Giorni in Birmania
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Giorni in Birmania

  1. 352 pagine
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Pubblicato negli Stati Uniti nel 1934 (e solo l'anno successivo in Gran Bretagna, per problemi di censura), Giorni in Birmania è il primo romanzo scritto da George Orwell e nasce dalla sua esperienza diretta come membro della polizia coloniale nll'Indocina degli anni Venti. Protagonista è il trentacinquenne John Flory, mercante angloindiano di legname che, insofferente ai codici di comportamento dei sahib bianchi e attratto dalla cultura orientale, si muove a cavallo tra due mondi senza riuscire a trovare una propria collocazione e, privo della forza morale necessaria per ribellarsi alla comunità bianca, rimane frustrato dagli inevitabili compromessi. Al tema politico si affianca quello sentimentale: l'amore infelice di Flory per una donna con cui spera invano di porre fine alla propria solitudine. Ma la vera anima del libro è la profonda indignazione umana di Orwell, che nel periodo trascorso in Birmania maturò una coscienza ben precisa dell'ingiustizia su cui si fondavano i rapporti sociali nelle colonie, atteggiamento che già preannuncia la satira sferzante dei futuri capolavori come La fattoria degli animali e 1984.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852061875
Categoria
Viaggi

1

U Po Kyin, un magistrato del sottodipartimento di Kyauktada nella Birmania superiore, stava seduto nella veranda di casa sua. Erano solo le otto e mezzo, ma si era già nel mese di aprile e si sentiva nell’aria come un’oppressione, la minaccia delle lunghe ore soffocanti del meriggio. A tratti, lievi folate di vento – che per contrasto sembravano fresche – agitavano le orchidee appena annaffiate, pendenti dalla grondaia. Al di là delle orchidee si scorgeva il tronco curvo e polveroso di una palma, e poi il cielo sfolgorante color oltremare. Allo zenit, così in alto che abbagliavano solo a guardarli, alcuni avvoltoi roteavano senza un palpito d’ala.
U Po Kyin, simile a un grande idolo di porcellana, fissava, senza battere ciglio, il feroce splendore del sole. Era un uomo sulla cinquantina, obeso al punto che da anni non poteva alzarsi dalla sedia senza aiuto, e tuttavia ben fatto, anzi bello nella sua pesantezza. I birmani infatti non si gonfiano e non si deformano come gli europei, ma ingrassano armoniosamente come un frutto che maturi. Aveva un viso ampio, giallo, ancora senza rughe, e gli occhi bruni. I piedi, larghi e molto arcuati, con le dita tutte della stessa lunghezza, erano nudi e nuda la sua testa rasata; indossava uno di quei vivaci longyi1 arakanesi, a scacchi verdi e magenta, che i birmani usano portare nell’intimità. Masticava betel, che prendeva da una scatola di lacca sulla tavola, e ripensava alla sua vita passata.
Era stata un’esistenza brillante e ricca di successi, la sua. Il ricordo più remoto di U Po Kyin risaliva al secolo scorso, agli anni Ottanta: era allora un ragazzetto nudo, con la pancina tonda, e assisteva, a Mandalay, all’ingresso delle truppe britanniche vittoriose. Ricordava il suo terrore davanti alle colonne di quei grossi uomini, mangiatori di vacca, con le facce e le giubbe rosse, i lunghi fucili in spalla, e il battere pesante e ritmico dei loro stivali. Benché fanciullo aveva intuito che il suo popolo non era in grado di combattere quella razza di giganti. E, fin da bambino, la sua unica ambizione era stata di mettersi dalla parte degli inglesi, di diventare un loro parassita.
