Non chiamatelo euro
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Non chiamatelo euro

Germania, Italia e la vera storia di una moneta illegittima

  1. 154 pagine
  2. Italian
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Non chiamatelo euro

Germania, Italia e la vera storia di una moneta illegittima

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In Europa, nella seconda metà degli anni Novanta, è avvenuto un golpe. Un golpe di tipo inedito. Non c'è stato spargimento di sangue, ma vittime, quelle sì, e molte: migliaia di imprese hanno chiuso i battenti, milioni di persone, soprattutto giovani, rimaste senza lavoro, altrettanti pensionati con assegni ai limiti della sopravvivenza. Non è stato un golpe con una matrice ideologica, e non ha coinvolto un solo Stato, ma diciassette: tutti quelli compresi nell'Eurozona. E si è consumato in un momento preciso: quando le regole fissate dal Trattato di Maastricht, legittimate dai parlamenti nazionali, sono state stravolte da regolamenti stabiliti senza il vaglio di assemblee elette o di referendum fra i cittadini. I suoi effetti sono stati devastanti, ampi e duraturi, eppure è passato quasi completamente sotto silenzio. Quasi, perché qualcuno ha sentito il dovere di studiare a fondo fatti e documenti che hanno accompagnato l'adozione dell'euro: Giuseppe Guarino, insigne giurista. Questo libro, scritto da un noto cronista parlamentare, riporta i dati della sua inchiesta e cerca di capire da dove abbia avuto origine il cataclisma che stiamo vivendo, per trovare, se ci sono, i rimedi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852063534
1

Alle origini di un disastro

Questo libro si propone di far luce su un inedito tipo di golpe avvenuto in Europa nella seconda metà degli anni Novanta. Una specie molto diversa dai numerosi che hanno contrassegnato la storia del mondo nel secolo scorso. Non vi è traccia di spargimenti di sangue, ma sono migliaia e aumentano giorno dopo giorno le imprese che chiudono i battenti. Milioni di persone, in gran parte giovani, si ritrovano senza un lavoro e senza un futuro. Una moltitudine di pensionati riceve un assegno al limite della sopravvivenza. Lo stato sociale si indebolisce progressivamente. E con esso deperisce l’idea stessa di democrazia. I cittadini votano per scegliere parlamenti e governi che però, sempre più di frequente, si ritrovano costretti ad avallare provvedimenti disposti in altra sede. Gli Stati membri, di fatto, appaiono assoggettati alle discipline dei mercati.
Inoltre, questo singolare colpo di Stato non ha una matrice ideologica. Non può essere inquadrato negli schemi novecenteschi. Non nasce da movimenti proletari di sinistra, né da ambienti militari di destra. Non è guidato da un uomo forte, ma è riferibile piuttosto a centri di interesse che hanno grande familiarità con le leve dell’alta finanza. Ambienti difficili da individuare con esattezza e pertanto completamente fuori controllo. Henry Kissinger parla di «scontro tra l’economia internazionale e le istituzioni politiche, chiamate a governarla». Sottolinea che «l’Europa non ha ancora adottato, nel suo insieme, una struttura di Stato unitario, rischiando di creare un vuoto di autorità al suo interno e uno squilibrio di potere lungo i suoi confini».1
E ancora: la particolare forma di golpe di cui si occupa questo libro è senza precedenti perché non vede coinvolto un singolo Stato ma, contemporaneamente, tutti e diciannove i Paesi della cosiddetta “Eurozona”. E non è finito sulle prime pagine dei giornali. È passato completamente sotto silenzio. In questa cornice inedita e drammatica, trovare le necessarie contromisure è ancora più difficile proprio perché il caso che abbiamo di fronte è senza precedenti. Certo, molti autorevoli economisti si esercitano sulle soluzioni per uscire da questo incubo. Sforzo lodevole ma, lo si vede, palesemente insufficiente. Il problema occorre prima esaminarlo alla radice per poi affrontarlo e cercare di risolverlo.
Dunque è utile domandarsi: da dove ha origine questo vero e proprio cataclisma? È frutto di un errore o di una scelta precisa? Chi lo ha provocato? E perché lo ha fatto? Le vittime hanno preso coscienza di essere tali? Esistono rimedi e quali? Risposte a tutte queste domande è molto difficile che possano arrivare da chi dispensa un retorico ottimismo: «L’Europa è un grande progetto e alla fine troverà il suo equilibrio». O da chi cavalca il diffuso malcontento e propone soluzioni tanto semplicistiche quanto irresponsabili: «Usciamo dall’Euro e torniamo alla lira».
