Tiberio
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Tiberio

L'imperatore che non amava Roma

  1. 192 pagine
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Tiberio

L'imperatore che non amava Roma

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Indelebilmente segnato, nei secoli, dai giudizi negativi e dalle descrizioni infamanti che fecero di lui scrittori e storici repubblicani come Svetonio e Tacito, l'imperatore Tiberio, ancora oggi, è legato nel ricordo collettivo a efferate immagini di crudeltà e perversione. Ma Tiberio fu calunniato, anzi peggio: non fu capito. L'intera esistenza di questo imperatore, il primo successore di Augusto, fu enigmatica e complessa, travagliata da dolori e incomprensioni e contraddistinta da tutte le inquietudini di una società in rapida trasformazione. Nato in una famiglia in seno alla quale si macchinavano oscuri complotti, oppresso da una madre dal carattere autoritario, Tiberio tentò sempre di allontanarsi da Roma e dal centro del potere, guidando con stoico eroismo le legioni ai confini dell'Impero e cercando di ritirarsi in luoghi isolati come Rodi e la prediletta Capri. E forse proprio da questo comportamento fuori dalle convenzioni e da questa irrequieta ricerca di libertà, doveva nascere la sua leggenda nera.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852061721
Argomento
Historia
Parte seconda

LOTTE DI PALAZZO

Un mortale come tutti

I

L’esilio di Rodi, in parte volontario in parte forzato, si era prolungato per poco meno di otto anni. Tiberio tornava a Roma sulla soglia del quarantatreesimo anno. Aveva consumato su quell’isola, inattivo, le stagioni più vigorose nella vita d’un uomo. Il suo era stato un esilio assurdo, inconcepibile per un generale irrequieto che aveva percorso il mondo intero con la spada in pugno o con la toga del governatore sulle spalle. Tornava disfatto e anche umiliato, ma deciso a farsi valere. Durante la lontananza pochi lo avevano onorato, molti lo avevano trascurato convinti che la sua stella fosse tramontata. Rientrava nutrendo nell’animo sentimenti contrastanti di vendetta, per i molti che lo avevano vilipeso, e di gratitudine per i pochi che avevano continuato a dimostrargli stima e ossequio.
Fedro il favolista colse questa condizione e rappresentò Tiberio sotto specie d’una pantera vendicatrice. Un giorno una pantera cadde in trappola. Accorsero alcuni contadini che la presero a bastonate e a sassate. Poi se ne tornarono a casa sicuri che di lì a poco la bestia sarebbe morta. Altri contadini, invece, furono mossi da pietà e le diedero un pezzo di pane perché si sfamasse. La pantera riacquistò le forze; essendo riuscita a liberarsi, si mise a far strage di contadini. Coloro che ne avevano avuto pietà la scongiurarono di salvarli. La pantera così parlò: «Mi ricordo di chi mi lanciava sassi e di chi mi diede un po’ di pane. Non temete: io torno nemica solo di chi mi offese».
Tiberio, per risalire la china, avrebbe usato l’astuzia e la pazienza, all’occorrenza anche la forza. Un incoraggiamento, un segnale in questo senso gli era venuto dal cielo qualche giorno prima di lasciare Rodi: un’aquila si era posata sul tetto di casa sua, e questo era un avvenimento straordinario perché sull’isola non si era mai visto prima di allora un simile rapace.
Giunto a Roma, non volle tornare nella sua vecchia abitazione del Palatino, accanto a quella di Augusto, ma preferì trasferirsi più modestamente sull’Esquilino, negli horti di Mecenate. Si dedicò all’educazione del figlio Druso, quattordicenne, che aveva tanto a lungo trascurato. Riprese gli studi di filosofia, anche perché, sotto la pressione dei suoi avversari, gli era vietato di occuparsi della cosa pubblica. Leggeva Esopo, mostrando di non aver fretta di gettarsi nuovamente nella vita politica e militare.
