Cento giorni da imperatore
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Cento giorni da imperatore

L'ultima vittoria di Napoleone

  1. 252 pagine
  2. Italian
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Cento giorni da imperatore

L'ultima vittoria di Napoleone

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Durante l'esilio definitivo a Sant'Elena, ripensando alla straordinaria parabola della sua vita, Napoleone sembra guardare alla sconfitta di Waterloo come a una tappa necessaria del suo percorso verso la gloria: per entrare nella leggenda era indispensabile abbandonare il ritiro dell'isola d'Elba, quel 26 febbraio 1815, e vivere le giornate esaltanti del rientro a Parigi, per giungere poi il 18 giugno dello stesso anno alla grande sconfitta dell'esercito francese sotto il suo supremo comando. Sono state fornite le più diverse spiegazioni militari per dare ragione dell'esito della campagna del Belgio, basata su di un piano geniale e trasformatasi in un rovescio di proporzioni immense, ma nessuna delle interpretazioni tecniche appare del tutto convincente. Sergio Valzania, storico e biografo, ripercorre quei «cento giorni» cercando di illustrare il punto di vista di Napoleone, interrogandosi in particolare sul suo stato d'animo, sulle motivazioni profonde che guidarono il suo genio verso la realizzazione di quella che oggi viene portata a esempio di sconfitta totale, ma che lui stesso nel suo memoriale continuava a vedere come parte integrante e necessaria del cammino destinato a farlo entrare nel pantheon dei grandi condottieri. Al Napoleone elbano, vittima del tradimento dei marescialli, mancava il finale tragico, quello che Vincenzo Bellini sosteneva essere necessario nella costruzione narrativa del melodramma. La conclusione dell'avventura napoleonica non poteva ridursi a un viaggio in carrozza, durante il quale l'imperatore è costretto a indossare l'uniforme del nemico, e al ritiro in una sorta di tenuta di campagna dove gioca a carte con gli amici e i parenti. Per entrare nel mito occorrevano un ritorno a casa degno di quello di Ulisse e una battaglia omerica: un gesto finale, grandioso e decisivo, che chiudesse la carriera di Napoleone alla testa dell'esercito francese, consacrandolo sconfitto non dal nemico ma dal destino. Occorreva un piano di campagna che portasse con sicurezza alla vittoria, certificando il suo genio militare, e un gruppo di esecutori incapaci, pasticcioni e senza determinazione, tanto inetti da farlo fallire.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852062735
Argomento
History
Categoria
World History
XI

VINCERE NELLA SCONFITTA

Era possibile che Napoleone vincesse quella battaglia? Rispondiamo di no. Perché? A causa di Wellington? A causa di Blücher? No. A causa di Dio.
Bonaparte, vincitore a Waterloo, non rientrava più nella legge del XIX secolo. Si preparava un’altra serie di fatti dove per Napoleone non c’era più posto. La cattiva volontà degli avvenimenti si era già annunciata da lunga data.
Era tempo che quell’uomo grande cadesse.
VICTOR HUGO, I miserabili
L’elaborazione del piano per la campagna è perfetta, in linea coerente con la tradizione di eccellenza strategica di Napoleone. Inglesi e prussiani, Wellington e Blücher, non si aspettano l’attacco. Le loro truppe sono accantonate, disperse, in Belgio. Il rapporto di forze è molto sfavorevole ai francesi, che dispongono di appena centoventicinquemila uomini contro quasi centodiecimila inglesi e alleati, belgi e olandesi, e un numero addirittura superiore di prussiani. Napoleone però può contare su un’ottima artiglieria, una cavalleria numerosa e truppe fidate di buona qualità, quasi tutti veterani, al comando di ufficiali di provata esperienza. L’idea di base della campagna è semplice, la stessa con la quale il giovane generale Bonaparte aveva aperto la serie delle sue vittorie nella prima campagna d’Italia, nel 1796: sfruttare il vantaggio della concentrazione e della sorpresa per incunearsi fra due eserciti nemici, superiori nel complesso a quello francese ma inferiori separatamente, dividerli e poi batterli uno dopo l’altro.
Lo strumento predisposto per mettere in atto il progetto è preparato con cura. Davout ha saputo equipaggiare e inquadrare in modo esemplare quella che è stata denominata Armée du Nord, nella quale sono concentrate quasi tutte le risorse militari che la Francia è in grado di mettere in campo. L’abbandono della denominazione celebre di Grande Armée suscita in noi qualche perplessità, insinua il sospetto che la campagna del Belgio sia concepita sin dall’inizio con un retropensiero che la allontana dalle altre campagne dell’impero, quelle di Austerlitz, Jena, Friedland e Wagram, come a voler sottolineare una differenza sostanziale rispetto a loro. Napoleone sembra dichiarare di essere entrato in una stagione nuova della vita.
