Sulla collina pelata di Monteventano si inghiotte aria a tutt’andare. Alle pendici della sua schiena d’asino rumoreggia il Luretta che, con le piogge dei giorni scorsi, ha messo su boria. Risalendo dall’opposta sponda si incontrano il sole e le colline a pan di zucchero bruciacchiate e spelacchiate, che portano in groppa castelli e torri con una disinvoltura tutta loro speciale.
Oggi è indiscutibilmente una bella giornata e se le nostre gambe ci avessero portato sul monte Penice avremmo potuto bearci di vedere l’onnipossente Po adagiato nelle sue curve larghe e argentee, ed i paesi fino alle Alpi di Bergamo e di Verona in una scala digradante di puntini rossi e bianchi.
Invece a Monteventano la pianura non porta che un po’ di nebbia, una corriera all’una e mezza e una alle sei; un giornale corrotto e, quando meno ci si aspetta, le sortite della parte avversa.
Di solito però ci si incontra a metà strada con le colline a portata di mano; di notte si sta in agguato nei fossi lungo la via Emilia. È per così dire un’abitudine tollerata anche dai nostri nemici, quella di cambiare di proprietario a cinque o sei macchine per sera. La Wehrmacht ha fatto un bilancio e si rassegna a malincuore. La Repubblica sociale, invece, se ne è profondamente avvilita. Come poter continuare a scorrazzare in Aprilia, in 1100, se questi rozzi montanari si sono specializzati nello stesso genere? Come rimediare? Il coraggio non manca, ma dopo la prima raffica se non si fa alt, si rischia di morire in un colabrodo. E per chi si umilia ad andare a piedi il magone non vuole andare giù.
«Fate i bravi» ci hanno detto. E ci hanno proposto una linea e ci hanno offerto un territorio dove potremmo circolare senza essere molestati. Nel frattempo, però, si soffia nell’orecchio al padrone di casa perché si organizzi una pulizia in grande stile del tipo di quelle fatte sotto le feste di Pasqua. Truppe asiatiche stavano arrivando dal fronte e dalla Slovenia, perché non impiegarle in queste belle valli? «Hanno molta fame i vostri calmucchi?» dice la repubblichetta. «Mandateli a far visita a questi ridenti paesi: grassi e ben pasciuti. Un pugno di mosche li molesta; mandateci i vostri gialli e la puzza stessa della loro pelle li decimerà.»
Parlare in questi termini alle brache di cuoio ed alle giacchette corte è un po’ come solleticare il loro orgoglio e dare un altro colpo di vite alla loro superbia. «Quanto ci date?» dicono gli stivaletti a mezza gamba. «Si vedrà, si vedrà» dice la RSI, ed intanto da un mese non fa che chiedere somme agli industriali ed ai proprietari terrieri. Verso la metà di novembre sono pronti nelle casseforti del partito venticinque milioni. Il platzkommandantur che ha annusato a distanza la cospicuità della somma dà il nullaosta alle truppe mongoliche, che vengono ad acquartierarsi nei dintorni della città. All’ultimo istante, però, ebbe come un pentimento e pensò di provvedere alla bisogna mediante l’opera di una divisione fresca fresca, appena sfornata dalla Germania. A dire il vero constatiamo che gli affari quella signora sociale non li sa fare. In capo a dieci giorni intere compagnie passano dalla nostra parte portando perfino delle batterie e gli ufficiali con tanto di mitra alle reni.
Fallita l’iniziativa, bisogna rassegnarsi a perdere i venticinque milioni. «Benedetti soldi,» pensa il padrone di casa «tutti belli, nelle loro filigrane rosse e nocciola.» Tanti pacchi soffici, come tanti guanciali in un letto d’amore; pazienza! si devono aprire le casseforti ed i foglietti rosa e nocciola esulano come tanti uccellini in autunno. Si prende una rivincita il signor procuratore della repubblica col dire che noi la pagheremo cara. C’è tutto nel conto, barba e capelli; foto a mezzo busto, corda al collo e viaggio di diporto nel paese dei Nibelunghi.
Così dice e noi si sta a vedere l’effetto delle polveriere che saltano sotto i mitragliamenti della RAF. Si pensa ai loro sonni interrotti, ai disturbi cardiaci che pesano su di loro come una sicura condanna. Abituati alle sbruffonate non si avrebbe mai pensato che i gialli si sarebbero mossi. Ma oggi, arrivando a Monteventano, ho visto delle brutte cere e troppa attività per non essere caduto niente dal cielo. Nei fianchi della collina si scavano delle trincee e nel cimitero viene nascosto il materiale che non si può trasportare. Gatta ci cova, penso, troppa elettricità in giro. Passano dei ragazzi che sono dei veri arsenali di guerra. Al sole si oliano le mitragliatrici ed in tutte le stanze della torre ci sono delle casse di bombe a mano aperte. Ognuno passa e ne raccoglie il quantitativo che gli aggrada. Io ne scelgo una di tutti i colori e una di tutte le forme, poi deambulo in cerca di qualche avanzo del mezzogiorno.