Erano invece in piena attività i due Cesari, Gaio e Lucio, più che mai amati dal sovrano. Essi si davano oltremodo da fare creandogli nuove difficoltà. Sembrava che Tiberio non avesse sbocchi, e furono soltanto alcuni eventi imprevisti a rimetterlo in gioco. In quei giorni, uno dei due giovani Cesari, Lucio, era in viaggio verso la Spagna, dove avrebbe dovuto raggiungere gli eserciti colà stanziati, ma, arrivato a Marsiglia, cadde misteriosamente ammalato. In breve morì. Tiberio, nonostante tutto, si mostrò scosso dalla notizia d’una morte così repentina, e scrisse di getto in memoria dell’estinto un carme doloroso che intitolò Conquestio de morte L. Caesaris. Ma a Roma la gente mormorava e sospettava che la madre Livia, per mano dei suoi complici, non fosse estranea al luttuoso evento. La morte prematura era dovuta ad avvelenamento? Si diceva di sì, e tutti erano convinti che fosse stata Livia a sbarazzarsi di Lucio per far largo al figlio verso la successione al principato.
La casa di Augusto appariva bersaglio della cattiva sorte, e non passarono infatti venti mesi che un nuovo lutto si abbatté su di essa. L’altro nipote prediletto del principe, Gaio, il giovane già sostanzialmente designato alla suprema magistratura dell’impero, veniva gravemente ferito in Armenia, ad Artagira, dove si era recato con le sue legioni a ristabilire la potestà romana.
Durava da tempo l’assedio dei romani alla città fortificata di Artagira, quando il comandante armeno, Addone, chiese a Gaio un colloquio. Gli fu concesso e Addone, nel pieno dell’incontro, sguainò una daga e con questa colpì il giovane romano che aveva creduto nella possibilità di intavolare trattative di pace col nemico. La ferita non sembrava grave sicché le legioni poterono riprendere la battaglia, abbattere ogni resistenza degli armeni e invadere la città. Le legioni acclamarono Gaio imperator, ma la ferita, che non si era mai rimarginata, condusse il giovane alla morte, sulla strada del ritorno, durante una sosta a Limyra, in Licia. Aveva ventitré anni. Anche per Gaio si disse che era stata Livia a toglierlo di mezzo.
S’era fatto il vuoto intorno al vecchio Augusto, e dal vuoto spuntava la figura di Tiberio come unico possibile successore. Il sovrano aveva ancora un nipote, anch’egli figlio di Giulia, Agrippa Postumo, l’unico che gli restava, ma su di lui non poteva contare essendo sciocco, selvaggio, ottusamente fiero della sua forza fisica e dedito a vizi inconfessabili. Livia, sempre Livia, era perfino riuscita a farlo relegare sull’isola di Pianosa, rendendo pubbliche le sue inclinazioni omosessuali, e a dimostrare quanto fosse ribelle la sua indole. Il giovane fu anche accusato di lesa maestà avendo inviato una lettera di critiche al sovrano. Augusto, ogni volta che sentiva fare i nomi di Agrippa Postumo e di sua figlia Giulia, esclamava: «Questi sono i miei cancri!». Egli, ormai vicino ai settant’anni, era sempre più costretto, a causa dei suoi mali, a trascurare il governo dell’impero dalle frontiere così incerte e irrequiete. La stirpe Giulia non aveva più eredi validi da offrirgli, e a lui non rimaneva che una scelta obbligata, Tiberio, un Claudio, il meno amato dei suoi probabili successori. Il destino glielo poneva davanti, e a lui imperatore, padrone del mondo, non rimaneva che piegare la testa. Ma in nome della fortuna di Roma seppe fare buon viso a cattivo gioco. La riconciliazione con quel Claudio altero gli apparve come un dovere anche per l’opera di convincimento svolta dai filotiberiani. Decise quindi di adottarlo.
L’adozione fu celebrata il 26 giugno del 4 d.C. e avvenne senza che Augusto badasse a spese. Furono distribuiti alle truppe in festa alcuni milioni di sesterzi. Da quel momento l’adottato assumeva i nomi di Tiberio Giulio Cesare. L’imperatore lo presentò all’assemblea come un grande comandante militare, come il suo miglior collaboratore, e, ciò che più contava, come l’«unico presidio del popolo romano». Ma aggiunse una considerazione che poteva essere variamente interpretata: «Faccio ciò nell’interesse dello Stato». Era come dire: sono costretto a prendere questa decisione, ma la mia scelta sarebbe stata un’altra.
