Io non avevo l'avvocato
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Io non avevo l'avvocato

Una storia italiana

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Io non avevo l'avvocato

Una storia italiana

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«Guardia di finanza, apra subito.» Sono le cinque del mattino del 23 febbraio 2010, l'alba di una delle tante giornate di lavoro di un professionista milanese, quando il suono del citofono interrompe bruscamente i suoi ultimi momenti di riposo. L'incredulità, le febbrili perquisizioni, una gigantesca ordinanza di custodia cautelare, il trasferimento in caserma e poi in carcere. Inizia così la vicenda kafkiana di Mario Rossetti, raccontata in prima persona dal protagonista, ex direttore finanziario di Fastweb, coinvolto nell'inchiesta Fastweb - Telecom Italia Sparkle su una maxifrode da due miliardi di euro. Nell'Italia degli scandali infiniti la notizia conquista con clamore le prime pagine dei quotidiani, gli imputati sono additati come sicuri colpevoli, mentre Rossetti, che tre anni prima aveva visto archiviata la sua posizione per la stessa ipotesi di reato ed è ormai lontano dal mondo delle telecomunicazioni, non riesce a comprendere neppure che cosa stia succedendo. Intanto incomincia l'odissea carceraria, tra San Vittore e Rebibbia, le asprezze del penitenziario, temperate dalla solidarietà dei compagni di cella, i «concellini». Un mondo che sconvolge ogni schema, dov'è possibile trovare umanità e conforto in una suora come in un boss con oltre trent'anni di galera. Una «terra di nessuno», con le tante assurdità che ne scandiscono le giornate, come le celle da sei adattate a nove persone, gli innumerevoli ostacoli per ottenere qualsiasi cosa, anche un colloquio, l'impossibilità di svolgere qualunque lavoro, la preoccupazione dominante di far passare il tempo interminabile, i piccoli rituali, come il caffè, la camomilla, la preparazione del ciambellone offerto ai congiunti in visita. Quattro mesi di carcere tra Milano e Roma, gli arresti domiciliari, tre anni di processo, 147 udienze, il sequestro di ogni bene, persino dei ricordi più cari, che costringe la moglie a bussare alla porta di parenti e amici per poter andare avanti. La disavventura giudiziaria del manager prosegue intrecciandosi con quella umana e familiare, che avrà conseguenze impreviste e drammatiche. Si arriva così alla sentenza di primo grado del 17 ottobre 2013, che, riconoscendo la totale estraneità ai reati contestati, mette fine all'incubo. Un'ingiustizia di cui nessuno risponderà e che per Rossetti non è semplicemente figlia di un terribile errore ma è la conseguenza delle tante anomalie del nostro sistema giudiziario. L'autore invoca così una radicale riforma della giustizia e un profondo ripensamento delle carceri, affinché si trasformino, da gironi infernali, in luoghi di reinserimento sociale degni di un Paese civile.

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Informazioni

La sentenza

Il 17 ottobre 2013, giorno del verdetto, non mi trovo a Roma. L’indomani mattina devo portare Leone a una visita di controllo a Londra, ed è impossibile prevedere a che ora la corte uscirà dalla camera di consiglio.
Vivo tutta la giornata in attesa finché Lucio mi chiama dal suo studio per dirmi che la corte sarebbe uscita di lì a mezz’ora. Io e Sophie lo raggiungiamo subito. Francesco, che si trova nell’aula del processo, quando arriva il momento telefona. Lucio mette l’apparecchio in vivavoce per ascoltare insieme la lettura della sentenza. Ma la ricezione non è buona e non capiamo quasi niente.
Poi sentiamo una specie di boato.
Il mio telefono comincia a suonare. Stefano Parisi è il primo a gridarmi, fuori di sé dalla felicità e dal sollievo: «Assolti!». Poi non ricordo più cosa è successo, con chi ho parlato, una raffica di grida, risate, congratulazioni, abbracci...