Eppure è questa, purtroppo, la strumentalizzazione politica, speculare e suicida, che è in atto da tempo Italia e in altri Stati membri e che, non solo si dimostra incapace di affrontare questa grande emergenza, ma rischia di apparire contraria a che ciò avvenga. Risulta molto difficile, altrimenti, spiegare il silenzio assordante che si è registrato di fronte alla denuncia, forse l’unica almeno in Italia, che, documenti alla mano, fornisce una spiegazione politica, economica e giuridica di quanto è realmente successo nei complessi passaggi che hanno portato alla nascita dell’euro. Uno studio che spiega con chiarezza che le regole fissate dal Trattato di Maastricht – testo legittimato sia dal via libera di alcuni parlamenti nazionali, tra cui quello italiano, sia da quello di alcuni referendum popolari, come in Francia – sono state stravolte da un regolamento non sottoposto al vaglio né di assemblee legislative né dei cittadini. Ed è questo, per l’appunto – ma lo vedremo nel dettaglio – il momento in cui si consuma il suddetto, particolarissimo golpe.
Il termine, ne sono cosciente, è grave. Nel teatrino della nostra politica destrutturata sempre più spesso viene usato con leggerezza e a sproposito. Io stesso, quando da cronista assisto ai dibattiti in parlamento, e sento lanciare questo allarme, lo confesso: non solo non mi allarmo, ma sbadiglio. So che la stragrande maggioranza delle volte si tratta di propaganda. Ma le eccezioni esistono. E in questi casi chi fa informazione ha il dovere di esaminarle con attenzione. In primo luogo occorre valutare con scrupolo chi è colui che avanza la denuncia. Qual è il livello della sua credibilità personale, della sua competenza. Ed è proprio da questo aspetto, fondamentale, che intendo partire.
In realtà Giuseppe Guarino – ovvero la persona che ha sentito il dovere di studiare a fondo documenti e date e di risalire alle cause del disastro economico-sociale che stiamo vivendo – è una figura, una delle poche rimaste nel nostro Paese, che non solo non ha bisogno di presentazioni, ma che riscuote assoluto rispetto sia in ambienti giuridici, che economici e politici. Tuttavia, per la delicatezza del tema che si sta trattando e per fornire ogni elemento utile a una serena valutazione, ritengo fondamentale che chiunque legga queste pagine, non solo i più giovani, abbia ben presenti le sue qualità. Professionali, morali ed etiche.
Classe 1922, ancora lucidissimo a dispetto dei suoi oltre novant’anni, Guarino nasce a Napoli da una famiglia di conciatori di pelli di origine irpina e rimane presto orfano di padre. La madre, molto amica della moglie di un docente universitario, lo spinge a iscriversi a giurisprudenza. Il giovane non delude: non solo supera gli esami uno dietro l’altro, ma ottiene tutti 30 e lode. Tutti, meno uno. Il professore di diritto ecclesiastico, un tipo particolare che non concede mai la lode e che addirittura abbassa il voto a chi la chiede, nonostante la solita prestazione impeccabile del nostro studente, inflessibile, applica la sua regola: «Bravo, Guarino, le do 30» dice. «La prego, mi faccia ancora una domanda, perché io voglio la lode» osa ribattere il giovane. La discussione si accende e il professore, fuori di sé, abbassa più volte il voto: prima 29, poi giù fino a 23. Inevitabile, e provvidenziale, l’intervento del preside di facoltà: Alfonso Tesauro. Il noto costituzionalista non solo riesce a convincere lo stravagante professore a rialzare fino a 29 il punteggio dell’esame, ma in seguito, a quel caparbio e preparato venticinquenne neolaureato, deciderà di affidare una cattedra.
Per l’erede degli acconciatori di pelli è l’inizio di una brillantissima carriera accademica come docente di diritto pubblico, costituzionale e amministrativo in diversi importanti atenei italiani: Roma, Napoli, Sassari, Siena. Tra i suoi assistenti avrà Francesco Cossiga. Tra i suoi allievi, Giorgio Napolitano, Mario Draghi, Luigi Berlinguer, Pellegrino Capaldo, Cesare Salvi. Ma il giovane titolare di cattedra è destinato a fare ancora tanta strada. Nel 1967, e lo resterà per vent’anni, viene nominato sindaco della Banca d’Italia.