Nei fatti lo associava intimamente al potere restituendogli la potestà tribunizia per la durata di dieci anni, invece di cinque, insieme all’imperium proconsulare. La classe patrizia non gradì l’adozione, essendo propensa a considerare l’adottato come un usurpatore. Livia invece era infinitamente soddisfatta, ora nessuno avrebbe più tolto Roma dalle mani del figlio, un Claudio degno della sua stirpe. Tiberio aveva quarantacinque anni e si affiancava agli altri due personaggi che dominavano la scena romana, Augusto e la stessa Livia. Egli occupava finalmente il secondo posto nell’impero. Era scomparso Lucio, erano passati quattro mesi dalla morte di Gaio e due anni dal suo ritorno a Roma. Il popolo, scrive Velleio Patercolo suo ammiratore, quasi toccava il cielo con le dita per la gioia, poiché con lui l’avvenire appariva più sicuro. La sua successione, forse imminente considerate le condizioni di salute di Augusto, dava a tutti una speranza di pace e di tranquillità. Ma le guerre non mancavano.
La prima impresa che egli affrontò nella sua nuova veste fu quella di Germania. Il viaggio stesso fu un trionfo, dovunque era acclamato dalle legioni, vindex custosque imperii. Tornava per la terza volta nelle terre dove aveva già riportato grandi vittorie e che attendevano – si può dire che lo attendessero perfino i nemici – un uomo del suo vigore e della sua fermezza, tanto che alcune popolazioni, come i cherusci, gli si sottomisero spontaneamente. Sul Reno, sul fiume che costituiva il limite fra il mondo civile e i barbari, i suoi vecchi soldati riacquistavano fiducia nella vittoria, attorniavano negli accampamenti la sua alta figura. Amavano e stimavano quel generale di vecchio stampo romano: severo, metodico, paziente, che non dava battaglia senza essere sicuro di vincerla. Con lui i soldati non avevano mai dovuto lamentare una sconfitta. Egli appariva ora ai loro occhi ancor più bello e vigoroso, ampio l’addome, di come lo ricordavano. Erano tutti commossi. I soldati piangevano di gioia e accorrevano desiderosi di toccargli la mano. «Proprio te rivediamo, oh comandante!» gridavano, e rievocavano con lui le glorie passate. Molti avevano già combattuto ai suoi ordini, nella stessa Germania o in Armenia, nella Rezia o in Pannonia: «Io sono stato decorato da te tra i vindelici, oh generale!».
Attuò in quella spedizione una colossale manovra a tenaglia per terra e per mare. Il nemico si vide perduto; i langobardi, i cimbri, i cauci, i sennoni vennero sconfitti. I soldati romani erano arrivati all’Elba e il nemico non credeva ai suoi occhi, poiché, in forza della riuscita operazione anfibia, si trovò attanagliato fra le truppe di terra e la flotta romana che, provenendo dal Mare del Nord, aveva risalito l’Elba. Tiberio fu protagonista di imprese divine, come le definisce Velleio Patercolo che gli era al fianco nelle vesti di prefetto della cavalleria e di luogotenente.
I barbari deposero le armi. Mentre gli eserciti contrapposti erano schierati sulle rive dell’Elba, si verificò un piccolo ma significativo episodio che dimostrava quanto fosse estesa la fama del grande generale romano. Un capo barbaro di venerabile aspetto apparve nel bel mezzo del fiume su una imbarcazione ricavata da un tronco d’albero. Chiese a piena voce di essere condotto alla presenza di Tiberio. Glielo consentirono. Il capo barbaro stette un po’ in silenzio davanti a lui, e quindi esclamò: «Ti ringrazio, o Cesare, di avermi permesso di vederti. Grazie alla tua benevolenza oggi ho visto gli dei, dei quali prima avevo soltanto sentito parlare. Questo è il giorno più felice della mia vita». Non aggiunse altro e, dopo aver toccato la corazza di Tiberio, quasi per accertarsi di non sognare, risalì sulla sua rudimentale barca e tornò sull’altra riva del fiume.