Il piano di guerra è accompagnato da abili misure di copertura dei movimenti necessari a radunare le truppe prima dell’offensiva e da una parallela falsa manovra verso ovest effettuata da alcuni reparti di cavalleria con l’obbiettivo di indurre Wellington a spostare il baricentro del proprio dispositivo verso la costa, allontanandosi ancora dagli accantonamenti prussiani, così da allargare il corridoio che separa gli eserciti alleati nel quale l’armata francese intende inserirsi per dividerli e affrontarli separatamente. Anche questo piccolo espediente accessorio riesce alla perfezione: temendo di venire privato del contatto col mare, e quindi con la flotta che gli garantisce la possibilità di ricevere rinforzi insieme a quella estrema del reimbarco, il comandante inglese modifica lo spiegamento delle truppe ai suoi ordini trasferendone una parte verso ovest ed esponendosi in questo modo a un rischio maggiore di perdere il collegamento con l’armata prussiana.
Questi sono il progetto di campagna e i mezzi per realizzarla predisposti dall’intelligenza, dall’arditezza strategica e dalla capacità organizzativa di Napoleone allo scopo di ottenere una decisiva vittoria sugli alleati attraverso una serie di battaglie combattute tutte in condizioni di vantaggio. Al termine di questa fase, o sarebbe meglio dire in parallelo a essa, sembra che intervenga qualcosa, una sorta di nota dissonante, come avviene in molte composizioni di musica contemporanea, in contraddizione con quanto è stato suonato prima: uno scarto imprevisto. Se vogliamo crederci è il genio che subentra, al di là della consapevolezza, alla semplice razionalità, e che pretende di conseguire un risultato ulteriore rispetto alla vittoria in una campagna, della cui utilità dubita.
Certo, potrebbe esistere un filo sottilissimo che dalla sconfitta di Wellington e Blücher conduce alla conservazione del trono di Francia da parte di Napoleone: un percorso tortuoso che passa attraverso la caduta del governo britannico in carica, presieduto da Lord Liverpool, e l’abbandono della coalizione da parte dell’Inghilterra guidata da un suo successore proveniente dallo schieramento politico opposto con il parallelo ripristino di un rapporto di collaborazione, o almeno di cessata ostilità, franco-austriaco, che sancirebbe il rientro di Napoleone nell’ambito dei regnanti europei e lascerebbe in campo come avversari solo Russia e Prussia. Si tratta però di ipotesi dalla realizzazione molto improbabile, al limite dell’incredibile. La Gran Bretagna è in guerra con la Francia dal 1803 e nessuna sconfitta sua o dei suoi alleati, né tanto meno il blocco continentale, l’hanno convinta alla pace. Quanto all’Austria, l’imperatore Francesco I e il suo ministro degli Esteri Metternich non manifestano nessuna debolezza nel partecipare all’alleanza antinapoleonica.
Credere che una serie di battaglie vittoriose, la sconfitta sia di Blücher che di Wellington siano in grado di risolvere i problemi internazionali dell’imperatore è ben difficile. Sono finiti i tempi nei quali i suoi nemici, ancora divisi, si affrettavano a chiedere la pace dopo che uno dei loro eserciti era stato distrutto. Non intendo sostenere affatto che Napoleone abbia tendenze schizofreniche, che la sua sia una mente nella quale agiscono due personalità che perseguono intenti diversi. Voglio solo ricordare che una parte delle sue decisioni è sempre maturata a seguito di intuizioni piuttosto che di ragionamenti. È il tratto del genio, la sua forza e la sua debolezza. Il metodo di lavoro dell’imperatore si basa sullo studio attento della situazione esistente, sulla predisposizione di un piano ardito ma concreto, sulla preparazione meticolosa degli strumenti per metterlo in atto, sulla considerazione di ogni più minuto dettaglio, su un lavoro indefesso, che non si arresta né di giorno né di notte, ma poi precipita in scelte improvvise, fulminee, inattese. Il suo talento tattico si fonda sull’intuizione, sul saper cogliere il momento giusto nello sferrare l’attacco decisivo, su una capacità di sintesi unica. L’imperatore si fida fin troppo di questa sua attitudine quasi divinatoria, alla quale si abbandona, quasi sempre con successo.