È proprio durante questo suo incarico che offre un’altra dimostrazione della sua tempra. Siamo nel 1979 e l’Istituto di via Nazionale è in piena bufera. Due magistrati, il giudice istruttore Antonio Alibrandi e il pubblico ministero Luciano Infelisi, con l’accusa di interesse privato in atti d’ufficio e interesse personale che risulterà infondata e che l’11 giugno 1981 culminerà in un proscioglimento, dispongono l’incriminazione del governatore Paolo Baffi e l’arresto del vicedirettore Mario Sarcinelli. I due – questo il forte sospetto che si fa strada in quel momento – in realtà pagherebbero l’atteggiamento poco amichevole di Bankitalia nei confronti di Michele Sindona, faccendiere che taluni, ma senza alcuna prova al riguardo, ritengono essere molto vicino a Giulio Andreotti. Ed è proprio a quest’ultimo – in quel momento alla guida del governo – che Guarino, molto scosso da quella vicenda, decide di rivolgersi personalmente e con la massima franchezza. «Presidente» gli dice, «lei conosce bene la statura morale di Baffi e Sarcinelli. La invito a considerare quanto questa vicenda somigli al caso Dreyfus. E che, così come è successo in Francia, anche stavolta potrebbero esserci ripercussioni politiche, anche lei potrebbe restarne colpito». Poche parole, ma chiarissime. E in maniera altrettanto sintetica e esplicita, non molto tempo dopo, lo stesso Andreotti rassicura Guarino nel corso di una telefonata: «Volevo informarla che ho parlato col giudice Alibrandi. Mi ha garantito che la vicenda sarà seguita col massimo scrupolo e serietà». Non molte settimane dopo, le accuse rientrano. Il caso è archiviato.
«Se una soluzione è stata trovata» afferma l’allora direttore generale di Bankitalia, Carlo Azeglio Ciampi nel libro Da Livorno al Quirinale scritto a quattro mani con Arrigo Levi, «bisogna darne merito all’abilità di Giuseppe Guarino, non solo grande giurista, ma da sempre vicino alla Banca, al quale sono sempre molto grato, soprattutto per la Banca.»
Ma lo stesso Guarino – in un’intervista al «Sole 24 Ore» – attribuisce invece tutto il merito ad Andreotti. «È lui» dice «che ha salvato la Banca d’Italia in quei difficili frangenti. Non è vero che Andreotti tenesse le fila della macchinazione contro il nostro Istituto. Al contrario: quando è dovuto intervenire lo ha fatto assumendo delle decisioni e senza sottrarsi alle sue responsabilità».2
Non è tutto. C’è ancora un episodio, non meno significativo, che risale al 1992 e aiuta a completare la conoscenza della personalità di Guarino, che nel frattempo è diventato ministro dell’Industria e delle Partecipazioni statali nel governo di Giuliano Amato, quello passato alla storia, oltre che per l’ingloriosa vicenda del prelievo forzoso notturno dai nostri conti correnti, anche per aver dato inizio alle privatizzazioni. «Vendere è un errore, quei soldi non ridurranno il debito pubblico» mette in guardia Guarino. Risultato: lui resta isolato. E le privatizzazioni vanno in porto.
Insomma, Guarino non è solo un fine giurista, un esperto di materie economiche e di funzionamento della pubblica amministrazione, è anche, requisito ancora più raro, quello che una volta si definiva “persona tutta d’un pezzo” e che oggi, molto più sbrigativamente, viene bollato come “rompiscatole”. Si dirà: eccellente biografia, ma l’Europa è materia complessa. Bisogna conoscerne a fondo storia, leggi, funzionamento. E su questo Guarino non ha competenza ed esperienza specifica. Considerazione legittima, ma non è così. Anche su questo terreno Guarino si presenta con le carte in regola. Nel 1962 e fino al 2002, quando ha chiuso l’attività per motivi anagrafici, ha fondato e diretto uno studio legale, il più importante a Roma, la cui attività era incentrata non solo sulle tematiche del diritto amministrativo e del diritto costituzionale, ma anche sul diritto dell’Unione Europea. Tanto che dal 1987 al 1996 ha avuto una presenza diretta a Bruxelles, prima insieme ad altri primari studi legali, e in seguito con un proprio ufficio. A questo punto – sottolineato anche che nella sua intensa, delicata e interdisciplinare attività professionale e politica non è mai stato neanche sfiorato dalla minima ombra – su Guarino restano da dire soltanto altre due cose.