Un momento fa le colline erano fulve come schiene di gatti tranquilli che fanno le fusa; ora sul loro contorno pende una minaccia, continuamente devo ispezionarle perché sono convinto che d’attimo in attimo possano coronarsi di puntini neri. Maledetta tattica tedesca! Conquisteranno le groppe che abbiamo di fronte senza che noi ce ne possiamo avvedere; una colonna penetrerà nella valle che abbiamo dinanzi, un’altra nella valle che abbiamo alle spalle. Bisognerà essere svelti come loro nei movimenti; mai prendere posizione, mai barricarsi nei rifugi. Non posso dimenticare le nostre lunghe marce di avvicinamento sui monti del Württemberg; a volte si prendeva il fittizio nemico senza colpo sparare. Si camminava per ore ed ore fra i pini diritti della Selva Nera e la battaglia era vinta. Era vinta sul serio. Non si doveva che annientare la sacca.
Nel pomeriggio scendiamo in pianura molto vicino alla città. Nessuna molestia. Carichiamo tranquillamente cento quintali di grano e ritorniamo. Partito dal mare, è la prima volta, dopo tanti mesi, che percorro un’autentica pianura. Nell’abbandonarla, all’imbrunire, ho la sensazione di perdere un dono offertomi da poco. E me ne dolgo per il solo fatto che i pesci amano il loro elemento e gli uccelli l’aria ed i risaioli le loro pianure infinite.
Gran galoppata intorno ai terrazzi della collina. Sono salito su di un motofurgoncino che parte per Monteventano, senza sapere che il guidatore è il diavolo in persona. Mi sono assicurato che c’è qualcuno al volante e che la macchina quindi parte. Poi mi appisolo nell’attesa. Mai come in questa notte ho potuto stabilire delle precise differenze fra i rettilinei e le curve. Ci aggrappiamo l’un l’altro per non essere scaraventati fuori nelle brusche voltate. Non bastano improperi e maledizioni per scongiurare quel diavolo che veste una pelliccia bianca e un cappuccio da nanerottolo. Egli cambia continuamente marcia senza preoccuparsi delle nostre urla e dei nostri ruzzoloni in fondo al furgoncino. La luna si agita nel cielo e noi siamo agitati come delle medicine prima dell’uso. Finalmente con un’ultima potente fuga supera la dura salita della torre e ci scaraventa nell’aia. Mentre ci alziamo pesti dal fondo del furgoncino, il diavolo spegne il motore e scende di sella. Ci fa un bel sorriso e sparisce; è un ragazzino biondo, una festuca nelle mani di quel volante e di quel motore; ti venisse un acc…
Mentre noi riposiamo, tre colonne di asiatici, inquadrate dai tedeschi, con sezioni di artiglieria e mortai escono dalle porte della città e prendendo tre strade diverse si portano ad una diecina di chilometri dal nostro schieramento ed attendono l’alba.10
Il procuratore della repubblica, andando a letto stasera, in questa sera fredda di fine novembre, si sarà tolti i calzini soddisfatto, con la certezza di non aver più il sonno interrotto da detonazioni, di non essere più infastidito dall’eterna lamentela: «I partigiani sono alle porte… I partigiani sono in città!…».
«Venticinque milioni sono qualche cosa,» pensa «ma questa pace cosa vale, cosa vale?»
Mi sveglia il cannone. Un rantolare che finisce in uno scroscio di rumori secchi. Le valli si riportano il messaggio che va oltre le nostre spalle, lontano, come non dovesse estinguersi mai.
Le mortaiate ricordano le sghignazzate da melodramma che hanno il loro effetto nel troncarsi improvvisamente, alla nota più disumana. Le altre detonazioni invece si affievoliscono in distanza e ricordano quelle calde giornate d’autunno, la cui calma vien di sovente rotta dalle comitive di cacciatori che battono la campagna, il fucile pronto sul braccio. Anche allora si sobbalza e si inveisce contro quei fantocci dagli stivaloni di gomma rossa.
Tranquillamente, mentre cerco di decifrare fra le detonazioni il carattere del combattimento, una mucca si mangia il mio letto e quando non ha più paglia mi spinge un tantino in là col musone e si pappa quella che tenevo sotto al mio corpo che è proprio calda, calda. Mi ha rubato anche la coperta, ma denunciarla non conviene; si va troppo per le lunghe. Si potrebbe mungerla, ma con questo fastidioso volare di farfalloni nell’aria le mani non sono più disciplinate e si vorrebbe solo stare a vedere, stare a sentire. Mi levo dal caldo umidore della stalla, prendo il coraggio a due mani e mi getto fuori dalla porticina di legno correndo a bagnarmi sotto la fontana. Poi mi asciugo con il mio fazzoletto tuttofare e corro nel cortiletto per riscaldarmi.
«A momenti si parte» mi dice il commissario di guerra. «Hai già fatto colazione?»