Se nell’amministrazione Napoleone è metodico e rigoroso, in politica, soprattutto nei rapporti internazionali dove si trova poco a suo agio, molte scelte appaiono dettate dalla sua propensione ad acquisire l’utile immediato che una particolare circostanza sembra potergli assicurare, piuttosto che sulla coltivazione di interessi di lungo periodo. In altre parole la personalità dell’imperatore si presenta complessa e altrettanto complicati sono i suoi processi decisionali, nella cui elaborazione convivono analisi e ragionamenti approfonditi insieme a intuizioni improvvise. Il piano per la campagna del Belgio appartiene alla prima componente, ma la scelta delle persone che vengono chiamate a metterlo in atto sotto la sua direzione sembra derivare da motivazioni di altra natura.
È opinione comune che nella selezione degli uomini che debbono guidare l’esercito francese nello scontro con inglesi e prussiani Napoleone commetta una serie continua di errori, come se la sua capacità di giudicare gli uomini, universalmente riconosciuta e dimostrata di recente nell’assegnazione degli incarichi ministeriali, sia scomparsa. L’evidenza di questo fatto è tale da costituire un parere condiviso da tutti gli studiosi che hanno scritto sulla battaglia di Waterloo, senza che nessuno sia riuscito a fornire una spiegazione davvero convincente per le scelte operate dall’imperatore.
David Chandler, considerato il maggior esperto napoleonico in ambito militare, scrive: «Bonaparte aveva quasi sempre indovinato la scelta dei collaboratori per gli alti comandi e gli incarichi di responsabilità. Le incertezze del 1815 si possono capire solo avanzando due ipotesi: o la sua capacità di selezionare si era improvvisamente esaurita – eventualità alquanto improbabile – oppure aveva deliberatamente preferito uno stato maggiore e comandanti di personalità non eccelsa per far risaltare ancor di più il proprio genio». E aggiunge: «non voleva dividere gli onori del trionfo con subalterni come Davout e Suchet, già celebri e ricchi di allori». Ma Davout e Suchet non sono figure di prestigio maggiore di Soult e Ney, che invece partecipano alla campagna e sono a giudizio unanime fra i maggiori responsabili della sconfitta francese, né l’imperatore ha mai dovuto temere che l’immaginazione popolare attribuisse ad altri il merito delle sue vittorie, semmai capita il contrario: ogni successo viene riferito unicamente alla sua persona, quale che sia il modo in cui esso è stato conseguito.
Analizziamo nei dettagli le scelte fatte da Napoleone nell’assegnazione dei ruoli più importanti ai vertici dell’Armée du Nord. L’incarico di capo di stato maggiore, vista l’indisponibilità di Berthier, già verificata prima della sua misteriosa morte avvenuta il 1° giugno, viene affidato a Soult. Il maresciallo, come abbiamo visto ministro della Guerra di Luigi XVIII al momento dello sbarco a Golfe Jouan, ha partecipato alle guerre della repubblica, a molte campagne dell’impero e ad Austerlitz ha comandato le truppe che hanno sfondato il centro austro-russo conseguendo una vittoria decisiva. In seguito è stato a lungo in Spagna dove ha combattuto contro Wellington con alterne fortune, ma sempre con grande determinazione. Come abbiamo già ricordato, il 10 aprile dell’anno precedente, una settimana dopo l’abdicazione di Fontainebleau, della quale né lui né il suo rivale inglese erano a conoscenza, lo ha affrontato nella battaglia di Tolosa, ultimo e inutile scontro tra francesi e alleati combattuto a guerra già conclusa.
Gli manca però ogni esperienza di direzione di uno stato maggiore, lavoro che richiede metodo e comprensione degli uomini più che capacità di comando delle truppe sul terreno o coraggio fisico, mentre sembra aver maturato una conoscenza approfondita delle tattiche impiegate dagli inglesi in battaglia e questo ne farebbe l’uomo giusto per comandare l’ala dell’esercito francese destinata a opporsi a Wellington. Tutti sanno inoltre del pessimo carattere di Soult, arrogante e prepotente, che lo rende inadatto al delicato lavoro di relazione fra l’imperatore e i suoi orgogliosi generali, insito nel ruolo di capo di stato maggiore. Ricordiamo la secchezza inopportuna dell’ordine di rientrare a Besançon impartito a Ney alla notizia dello sbarco di Napoleone in Francia e il rifiuto di fornirgli informazioni sul quadro complessivo della situazione, utili se non addirittura indispensabili per svolgere l’incarico che gli veniva dato. Nonostante questo l’imperatore affida a lui il compito di coordinare i movimenti di tutta l’Armée du Nord per mettere in atto il piano di guerra che ha concepito, con la conseguenza immediata di suscitare violenti conflitti fra il nuovo capo di stato maggiore e il ministro della Guerra. Il primo pretende infatti di impartire ordini non solo alle truppe alle sue dirette dipendenze ma all’intero esercito francese. È necessario l’intervento diretto dell’imperatore per sedare il conflitto fra i vertici militari e ricondurre Soult nell’ambito delle sue competenze.
