in dieci anni il regime fascista aveva speso in questo settore più dei governi liberali in sessant’anni. Si costruiva ovunque e di tutto – case popolari, strade, stazioni, ferrovie, edifici pubblici – e per non ridurre tale benefica e frenetica attività Mussolini sacrificò anche uno dei risultati cui teneva di più, il pareggio di bilancio raggiunto nel 1925: dal 1930-31 il bilancio tornò in passivo.
La «bonifica integrale» fu uno dei provvedimenti più importanti. Mussolini voleva recuperare quelle zone dell’Italia non ancora in condizioni di essere sfruttate, come le Paludi pontine. L’iniziativa fu un successo di propaganda per il regime e per il mito di Mussolini. Ma ancora una volta il risultato finale favorì (oltre, naturalmente, le poche decine di migliaia di fortunati che ebbero casa, terra e lavoro nelle zone bonificate) soprattutto i grandi proprietari fondiari e le aziende cooperativiste che erano state costituite per raccogliere le commesse dell’intervento statale.
A partire specialmente dal 1929 migliaia di contadini cominciarono a riversarsi nelle città in cerca di lavoro, anche se la vita del sottoproletariato urbano era poco migliore della loro. Mussolini si rese conto che l’esodo non avrebbe giovato alla propaganda fascista – in città i disoccupati si vedevano – e che i ceti medi e altoborghesi non avrebbero gradito l’arrivo di inquiete masse rurali nelle vie del centro. Così i provvedimenti contro la migrazione interna, già in funzione dal 1926, vennero rafforzati.
Venne poi fatto un immenso sforzo propagandistico per magnificare e idealizzare la campagna e la vita campestre. Mussolini non voleva – come invece si è sostenuto – irrigidire la società dividendola tra cittadini e campagnoli ma voleva controllare ogni cambiamento economico e sociale, indirizzandolo a suo piacimento: e sapeva che l’afflusso regolato di manodopera contadina nelle città industriali era necessario e vitale. L’esaltazione della vita rurale doveva servire piuttosto a incrementare l’agricoltura, per rendere il Paese autonomo dal punto di vista alimentare (risultato raggiunto), e a favorire la parte «sana» del popolo, che il duce individuava nelle campagne.
È stato anche ipotizzato che il «ruralesimo» di Mussolini fosse soltanto un mezzo per «nascondere di fronte alle masse contadine le loro peggiorate condizioni» (G. Carocci). Sembra però più giusto collegarlo alla politica demografica: le famiglie contadine erano di gran lunga le più prolifiche e la crescita della popolazione – con il conseguente bisogno di «nuove terre» – era essenziale per i progetti espansionistici di Mussolini. Dunque il ruralesimo e la necessità di vincolare alla terra non rappresentavano una tendenza conservatrice nel senso consueto di distinzione tra classi e classi, ceti e ceti: volevano anche preparare psicologicamente e socialmente la politica espansionistica e dunque la politica militarista, che costituivano la spina dorsale del fascismo e attendevano soltanto il momento propizio per manifestarsi.
La politica demografica, come vedremo, sostanzialmente fallì; il flusso verso le città continuò e «avvenne questo fatto singolare: che l’Italia divenne paese industriale proprio durante gli anni della ruralizzazione fascista» (P. Melograni). La politica economica di Mussolini, diretta idealmente e generalmente a migliorare i rapporti fra le classi sociali, finì per inasprirli sfatando uno dei principali miti della retorica fascista: il superamento dei conflitti di classe in una sintesi superiore (anzi «suprema»: lo Stato fascista) basata sul corporativismo.
La teoria corporativa, già adottata da D’Annunzio a Fiume, fece la sua prima vera comparsa nei programmi fascisti solo nel 1921, anche se in seguito si cercò di farla apparire come già sgorgata in precedenza dalla mente del duce. Il corporativismo, come dottrina e prassi d’integrazione sociale, si proponeva di superare i conflitti tra lavoro e capitale mediante l’azione conciliatrice e non discutibile dello Stato. Le corporazioni – una per ogni categoria professionale – rappresentavano sia i lavoratori sia i datori di lavoro. Avrebbero dovuto autoregolarsi, con statuti e organi creati appositamente, ma ricevettero sempre disposizioni dall’alto, in un sistema rispondente alla perfezione, come scrive Luigi Salvatorelli, «a un’etica politica per cui lo Stato-partito è tutto e l’uomo, al di fuori di esso, nulla».
Arrivato al potere, Mussolini cercò di convincere i proprietari a fondere la Confederazione dell’industria con la Confederazione delle corporazioni fasciste, ma non ci riuscì. In compenso nel giugno del 1925, con il Patto di palazzo Vidoni, gli industriali riconoscevano i sindacati fascisti come unici rappresentanti dei lavoratori, dando il colpo di grazia al sindacalismo dei popolari e dei socialisti. In cambio il governo abolì le commissioni di fabbrica; l’anno successivo fu soppresso il diritto di sciopero e di serrata. Ma, mentre i lavoratori d’ora in poi saranno rigidamente inquadrati e in tutto dipendenti dal potere politico, i datori di lavoro manterranno ancora molta autonomia.
Nel 1926 vennero anche istituite le confederazioni parallele di datori di lavoro e lavoratori (industria, agricoltura, commercio, trasporti marittimi e aerei, trasporti terrestri e navigazione interna, banche, professionisti e artisti); furono proibite le associazioni sindacali di magistrati, in...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fascisti
  4. I. Il culto della patria
  5. II. Mussolini
  6. III. La nascita del fascismo e della dittatura
  7. IV. Gli italiani di Mussolini
  8. V. Il regime degli italiani
  9. VI. Le guerre come unica scelta
  10. VII. La Resistenza e la RSI: guerra civile, di liberazione, di classe e di religione
  11. VIII. Il fascismo dopo il fascismo
  12. Conclusioni
  13. Bibliografia
  14. Copyright