Il grande generale aveva adesso mano libera per colpire l’obiettivo principale della spedizione, mentre favoriva nei territori occupati la creazione di partiti filoromani. L’obiettivo era costituito dall’inespugnabile forte dei marcomanni, nella Germania meridionale, il cui re Maroboduo, di volta in volta amico e nemico di Roma, aveva attratto a sé altri popoli vicini rappresentando un grave pericolo ai confini dell’impero. Le legioni di Tiberio stavano già per assalire l’esercito del valente ma infido Maroboduo, quando si diffuse la notizia d’una ribellione esplosa nell’Illirico. Si temette che i ribelli della Pannonia e della Dalmazia potessero unirsi ai marcomanni, invadere l’Italia ed essere a Roma, come disse lo stesso Augusto in Senato, in meno di dieci giorni. Tiberio evitò questo rischio ingaggiando e vincendo, in tre anni e con quindici legioni, una guerra che poté essere paragonata a quella condotta contro Annibale per ardimento e validità strategica. Certo, nessuno poteva negare che la guerra si prolungasse troppo, ma il compito del generale non era dei più facili. A Roma intanto si sospettava che Tiberio non ponesse termine ai combattimenti per sue proprie imperscrutabili ragioni, e comunque connesse con la scalata al potere supremo.
Grandi erano i rischi, immensi i sacrifici che le truppe dovevano affrontare, ma Tiberio, oltre ad avere il genio del comandante militare di razza, aveva anche uno spiccato talento organizzativo. Sebbene i viveri scarseggiassero di continuo, riuscì egualmente ad assicurare un minimo di approvvigionamenti per sopravvivere e per evitare che le truppe perdessero il vigore morale.
Grazie alle sue lunghe permanenze in Germania, sapeva come trattare con le legioni che operavano su quei lontani fronti, tra fiumi ghiacciati, immense foreste nebbiose e profondi pantani. Egli era un generale che non badava soltanto alle armi, ma anche e soprattutto agli uomini. Si occupava delle loro necessità e cercava di capirne la psicologia. C’era sempre un carro pronto per gli ufficiali feriti; la stessa sua lettiga era a disposizione di tutti, come lo erano i medici, le attrezzature sanitarie, la cucina, il suo bagno personale. I sacrifici dei suoi soldati erano i suoi sacrifici; rifiutava il triclinio per il pranzo, preferendo mangiare seduto, rapidamente, anziché sdraiato, a dispetto delle consuetudini. Penetrava l’animo dei popoli soggetti all’autorità romana, sicché non trascurava gli aspetti diplomatici delle sue missioni. Usando una sottile abilità diplomatica riuscì a evitare che Maroboduo si congiungesse all’Illirico ribelle. Lo blandì, lo lusingò fino a farlo tornare nell’ambito romano. Si disse che aveva stanato re Maroboduo così come avrebbe stanato un serpente nascosto sotto un cumulo di pietre.
La sua fama non aveva più confini. Tornò a Roma incoronato di alloro e con indosso la toga orlata di rosso; Augusto gli andò incontro festoso sulle porte dell’Urbe. Fu condotto al Campo di Marte nel solenne edificio marmoreo delle elezioni, dove salì su un podio. Sedette accanto al sovrano; il Senato rimaneva in suo onore rispettosamente in piedi. Dopo aver reso omaggio al popolo, si recò in corteo a visitare umilmente i templi. Fu nuovamente acclamato imperator, mentre veniva riconosciuto da Augusto suo coreggente. Il sovrano, stanco e ammalato, gli affidava i più importanti compiti dello Stato, ma gli negava altri onori. C’era chi proponeva di chiamarlo il «Pannonico» e chi l’«Invincibile» o il «Pio». L’opposizione del principe fu netta: «Un giorno egli si chiamerà Augusto» disse, ponendo termine alla questione. Non se ne parlò più anche perché nuove ribellioni richiamavano il generale ai confini dell’impero.