Eppure fra i marescialli che sono tornati sotto le bandiere dell’imperatore si trova la persona che ha le caratteristiche adatte a ricoprire l’incarico di capo di stato maggiore dell’Armée du Nord: Louis-Gabriel Suchet, duca di Albufera. Ha svolto tali mansioni in molte campagne, agli ordini di Brune, Joubert, Masséna e Moreau, sempre con totale soddisfazione dei superiori. Nel 1798 Joubert ha addirittura subordinato la propria accettazione del comando dell’Armata d’Italia, che il Direttorio gli offriva, alla presenza di Suchet in quel ruolo. In seguito il maresciallo è stato cinque anni in Spagna, dove ha diretto il vittorioso assedio di Tarragona, successo che gli è valso il conferimento del prestigioso bastone.
Le sue qualità non sono affatto ignote a Napoleone, che infatti nel 1815 gli affida il comando della più rilevante forza francese al di fuori dell’Armée du Nord, quella delle Alpi, composta da venticinquemila uomini. Anche in quell’incarico Suchet dà prova di elevate doti militari: nonostante disponga di forze inferiori a quelle nemiche assume l’iniziativa e invade la Savoia, mettendo in difficoltà le truppe austriache che lo fronteggiano. Unico suo limite, quello che secondo alcuni lo esclude da un incarico di responsabilità nell’Armée du Nord, consiste nel fatto di non avere mai occupato una posizione di comando alle dirette dipendenze di Napoleone. L’imperatore si comporterebbe in sostanza come l’organizzatore di una scampagnata fra amici, scegliendo di portare con sé quelli con i quali ha maggior dimestichezza, più che come il geniale ideatore di una campagna il cui esito risulterà decisivo riguardo alla sua conservazione della corona di Francia.
Motivazioni non dissimili a quelle avanzate per spiegare l’esclusione di Suchet dai vertici dell’armata che effettua l’offensiva in Belgio sono state proposte per dar ragione della ancor più sorprendente assenza di Davout. Il maresciallo viene considerato uno dei migliori comandanti di cui Napoleone si sia avvalso nelle sue campagne, a partire da quella d’Egitto, alla pari se non superiore a Lannes e Masséna. Spettacolare rimane la sua vittoria ad Auerstädt, la battaglia parallela a Jena, nel corso della quale Davout riesce ad annientare il grosso dell’esercito prussiano pur disponendo di forze nettamente inferiori. In seguito il maresciallo ricopre i suoi incarichi di comando, in guerra e in pace, in Polonia e nei territori tedeschi: non a caso, come si è detto, si trova ad Amburgo al momento della prima abdicazione di Napoleone. Si tratta senza dubbio della persona giusta per guidare l’ala destra francese, destinata a fronteggiare l’esercito prussiano, ma Napoleone lo lascia a Parigi, al ministero della Guerra. L’imperatore non prova particolare simpatia per Davout, che comunque è uno dei cinque marescialli a fregiarsi del titolo di principe dell’impero, e forse il fatto di aver dovuto dividere con lui il merito della vittoria di Jena lo ha disturbato, ma la rinuncia al contributo che un collaboratore di tali capacità potrebbe fornire durante la campagna del Belgio resta inspiegabile, se si crede che lo scopo cui tende l’imperatore al fondo del suo animo sia la vittoria sul campo di battaglia. Non sembra convincente neppure l’ipotesi che l’imperatore voglia mantenere il controllo di Parigi attraverso la presenza nella capitale di un uomo deciso e affidato: è chiaro che il futuro della Francia si decide sui campi di battaglia del Belgio e che una crisi politica può derivare solo dalla sconfitta dell’Armée du Nord a opera degli eserciti alleati.
Invece di Davout, Napoleone chiama presso di sé il suo collega Ney e lo fa in un modo che lascia sconcertati. Come abbiamo detto in precedenza, dopo il suo repentino abbandono del campo monarchico per passare in quello imperiale, il maresciallo si ritira nella sua residenza di campagna e non partecipa in alcun modo alla riorganizzazione dell’esercito, né viene sollecitato a farlo. Solo il giorno 11 giugno Napoleone gli invia tramite Davout un messaggio piuttosto strano, più l’invito a una festa che la convocazione presso un comando militare: «Se desiderate partecipare alle prime battaglie, presentatevi il giorno 14 ad Avesnes, dove si troverà il mio quartier generale».