A diciassette anni aveva tentato di procurarsi un impiego governativo: ma, povero e senza amici, non vi era riuscito, e per tre anni aveva lavorato nel fetido labirinto dei bazar di Mandalay, ora come contabile di ricchi mercanti, ora rubacchiando qua e là. Poi, a vent’anni, un ricatto fortunato lo mise in possesso di quattrocento rupie, e corse a Rangoon dove comprò un posto di impiegato del governo. Lo stipendio era basso, ma la carica lucrativa. In quel periodo, infatti, un gruppo di impiegati aveva preso l’abitudine di accrescere le proprie entrate con appropriazioni indebite di materiale governativo e Po Kyin (allora si chiamava Po Kyin soltanto, e l’onorifico U seguì soltanto parecchi anni dopo) partecipò naturalmente alla faccenda. Comunque, aveva troppo talento per passare tutta la vita in un ufficio, contentandosi di rubare miseri spiccioli. Un giorno scoprì che il governo aveva bisogno di funzionari di grado inferiore e si preparava a sceglierli tra gli impiegati. La notizia sarebbe stata resa nota la settimana successiva, ma Po Kyin aveva il dono di sapere le novità con sette giorni di anticipo su chiunque altro. Vide di colpo quale avrebbe potuto essere la sua fortuna: denunciò tutti i suoi complici, prima che potessero pensare a difendersi. Molti finirono in carcere, mentre Po Kyin, a ricompensa della sua onestà, fu nominato vicefunzionario della regione. Da allora in poi aveva fatto continui progressi. Adesso, a cinquantasei anni, era magistrato sottodipartimentale, e avrebbe continuato a ricevere promozioni. Forse sarebbe diventato vicecommissario, e avrebbe avuto gli inglesi come colleghi e anche come subordinati.
Come magistrato, aveva un metodo molto semplice: non vendeva mai il suo verdetto, nemmeno per somme ingentissime, perché sapeva bene che un giudice che rende sentenze ingiuste prima o poi viene scoperto. Usava il sistema, molto più sicuro, di accettare regalie dalle due parti contendenti e di decidere poi in base alla legge. Si era così assicurato un’assai proficua fama d’imparzialità. Oltre a quello che gli rendevano i litiganti, U Po Kyin percepiva un balzello fisso, una specie d’imposta privata, da tutti i paesetti sotto la sua giurisdizione. Se un villaggio mancava di corrispondere il tributo, U Po Kyin prendeva misure punitive: bande di dacoit2 assalivano l’abitato, i contadini venivano arrestati sotto false accuse e così via: non occorreva molto tempo perché la somma fosse interamente pagata. Inoltre, toccava a lui buona parte dei profitti sulle più grosse truffe compiute nel distretto. Tutto ciò, naturalmente, era noto a tutti, tranne che ai superiori di U Po Kyin (nessun funzionario britannico presta mai fede alle accuse contro i suoi uomini): così tutti i tentativi per svelare i suoi misfatti finivano miseramente, senza contare che i suoi complici erano troppo numerosi, e legati dalla partecipazione al bottino. Se si portava un’accusa contro di lui, U Po Kyin la sgonfiava subito con le testimonianze di suoi subordinati; poi contrattaccava, rafforzando sempre più la propria posizione. Era praticamente invulnerabile, troppo buon conoscitore di uomini per scegliere strumenti inadatti – e troppo minuzioso nell’architettare i suoi intrighi perché ignoranza di uomini e cose o scarsità di precauzioni potessero farlo cadere. Era sicuro che non sarebbe stato mai scoperto: di successo in successo, alla fine sarebbe morto carico di onori, ricco di molti lakh di rupie.
E il successo l’avrebbe seguito anche oltre la tomba. Secondo le credenze buddhistiche, chi ha peccato rinasce nel corpo di un topo, di rana o di qualche altro animale inferiore. U Po Kyin era buon buddhista e voleva garantirsi contro un tale pericolo. Avrebbe dedicato gli ultimi anni della sua vita a buone azioni, tanto da mettere assieme meriti sufficienti a controbilanciare il resto della sua esistenza. Pensava che la sua buona azione poteva essere quella di costruire pagode. Quattro pagode, cinque, sei, sette (i sacerdoti gli avrebbero detto quante) con merletti di pietra, tetti dorati e campanelli tintinnanti al vento, ogni squillo una preghiera. E sarebbe rinato sulla terra nel corpo di un uomo (una donna vale press’a poco quanto una ranocchia), o, nel peggiore dei casi, nel corpo di qualche bestia onorata, un elefante per esempio.