Rispondo negativamente e lo seguo nel refettorio. Alcuni ragazzi stanno intorno alla radio e cercano evidentemente l’onda su cui trasmettono i nostri comandi. Infatti una voce chiara si fa presto sentire sopra la farragine dei rumori e dei ti-ti-taa delle radio da campo, una voce limpida, una voce nostra. Non sapremmo dare una fisionomia a quella voce, ma in mezzo a mille l’avremmo riconosciuta per nostra. Per una diecina di volte ascoltiamo il richiamo attentamente, con l’angoscia dipinta sul viso, con le mani che non sanno star ferme e tante parole in bocca che si vorrebbero pronunciare, ma l’aria di lutto c’impedisce tutto e si tace. Poi ci si allontana scorati mentre la voce limpida scandisce le parole del messaggio: «Trattenerli col mortaio – trattenerli col mortaio – Occorre un camion di grossa portata – occorre un camion di grossa portata – Ci sono morti e feriti – ci sono morti e feriti – Trattenerli col mortaio – trattenerli col mortaio…». La voce diventa sempre più preoccupata, angosciata, ma non perde la sua limpidezza che ci fa vedere la battaglia nel suo inferno di fuoco, di morte, di paura. Una voce che ci proietta nelle parole sempre uguali il mutare di scena, le speranze, le difficoltà, il morale degli uomini della Rocca. «Il fuoco sulla Rocca – il fuoco continua sulla Rocca…»
La voce s’è spenta. Io vedo i ragazzi dietro le strette feritoie, dietro le rupi, dietro i sacchetti di sabbia rispondere all’uragano che si abbatte minaccioso, con la rabbia intelligente di uccidere, di non sprecare un colpo. Sorriso grave di cecchini, inquietudine di cannonieri. Si sente portato dall’onda il tamburellare ordinato della venti millimetri.
Poi ricomincia la voce: «Trattenerli col mortaio – trattenerli col mortaio…». Ed ha un’intonazione già di nuovo mutata. Un’altra scena, nuovi presagi.
Esco con Gino.11 «Saremo capaci di fare la guerra noi?» penso.
«Saremo capaci di fare la guerra?» chiedo al commissario di guerra. Gino mi guarda con i suoi occhi sempre sorridenti: «Siamo capaci di sparare,» dice «è già una bella cosa. Siamo capaci di correre, ed è già un’altra bella cosa. Poi siamo tanto invisibili da poter ritornare sui posti che occupavamo e ridare ancora grattacapi: ed è la cosa che ha più importanza di tutte: è la nostra campagna. Siamo infine dei ribelli, e non ci resta che adottare la tattica del buon senso; sciogliersi come neve al primo sole, riprender figura e fiato, ma non piantare mai le radici su di una vetta o in un affetto. Se non si muore lungo la strada, si arriva sempre a vincere».
Quando ha finito di parlare, di Gino rimangono ancora nei miei timpani tutte le sue «erre» buffe che non vogliono morire prima di aver ronzato per bene.
Di’ questa frase, Gino: «Il re d’Inghilterra ha fatto la guerra per mare e per terra contro il re del Perù». Lui ride.
Le mitragliatrici tedesche riempiono l’aria dei loro rosari di scoppi vicinissimi; il battito delle elitre di cento calabroni. Le nostre rispondono con calma: ta-ta-ta-ta-ta.
Per tornare a Bobbio dobbiamo seguire il capriccio delle montagne e portarci molto vicino alla Rocca. Infatti, mentre ci sbarazziamo delle pareti che ci sminuzzano l’orizzonte il grido della battaglia cresce. Di passo in passo. Verrà il momento, mi dico, in cui udrò ansimare gli uomini e premere le dita sopra i grilletti. Ma l’uragano si sfoga tutto là, in basso, dove i nostri occhi non possono ancora giungere; c’è un torrente che cerca di salire i ripidi fianchi del monte che porta in cresta una corona corrosa di pietre squadrate e selvagge; un torrente con la schiuma rossa di fuoco. Fermeranno il suo dilagare?
«Li fermeranno?» domando a Gino.
Gino non risponde. Siamo arrivati a guardare nella valle contesa.
«Guarda» mi dice. «Vedo un’alta colonna di fumo al margine di un grosso paese.»
«Ti sembra un pagliaio quello che brucia?» chiede.
«Potrebbe esserlo» rispondo.
«E quella casa potrebbe essere un mulino?»
«Un mulino, o qualcosa di simile, sì certo.»
«No, no, è un mulino. Vedo la ruota.»
Invisibile s’incrocia la morte laggiù.
«Ho lasciato ieri mattina mia moglie in quel mulino là, vicino al pagliaio che brucia. Sarà caduto un colpo di mortaio nella paglia? O sono già arrivati loro ad incendiarlo? L’ho portata via dalla città perché mi sembrava in pericolo, ed ora… Sarò stato egoista? Ho voluto averla vicina. Che le faranno quelle bestie?»
Quando la strada piega a destra e noi dobbiamo perdere l’immagine della valle, Gino si ferma un attimo a guar...