Mi sento come su una nuvola, parlo e non mi ascolto, sorrido, mi commuovo e quasi non connetto, rivedo a sprazzi tutto quello che è successo, le speranze, le paure di tre anni. Penso all’onore ritrovato di mio padre, a tutte le persone che hanno avuto fiducia nella mia innocenza.
Abbraccio Lucio in quello che è diventato molto di più di un rapporto professionale e parlo al telefono con Vittorio, sorpreso in positivo dal coraggio della corte, smentito dai fatti nel suo cinismo.
Torno a casa con Sophie e abbraccio a lungo i bambini. Poi mi metto davanti alla televisione per vedere se qualcuno riesce a dire cose sensate sulla sentenza.
Il giorno dopo mi sveglio prestissimo e vado a correre che è ancora notte ai giardini pubblici di porta Venezia. Torno a casa con i giornali e mi fiondo in aeroporto per andare a Londra a rincorrere un’altra speranza del cuore.
Il giorno dopo, Fastweb compra su tutti i principali quotidiani una pagina intera per dire che siamo stati assolti. L’ho incorniciata ed è lì nel mio studio come memento di quello che è stato.
Requisitoria-arringa difensiva-sentenza-motivazioni della sentenza. Un motore a quattro tempi che spinge l’imputato in attesa di giudizio verso la cella o la libertà.
Nel mio caso, e dico per fortuna, perché tutte le circostanze di questa brutta vicenda mi inducevano a non essere ottimista circa l’esito finale, la «compressione» della requisitoria è stata seguita dallo scoppio di una difesa forte e dallo scarico di una sentenza magistrale.
L’aspirazione, mia come degli altri imputati assolti, sarebbe stata vedere poi ampiamente riconosciute dall’opinione pubblica le nostre ragioni – quelle ragioni che ci avevano condotto all’assoluzione – anziché leggerle solo nelle 1800 pagine delle motivazioni della sentenza. Avremmo voluto vederle anche sulle pagine dei giornali, dei media, pubblicate dagli stessi che avevano scandito con ossessiva puntualità le fasi iniziali degli arresti, delle accuse, delle ricostruzioni incomprensibili delle frodi di cui saremmo stati complici.
Non è andata così. Si è visto un articolo su un quotidiano, buono ma comprensibilmente focalizzato sui segreti dei condannati – diamanti, donne, auto fuoriserie e pistole – anziché sulle riconosciute ragioni di noi assolti; poi qualche trafiletto qua e là, qualche articolino su giornali online, giusto perché lì lo spazio non è un problema. Niente di più.
I mostri sbattuti in prima pagina, quand’anche hanno la buona ventura di essere riabilitati da quella stessa magistratura che li aveva sommersi di fango, devono poi vedersela da soli per ricostruire la loro reputazione presso le persone cui tengono, che amano, amici, clienti, datori di lavoro...
Dovrebbero investire cifre astronomiche in campagne pubblicitarie, per ricostruire la propria immagine. Ma di regola non ne hanno i mezzi. E anche quelli che li avrebbero neanche ci provano, e per varie ragioni. In primo luogo, non è la stessa cosa riabilitarsi da soli quando un altro ti ha diffamato. Poi, fin quando la vicenda giudiziaria non è conclusa, difficilmente hai voglia di dire ciò che pensi di chi ti ha inchiodato a una croce che non meritavi, perché ciò potrebbe attirare l’attenzione, che non aiuta mai in un processo. Quando poi, alla fine di tutto, dieci o dodici anni dopo l’inizio del calvario, potresti dirgliene quattro e gridare al vento la tua verità, ti accorgi che non gliene frega più niente a nessuno.
Sono stato diffamato. Senza vergogna. Senza esitazioni, con stolida e proterva indifferenza nei confronti della verità e del buon senso, sono stato incarcerato. Con la stessa volontà demolitoria e cieca si è chiesta la mia condanna. La requisitoria dei pm è stata un capolavoro di coerenza. All’inizio, un mandato di cattura immotivato e quindi incomprensibile. Alla fine, la richiesta di condanna. In mezzo, nulla. Semplicemente la conseguenza di una premessa. Nessuna prova, nessun argomento, niente di niente.