Queste idee passavano rapide nel cervello di U Po Kyin, di solito sotto forma di immagini. La sua mente, benché astuta, era veramente barbara e lavorava soltanto per scopi precisi. La meditazione era al di sopra delle sue forze.
Aveva ormai raggiunto la meta dei suoi pensieri. Appoggiando le piccole mani triangolari sui braccioli della poltrona, si volse un poco e chiamò in tono sibilante: «Ba Taik! Ehi! Ba Taik!».
Ba Taik, il servo di U Po Kyin, apparve da dietro la tenda di perline della veranda. Era un ometto piccolo, segnato dal vaiolo, e aveva un’espressione timida e affamata. U Po Kyin non lo pagava perché il servo era un pregiudicato, e una sola parola sarebbe bastata a farlo arrestare. Ba Taik venne avanti, inchinandosi così profondamente da sembrare che indietreggiasse.
«Divino signore?» domandò.
«C’è qualcuno che vuole vedermi, Ba Taik?»
Ba Taik contò le visite sulle dita: «C’è il capo del villaggio di Thitpingyi, Vostro Onore, che ha portato molti doni, e due uomini che hanno una causa per aggressione che deve essere giudicata da Vostro Onore. Anche quelli hanno portato regali. Poi c’è Ko Ba Sein, il funzionario-capo dell’ufficio del vicecommissario, che vuole vederti; e c’è Alì Shah, il comandante della polizia; e un dacoit di cui non so il nome. Credo che siano in lite per certi braccialetti d’oro che hanno rubato. E c’è anche una ragazza del villaggio con un bambino».
«Cosa vuole?»
«Dice che il bambino è tuo, divino signore.»
«Ah, e quanto ha portato il capo?»
A sentire Ba Taik, erano solo dieci rupie e un cesto di manghi.
«Riferisci» disse U Po Kyin «che devono essere venti rupie, e se il denaro non mi sarà portato qui domani, saranno guai per lui e per il suo villaggio. Ora riceverò gli altri. Di’ a Ko Ba Sein di venire.»
Ko Ba Sein si presentò subito. Era un uomo di spalle strette e figura rigida, molto alto per un birmano, con un viso liscio che faceva pensare a un budino. U Po Kyin lo stimava uno strumento utilissimo. Zelante e senza immaginazione, era un ottimo impiegato; e MacGregor, il vicecommissario, gli confidava molti segreti d’ufficio. U Po Kyin, messo di buonumore dalle proprie meditazioni, lo salutò ridendo e indicandogli la scatoletta del betel.
«Dunque, Ko Ba Sein, come vanno i nostri affari? Spero, come direbbe il nostro MacGregor,» (U Po Kyin si espresse in inglese) «che siamo in notevole progresso!»
Ko Ba Sein non sorrise allo scherzo. Sedutosi rigidamente sulla sedia libera, rispose: «Benissimo, signore. Il giornale è giunto stamattina. Degnati di guardarlo».
Gli mostrò una copia del giornale bilingue, intitolato «Burmese Patriot»: un cencio di otto pagine, malamente stampato su carta che sembrava carta assorbente, e messo insieme, in parte con notizie rubate alla «Rangoon Gazette» e, in parte, con vacue declamazioni nazionalistiche. Nell’ultima pagina, la stampa difettosa aveva macchiato di nero tutto il margine, quasi in segno di lutto per la limitata diffusione del giornale. L’articolo che interessava U Po Kyin differiva dal resto e diceva:
In questi giorni felici, mentre i poveri negri sono soccorsi dalla potente civiltà occidentale con tutte le sue benedizioni quali il cinematografo, le mitragliatrici, la sifilide eccetera, quale argomento potrebbe interessarci più della vita privata dei nostri benefattori europei? Perciò pensiamo che alcune notizie del distretto di Kyauktada, nella zona settentrionale, dovrebbero interessare i nostri lettori, specialmente nei confronti del signor MacGregor, vicecommissario di detto distretto.