La prima è che quest’uomo, non fosse altro che per ragioni d’età, non è mosso da alcuna ambizione personale, se non quella di offrire un contributo importante al suo Paese. La seconda è che Guarino non è un cosiddetto euroscettico. Al contrario. «Io sono un europeista convinto. Lo sono sin dall’epoca dei fondatori delle Ceca» mi dice durante il nostro incontro e scandendo bene la parola «convinto». Un colloquio durato a lungo, all’ombra di uno dei platani della Parrina, l’antica tenuta della marchesa Franca Spinola, vedova dell’ex presidente della Commissione Europea, Franco Maria Malfatti, e oggi coraggiosa imprenditrice alla guida di un’azienda che coltiva in Maremma ed esporta nel mondo prodotti biologici e vini doc. Guarino adora tale luogo. È tra questi viali di campagna, durante la buona stagione, che decide spesso di spendere la sua ora di passeggiata giornaliera.
Quanto al sottoscritto, resto molto colpito dai ricordi di uno degli ultimi, grandi testimoni dell’Italia del dopoguerra. Naturalmente ci soffermiamo in particolare sul Saggio di verità sull’Europa e sull’euro, lo studio-denuncia che porta la sua firma e che è stato ripreso da giornali autorevoli – «il Foglio» di Giuliano Ferrara in particolare, ma non solo – mentre la politica è rimasta praticamente in silenzio. Tutta la politica. Sia quella che attacca l’euro a testa bassa e che propone di tornare alla lira, forse perché trova imbarazzante che la più autorevole critica alla moneta unica arrivi da un europeista convinto. Sia quella che l’euro l’ha voluto e ha contribuito a farlo nascere. Ed è in particolare verso quest’ultimi che Guarino si scalda: «La mia denuncia è infondata? Bene, lo dicano! Mostrino le carte, diano spiegazioni se sono in grado! Invece non lo fanno, restano in silenzio...!». E subito dopo, scuotendo la testa, mi dice: «Guardi, non la prenda a male. Sono troppo anziano e stanco per consumarmi ancora su questo tema dell’Europa e per concedere interviste. Questo è il mio testo, se vuole scrivere un libro, lo usi pure. Chissà che a lei, quei signori, qualche risposta a quanto ho scritto non decidano di darla...».
2

L’Italia e i grandi d’Europa nel dopo-Muro

Prima di entrare nel merito della denuncia di Guarino, è indispensabile ricostruire il contesto geopolitico europeo esistente tra la fine degli anni Ottanta, con la disgregazione dell’Unione Sovietica, e l’inizio degli anni Novanta, con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht. E per capire la condizione in cui si trova il nostro Paese in questo triennio cruciale, occorre fare un ulteriore passo indietro fino agli anni Settanta. In quel momento l’Italia presenta certamente aspetti contraddittori e problematici – tra cui un aumento eccessivo dei salari e della spesa pubblica – ma il bilancio complessivo è tutt’altro che negativo. Innanzitutto, lo stato di salute economica della Penisola è eccellente, migliore di quello inglese, quasi alla pari con quello francese e registra ritmi di crescita superiori a quello tedesco. Non solo il nostro sistema dinamico e diffuso di piccole e medie imprese, ma anche la nostra grande industria, privata e statale, dà parecchio filo da torcere a Germania e Francia. Insomma, per i due Paesi considerati assi portanti della Cee, l’Italia rappresenta certamente un concorrente scomodo. Molto scomodo. Tuttavia – con una scelta che fa molto discutere – il 3 marzo 1979, come gli altri Paese Cee e con la sola eccezione della Gran Bretagna, che si aggregherà solo nel 1990, l’Italia decide di aderire allo Sme, il Sistema monetario europeo, che prevede il mantenimento di una parità di cambio prefissata. Questo comporta che gli Stati che esportano di più, non solo non sono costretti a rivalutare le loro divise, ma si trovano anche nelle condizioni di abbassare i tassi sui loro titoli, utilizzando le risorse risparmiate sugli interessi per rafforzare gli investimenti in ricerca e tecnologia. Gli altri Stati, invece, quelli che hanno un disavanzo commerciale e che per compensare le importazioni avrebbero bisogno di svalutare la moneta, non possono farlo. E inoltre si vedono costretti a emettere titoli con tassi sempre più alti e a perdere risorse economiche da destinare agli investimenti e all’occupazione. L’Italia