Dall’inizio alla fine di questa vicenda, i pm mi hanno sostanzialmente contestato solo di aver fatto bene il mio lavoro o, meglio, il fatto che, essendo un «esperto di professionalità altissima», non potevo non aver capito che sotto il profilo commerciale l’operazione non stava in piedi. E allora perché non chiederne conto ai commerciali e a chi ha firmato i contratti? O a tutte le persone che hanno lavorato su questi contratti e hanno testimoniato al processo affermando di non aver notato niente di anomalo? O tutta l’azienda era coinvolta nella truffa oppure qualcosa non torna sul piano logico, proprio come afferma il tribunale nella sentenza.
Non sono riusciti in alcun modo a dimostrare che io abbia ordito o avallato la truffa. Mi hanno addebitato responsabilità su funzioni interne all’azienda – a loro volta gestite da persone sostanzialmente vittime del raggiro, e non complici – di cui comunque non mi occupavo e su cui non avevo alcuna giurisdizione: l’audit, prima fra tutte.
Noi riteniamo che, per le implicazioni specifiche dell’operazione, per i riflessi sul bilancio e sull’impegno di cassa, tutte competenze specifiche della funzione che Rossetti ricopriva, sia a lui, in sostanza, riconducibile la responsabilità dell’avvio e del mantenimento sia dell’Operazione Phuncards che dell’Operazione traffico telefonico.
Così scrivono i pm nella requisitoria. In sostanza, dicono. Ma quale sostanza?
E insistono nella requisitoria:
E noi abbiamo conferma, in realtà, dalla stessa voce di Rossetti, che ha studiato bene l’operazione a fine 2002 quando, come dice Zito [funzionario della direzione commerciale di Fastweb condannato a sei anni], l’azienda doveva decidere se inserirla nel piano operativo, cioè nel cosiddetto budget del 2003, ovvero in quel prospetto che indica la programmazione commerciale, la linea dei ricavi che si prevedono per l’anno futuro, con tutte le conseguenze che ne derivano. Perché, una volta indicato in quel budget quell’ammontare di ricavi, poi togliere quell’operazione significa doversi inventare quello stesso ammontare di ricavi da un’altra parte.
La distanza siderale che c’è tra la cultura giuridica della procura e la realtà, anche lessicale, di una grande azienda quotata emerge in ogni riga, quasi in ogni parola del testo scritto dai pm. E si risolve in un cumulo di accuse apodittiche contro di me, e non solo. Tutte prive del benché minimo riscontro.
Rossetti, che ha studiato le operazioni sotto il profilo amministrativo, deve essersi reso conto che dal punto di vista commerciale non erano tesi sostenibili
scrivono i pm. Ma allora perché non prendersela con il commerciale?
La loro tesi è che quel business avrebbe dovuto apparirmi così inconsistente da non doverci fare nessun tipo di affidamento. E indurmi a intervenire, sia pure oltre il mio ruolo. Come se fosse in sostanza dipeso da me, e solo da me, al di fuori delle procedure, delle regole, delle ripartizioni di competenza e quindi di responsabilità con cui l’azienda operava.
E ancora, giù con la clava, nel cuore della requisitoria:
Rossetti è la persona che più di ogni altra conosce l’operazione per averla studiata sotto ogni profilo, fiscale e creditizio.
Soprattutto, secondo loro, avrei dovuto capire che era un’operazione «assolutamente volatile» e quindi illecita. Chissà perché.
Di più: il Tribunale del Riesame mi aveva accusato di essermi procurato un alibi chiedendo al professor Guido Rossi un parere pro veritate sull’operazione, nonostante risultasse agli atti che quel parere non l’avevo chiesto io. Ma niente: secondo i pm, nella mia posizione di direttore finanziario non potevo non aver capito che nel giro dell’Iva si annidava una truffa. Che però non commetteva Fastweb!