II

Tiberio era a Roma da cinque giorni appena, dopo aver lasciato la Germania, quando sopraggiunse una notizia luttuosa, una delle più luttuose, proprio da quelle lontane terre: tre legioni romane erano state annientate in un’immensa carneficina nel folto d’una foresta. Responsabile del disastro appariva il nuovo governatore della provincia, Quintilio Varo.
Scegliere Varo era stata la più infelice delle mosse. L’uomo, che si piccava d’intendersi di letteratura, aveva già dimostrato di essere un cattivo poeta nel circolo di Mecenate e, cosa ancor più grave, aveva anche dato prova di essere un mediocre generale. Era stato un avido rappresentante di Roma in Siria; difatti ricca era quella provincia e lui povero quando vi entrò, ricco lui e povera essa quando vi uscì, secondo le espressioni di Velleio Patercolo. Del disastro in Germania egli non aveva però tutte le colpe che Roma gli addebitava. Certamente non seppe mantenere in soggezione quei popoli indocili, illudendosi di poterli reggere con la toga del pretore e non più con la spada del soldato. Pensava di poterli romanizzare introducendo fra loro i costumi e le leggi dell’Urbe, oltre a imporre impopolari esazioni fiscali, ma le tribù nemiche, quelle stesse che avevano deposto le armi, i cherusci, i catti, non attendevano che l’occasione propizia per rialzare la testa.
Fu pronto a cogliere l’occasione favorevole il capo dei cherusci, Arminio, il quale andava preparando una rivolta. Arminio – un giovane guerriero venticinquenne, focoso e irruente – si professava amico di Augusto e, in nome di ciò, aveva ottenuto la cittadinanza romana. Varo, che si fidava ciecamente di lui, non gli nascondeva nemmeno i movimenti degli eserciti romani. Cosicché le truppe di Arminio poterono attaccare al momento giusto tre sue legioni le quali, senza sospettare di nulla, si aprivano faticosamente la strada a colpi d’ascia, sotto la pioggia, in terreno paludoso, nel cuore di una foresta, volendo tornare agli accampamenti invernali e attendervi la primavera. Le tre legioni, assalite a tradimento, furono sterminate fino all’ultimo uomo. Caddero venticinquemila soldati, per cui la foresta di Teutoburgo, che fu teatro della carneficina, divenne a Roma sinonimo di ignominia, come lo fu Canne ai tempi della sconfitta subita per mano di Annibale.
Nell’Urbe scoppiavano tumulti di protesta, mentre si facevano voti a Giove Ottimo Massimo sul Campidoglio. Il sovrano era sconvolto dal dolore, non volle più avere armigeri germanici nei reparti della sua guardia del corpo, vestì a lutto, si lasciò crescere per mesi la barba e i capelli. Vare, legiones redde, gridava battendo la testa allo stipite delle porte. «Varo, rendimi le mie legioni!» Ma Varo non poteva che rendere a Giove la propria vita, e si uccise. La sua testa fu inviata all’imperatore.
Non fu cosa semplice ricostituire le legioni perdute. Si dovettero richiamare i veterani, si liberarono schiavi, si ricorse ad arruolamenti forzati e alla minaccia della pena di morte per i renitenti. Si sospesero i festeggiamenti indetti per le vittorie di Tiberio, né si celebrò il suo trionfo. All’istante il generale fu nuovamente inviato sul Reno, dove egli giudicò la sconfitta di Varo una conseguenza della di lui sventatezza; Varo, che era stato avvertito dell’imboscata dal capo della fazione filoromana Segeste, non aveva dato peso a quelle informazioni considerandole frutto delle ostilità che dividevano i cherusci.
Ormai non si poteva più tentare di riportare le aquile di Roma su tutta la Germania. Il nuovo confine dell’impero era il Reno, un confine arretrato rispetto all’Elba, il fiume che i romani avevano precedentemente raggiunto. Il generale un anno dopo volle riprendere l’iniziativa. Attraversò sì il Reno quella volta, ma più che altro a scopo dimostrativo. Aveva ristabilito nelle file le regole d’una disciplina assai severa, quella disciplina che con Varo si era persa e dimenticata. Imponeva duri sacrifici alle legioni; egli stesso consumava pasti frugalissimi e passava le notti quasi senza chiudere occhio.
La vita dei soldati negli squadrati accampamenti romani aveva ripreso a svolgersi secondo i provati ritmi d’una volta. Il pretorio, che si ergeva in mezzo al campo simile a un tempio, era ben protetto; le strade erano tenute sgombre, le tende in varie file erano piantate solidamente, le torri di scolta ben funzionanti, il suono della tromba scandiva le varie fasi dei servizi giornalieri. L’ordine era meraviglioso. I campi si facevano e si disfacevano sulle rive dei fiumi secondo le esigenze logistiche; i legionari deponevano le armi e prendevano gli attrezzi da fortificazione, e se erano in marcia potevano rapidamente assumere la necessaria formazione di battaglia.
Il comando dell’esercito in quelle zone venne successivamente affidato a un giovane generale, forte e ambizioso, dal nome beneaugurante di Germanico. Egli era figlio del fratello di Tiberio, quell’eroico Druso morto per una caduta da cavallo, ed era stato adottato da suo zio per ordine del sovrano. Appariva quindi in corsa per la successione, con l’appellativo di Cesare che veniva dato ai principi della famiglia imperiale.
Tiberio rientrava a Roma, Augusto lo salutava con un celebre verso di Ennio adattato per l’occasione: «Un uomo solo, vigilando, ci ha ridato lo Stato», Unus homo nobis vigilando restituit rem. In attesa che tornasse nell’Urbe gli aveva scritto lettere colme di lodi: «Vale, carissimo Tiberio, iucundissime Tiberii, sii felicissimo in ogni tua azione. Uomo fortissimo e duce fra i più saggi e valorosi, Vale. Mi r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Tiberio
  4. Personaggi principali
  5. Il marmo e l’anima
  6. Parte prima. AMARI TRIONFI. L’esilio di Rodi
  7. Parte seconda. LOTTE DI PALAZZO. Un mortale come tutti
  8. Parte terza. VIZI E SAGGEZZA. Il ritiro a Capri
  9. Bibliografia
  10. Copyright