è sicuramente tra quest’ultimi. E non a caso, dall’inizio degli anni Ottanta quando entra nello Sme, la sua economia comincia a indebolirsi. Un po’ alla volta, il debito pubblico si avvicina al prodotto interno lordo, fino a minacciare di superarlo. Non solo: la lira, così ingessata, nel 1992 si ritrova sottoposta al tiro di due attacchi speculativi promossi dal finanziere George Soros, subisce una pesante svalutazione, circa il 30%, e finisce fuori dallo Sme, dove rientrerà quattro anni dopo. Scrive Paolo Baffi: «Ogni qualvolta la parità di cambio è stata eretta a feticcio o imposta senza adeguato riguardo alle sottostanti condizioni dell’economia, le conseguenze sono state nefaste».3
Scrive anche Guido Carli: «Mi sono domandato spesso se la creazione del Sistema monetario europeo sia riuscita a spezzare il monopolio monetario degli Stati Uniti che seguì al crollo di Bretton Woods. Al di là di alcune apparenze, la mia risposta è no: siamo ancora un’immensa area del dollaro, nella quale i vari Paesi non hanno che una piccolissima voce in capitolo... L’Europa monetaria è terribilmente indietro rispetto al calendario. Mai come oggi sarebbe necessario uno sforzo di fantasia e di volontà politica. Mai come oggi sembra relegato nelle incerte nebbie di un lontano futuro».4
Dunque, per molti aspetti, lo Sme viene visto come un autogol, sia per le sue ricadute internazionali che interne. Ma per l’Italia non è l’unico in quella fase. Nel 1981, il ministro Beniamino Andreatta, col pieno accordo del governatore Carlo Azeglio Ciampi, prende una decisione quantomeno sorprendente: sgancia la Banca d’Italia dal Tesoro. Da quel momento, al contrario di quanto fanno tutte le banche centrali dei Paesi sviluppati, l’Istituto di via Nazionale non può più acquistare i titoli del debito pubblico rimasti invenduti. Ovvero: non può più finanziare lo Stato, il quale, a sua volta, per piazzare quegli stessi titoli è costretto a renderli appetibili sul mercato, ovvero ad aumentare i tassi d’interesse e quindi ad indebitarsi sempre di più. Non a caso, come indicano in maniera inequivocabile le cifre ufficiali, tra gli anni Ottanta e Novanta il debito pubblico italiano cresce a dismisura: se nel 1980 è al 57,7 del Pil, nel 1994 è già schizzato al 124,3. E a provocare questo balzo – nettamente più consistente di quello registrato dagli altri Paesi europei nello stesso arco di tempo – non sono le spese dello Stato, che si mantengono al di sotto della media europea e, dal 1991 al 2005, risultano persino inferiori a quelle della Germania. Dunque, è lecito chiedersi: perché l’Italia ha assunto questi due provvedimenti? In parte, e soprattutto per quanto riguarda il rapporto Tesoro-Banca d’Italia, la decisione è figlia di un errore di valutazione, se vogliamo grossolano, ma umano. Del resto, tra Andreatta e Ciampi, solo il primo aveva una formazione anche economica. Andreatta risulta laureato in Giurisprudenza all’Università di Padova nel 1950. E successivamente compie studi di economia presso l’Università del Sacro Cuore a Milano e, come visiting, presso l’Ateneo di Cambridge. Ciampi, invece, è laureato in Lettere (1941) e Giurisprudenza (1946) alla Scuola Normale Superiore di Pisa, supera il concorso per entrare in Banca d’Italia come impiegato e vi rimane per quarantasette anni avendo modo di avvicinarsi alle materie economiche e arrivando ad assumere la massima carica di governatore.
«La mia formazione originaria è umanistica: non nascevo economista» racconta lui stesso in un’intervista del 2007 «... ebbi nella Banca d’Italia una scuola impareggiabile. Fu il mio corso di Master of Economics. Le riunioni allargate per la redazione e la discussion...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Non chiamatelo euro
  4. 1. Alle origini di un disastro
  5. 2. L’Italia e i grandi d’Europa nel dopo-Muro
  6. 3. Il vero euro disegnato a Maastricht
  7. 4. Maastricht, vincitori e vinti
  8. 5. L’importanza del ruolo di Guido Carli
  9. 6. I protagonisti del 1992
  10. 7. Il vincolo esterno
  11. 8. Cari italiani, così non va...
  12. 9. La resa italiana
  13. 10. La rivolta del 2003
  14. 11. Il falso euro
  15. 12. Il muro di gomma
  16. Note
  17. Postfazione di James K. Galbraith
  18. Copyright