Queste contraddizioni logiche vengono riprese ed esplodono nelle motivazioni della sentenza della corte, quando i giudici scrivono (p. 579):
Non può non evidenziarsi e tenere nella giusta considerazione il fatto che tale elemento, così significante per l’accusa, non ebbe a sortire né all’inizio né successivamente alcun allarme, alcun sospetto tale da indurre soggetti mai indagati (solo a titolo esemplificativo, Andrea Conte e Onofrio Pecorella [funzionari della direzione commerciale di Fastweb] nella fase iniziale, tutti coloro che parteciparono operativamente nella transazione e Carlo Micheli [vicepresidente di Fastweb e presidente del comitato di audit] nel prosieguo) a non portare avanti la proposta commerciale e, dopo la sospensione intervenuta nel primo segmento temporale, a chiuderla definitivamente, dati i risultati raggiunti;
e poco più avanti (pp. 820-21) aggiungono:
L’istruttoria dibattimentale ha fornito la prova granitica del fatto che nessuno fra coloro che ebbero ad operare all’interno delle varie aree funzionali di Fastweb, ciascuno in relazione ai propri ruoli operativi, ebbe a percepire l’esistenza di queste macroscopiche atipicità che fondano il giudizio penale dell’accusa [...]
Diversamente opinando, proprio l’evidenza di tali anomalie avrebbe dovuto condurre, per come già segnalato, a estendere il profilo della complicità ben oltre quella cristallizzata nel capo di imputazione.
Ovvero, signor procuratore, con il buon senso delle persone normali e non con il codice penale, o in Fastweb erano tutti complici o hai scelto discrezionalmente le vittime che ti interessavano di più. Individuandole in quelli più alti in grado. Una specie di responsabilità oggettiva. E hai fatto male il tuo lavoro, ma nessuno te ne chiederà mai conto.
È stato scritto, e trionfalisticamente attribuito alla procura, che con l’inchiesta è stata scoperta un’enorme evasione fiscale. Falso. I soldi evasi sono rimasti dove li hanno nascosti, se non spesi, gli evasori, mentre due società quotate, e come tali trasparenti e raggiungibili in ogni momento – Fastweb e Telecom Italia Sparkle –, sono state costrette a pagare 365 milioni di Iva evasa da altri. Sono state rese vittime di un danno che altri avevano causato. I loro azionisti, i loro dipendenti, i loro fornitori sono stati defraudati. Avevano pagato regolarmente l’Iva sulle fatture emesse dalle società-cartiere. I percettori di quest’Iva non l’hanno versata. Se la sono mangiata, rubata, fagocitata. E così le società onorate, note e coercibili – Fastweb e Telecom Italia Sparkle – che l’avevano già pagata una volta, hanno dovuto pagarla una seconda volta, sotto la minaccia di commissariamento. Ti devi difendere dallo Stato, che invece dovrebbe garantire le condizioni per sviluppare la tua attività.
E quest’abominio ha fruttato l’encomio solenne per il brillante capitano della Guardia di Finanza che ha compiuto l’indagine. Altro che recupero dell’Iva evasa, forse lo stesso Stato dovrà pagare anche i danni alle aziende: sarebbe solo giusto.
Tornando alla sentenza, leggo (p. 718):
Non può ignorarsi, infatti, come l’aspetto prettamente penale sia solo uno dei profili di responsabilità cui potenzialmente incorre Crudele [funzionario della direzione commerciale di Fastweb che ha patteggiato una condanna a 5 anni], apparendo addirittura pacifico che l’eventuale concentrazione su di sé (e Bruno Zito) della responsabilità, determina un vero stravolgimento nella ricostruzione dell’intera vicenda processuale nella quale le due compagnie telefoniche e, processualmente, i soggetti imputati, perderebbero la facies di soggetti complici per rivestire l’opposta posizione di parti lese nella medesima vicenda giudiziaria, con potenziali enormi ricadute personali sul piano anche risarcitorio.