Il signor MacGregor è il tipo del vecchio e distinto gentiluomo inglese, di cui abbiamo sotto gli occhi parecchi esempi di questi tempi beati. È un family man, come dicono i nostri cari cugini inglesi. È proprio un family man, il signor MacGregor. Tanto che ha già tre figli nel distretto di Kyauktada, dove vive da un anno; e in quello di Shwemyo, dove risiedette ultimamente, ha lasciato sei rampolli. Forse si tratta solo di una svista del signor MacGregor, ma certo ai bambini non è stato dato il minimo aiuto e le loro madri stanno morendo di fame…
E così via.
C’era più di una colonna sull’argomento e, benché mal scritta, come livello era molto al di sopra del resto del giornale. U Po Kyin lesse il trafiletto con grande attenzione, tenendo il giornale con le braccia tese a causa della sua presbiopia, e stirando le labbra soprappensiero. Mostrava così una fila di denti piccoli e perfetti, tinti di rosso sangue dal succo di betel.
«Al direttore del giornale toccheranno sei mesi di prigione, per queste righe» disse infine.
«Non gliene importa. Dice che gli unici giorni in cui i suoi creditori lo lasciano in pace sono proprio quando lui è dentro.»
«E dici che è stato quel tuo apprendista Hla Pe, a scrivere questo articolo? È un ragazzo in gamba, promette molto bene. Non venire più a dirmi che le scuole superiori governative non servono che a far perdere il tempo! Hla Pe avrà senz’altro il suo impiego.»
«Pensi che l’articolo basti?»
U Po Kyin non rispose subito; emetteva gemiti soffocati e faticosi, cercando di alzarsi. Questi suoni erano familiari a Ba Taik. Egli apparve dietro le cortine e, con l’aiuto di Ba Sein, lo sollevarono tenendolo sotto le ascelle, finché non lo misero in piedi. U Po Kyin bilanciò per un attimo il peso del ventre sulle gambe, come un pescivendolo che sistemi il suo carico, poi fece cenno a Ba Taik di andarsene.
«Non basta» disse rispondendo alla domanda di Ba Sein. «Non basta. Ci sono ancora un mucchio di cose da fare. Ma è un buon inizio. Ascolta!»
Si avvicinò alla balaustra per sputare una boccata di betel rosso, poi si mise a percorrere la veranda a passi brevi, tenendo le mani dietro la schiena. Le sue grosse cosce lo facevano ondulare un poco. Mentre andava su e giù, prese a parlare nel gergo degli uffici governativi: un miscuglio di birmano e di modi idiomatici inglesi.
«Cominciamo dal principio. Stiamo per attaccare decisamente il dottor Veraswami, il medico civile e direttore delle carceri. Lo calunnieremo, distruggeremo la sua reputazione e lo rovineremo per sempre. Sarà un’operazione delicata.»
«Sì, signore.»
«Non ci saranno rischi, ma bisogna procedere con calma. Non stiamo combattendo contro un miserabile impiegato o un poliziotto. Abbiamo a che fare con un alto funzionario e, con un alto funzionario, anche se indiano, i metodi non possono essere gli stessi che con un impiegato. Come si rovina un impiegato? Facilissimo. Un’accusa, due dozzine di testimoni, licenziamento e gattabuia. Ma non è il nostro caso. Qui occorrono le maniere dolci. Niente scandali e, prima di tutto, nessuna inchiesta ufficiale. Non si devono fare accuse che possano essere controbattute. Ma entro tre mesi, devo mettere in testa a ogni europeo di Kyauktada che il dottore è un delinquente. Di cosa posso accusarlo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. Ai margini dell’impero
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. Giorni in Birmania
  7. 1
  8. 2
  9. 3
  10. 4
  11. 5
  12. 6
  13. 7
  14. 8
  15. 9
  16. 10
  17. 11
  18. 12
  19. 13
  20. 14
  21. 15
  22. 16
  23. 17
  24. 18
  25. 19
  26. 20
  27. 21
  28. 22
  29. 23
  30. 24
  31. 25
  32. Copyright