Come dire: se prendiamo atto della verità, dobbiamo assolvere gli innocenti, e in tal caso quale risarcimento darà loro lo Stato? Giustizia alla rovescia...
La mia difesa è stata, inutile dirlo, puntuale e argomentata, ma impotente ad aggiungere all’evidenza elementi più forti. Era palese che non c’entravo, che non sapevo. Nell’arringa conclusiva la mia difesa l’ha ribadito con forza, come sin dal primo giorno. Stavolta è stata creduta, e meno male. Gli argomenti erano sempre gli stessi, ma in precedenza nessuno aveva voluto prenderli in considerazione.
Scrivono ancora nella sentenza i giudici del tribunale di Milano (pp. 619-20):
Alla luce di quanto appena esposto e tornando a quella «prova di resistenza» prospettata nell’incipit della disamina dell’Operazione Phuncards come indispensabile strumento di valutazione del coinvolgimento degli imputati Silvio Scaglia e Mario Rossetti nella vicenda processuale che ci occupa, ritiene il Collegio come netto sia il giudizio della loro totale estraneità ai fatti. Non essendo dimostrata né dimostrabile la conoscenza da parte di questi ultimi di quel portato probatorio formidabile costituito dagli esiti della complessa attività rogatoriale, che costituisce il vero pilastro della dimostrazione dell’inesistenza effettiva della transazione commerciale delle carte prepagate (quale fittizio strumento per perpetrare la frode carosello), la effettività economico-contabile della stessa, in una con l’effettiva erogazione da parte dell’azienda dell’imposta sul valore aggiunto, l’attenta analisi di tutte le emergenze dibattimentali non consente di ritenere che l’utilizzazione nella dichiarazione Iva dagli stessi predisposta, approvata e sottoscritta relativa all’anno 2003 delle fatture emesse da CMC s.r.l. e Web Wizard s.r.l., sia stata supportata dalla consapevolezza della fittizietà dell’intera transazione, donde la doverosa assoluzione dei due imputati, quanto al capo 2 di imputazione, perché il fatto non costituisce reato.
Dunque: gli inquirenti non avevano mai trovato alcuna prova del loro teorema, che cioè noi imputati «telefonici» sapessimo che le operazioni in questione erano finalizzate solo a evadere l’Iva, ma soprattutto non avremmo potuto capire la truffa non avendo accesso alla ricostruzione della circolarità dei flussi finanziari, fatta successivamente tramite le rogatorie internazionali. E allora perché incriminarci, soprattutto perché arrestarci e poi chiedere la condanna?
Nella sentenza si legge ancora (pp. 844 e 848):
Ritiene il Collegio che le dichiarazioni rese dal Contin appaiono convincenti e sono corroborate dalla complessiva ricostruzione della vicenda emersa dal dibattimento. [...]Si impone, pertanto, l’esito assolutorio del giudizio a carico dell’imputato, di cui risulta acclarata l’assoluta estraneità ai fatti associativi a lui contestati al capo 1 di imputazione, per non aver commesso il fatto. Avuto riguardo alla posizione dell’imputato Mario Rossetti e a completamento di quanto già riferito nella precedente parte motivazionale, osserva il Collegio come ancora più sfumata risulti la sua partecipazione nell’ambito dello svolgimento dell’Operazione traffico elefonico.
Ancora più sfumata... quattro mesi di carcere, otto di domiciliari, tre anni senza soldi, da cittadino dimezzato, per qualcosa di «ancora più sfumato». Eppure era chiaro che non c’erano i presupposti per stabilire che io fossi consapevole e complice, lo spiegano le motivazio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Io non avevo l’avvocato
  4. Febbraio 2010
  5. Una cella per nove
  6. Le pene non scritte
  7. Io e le Toghe
  8. I domiciliari
  9. Il processo: tre anni e 147 udienze
  10. Il ritorno alla libertà senza normalità
  11. La sentenza
  12. Maggio 2018
  13. I fatti
  14. Postfazione. di Mario Rossetti
  15. Nota. di Sergio Luciano
  16. Ringraziamenti
  17. Copyright