Scegliere Ney come comandante di una delle ali dell’Armée du Nord, con la responsabilità di una forza dai trenta ai quarantamila uomini, è quasi una follia, farlo all’ultimo momento ha dell’incredibile. L’unico pregio del maresciallo consiste nell’affetto e nella devozione che provano per lui i soldati. Per il resto Ney presenta gravi limiti come generale: una chiamata improvvisa, senza il tempo di organizzare uno staff di collaboratori e di studiare con cura il terreno e i piani di battaglia non fa che ingigantirli. Già a Jena il maresciallo ha dimostrato di essere più un valoroso che un alto ufficiale in grado di comandare grossi contingenti; Napoleone ha detto una volta di lui che «la sua è l’intelligenza di un tamburino». Dopo la campagna di Russia, che lo ha molto provato nel fisico, le capacità di Ney sono, se possibile, peggiorate. A Bautzen, il 21 maggio 1813, il suo fraintendimento degli ordini ricevuti, in quell’occasione da parte del metodico Berthier, è costata all’imperatore la trasformazione di una vittoria decisiva in un successo di modeste proporzioni e di nessun significato strategico. A Dennewitz, il 6 settembre dello stesso anno, Ney viene preso in trappola da Bernadotte e perde diecimila dei quarantamila uomini che si trovano sotto il suo comando: colto dal panico ha ordinato a Oudinot la manovra completamente errata che conduce al disastro. Il suo rovescio in quella circostanza costringe Napoleone a ritirarsi al di qua dell’Elba, consentendo agli alleati di effettuare il concentramento di forze che li mette in grado di presentarsi congiunti a Lipsia e lì di guadagnare la vittoria che apre loro le porte della Francia. Dall’agosto 1813 Ney ha inoltre perduto il miglior collaboratore, lo svizzero Antoine Jomini, in seguito grande teorico militare. Il generale è un eccellente capo di stato maggiore, ma ha lasciato il servizio presso il maresciallo per trasferirsi addirittura nel campo avverso. Già nel 1807 si sono manifestate le prime tensioni fra lui e Berthier, ma Napoleone, consapevole del suo valore, lo ha sostenuto, accettando anche che collaborasse con l’esercito dello zar Alessandro, all’epoca alleato dell’imperatore. Al momento della rottura franco-russa, nel 1812, Jomini si trova in imbarazzo e chiede di essere assegnato a ruoli di collegamento. Partecipa però attivamente alla campagna di Germania del 1813, ma i dissapori aumentano fino a quando il generale lascia l’esercito francese e si arruola in quello russo, divenendo aiutante di campo dello zar Alessandro. Il maresciallo è quindi rimasto privo del collaboratore capace di comprendere la situazione generale quando lui non è in grado di farlo e di coordinare l’azione contemporanea dei complessi formati da decine di migliaia di uomini che gli vengono affidati. Una catena di comando che passi attraverso Soult per arrivare a Ney non ha nessuna speranza di funzionare, e l’intera campagna del Belgio lo dimostra.
Neppure la scelta di Grouchy alla guida prima della riserva di cavalleria e poi dell’ala destra dell’Armée du Nord appare felice. Il generale ha ricevuto il 15 aprile 1815 l’ultimo bastone da maresciallo concesso da Napoleone, unico conferimento di questa dignità effettuato durante i 100 giorni. È interessante approfondire le ragioni di questa nomina, che aiutano a chiarire i contorni della personalità di Grouchy, al quale fino a quel momento non sono mai stati assegnati incarichi di responsabilità e rilievo né ha compiuto azioni di particolare significato. Semmai si segnala il fatto che il generale è stato posto al comando della scorta personale dell’imperatore durante la ritirata di Russia, il celebre Escadron sacré composto esclusivamente da ufficiali appartenenti a reparti distrutti, anche lui vanta quindi un rapporto di una certa familiarità con Napoleone. Pare inoltre accertato che nel 1813 il suo momentaneo ritiro dal servizio attivo sia dovuto al rifiuto dell’imperatore stesso di assegnargli il comando di un corpo, per il quale lo riteneva inadatto. Nella campagna del Belgio sotto la sua responsabilità se ne trovano addirittura due, il III e il IV. Grouchy partecipa poi alla campagna di Francia del 1814 come comandante della cavalleria francese, che quasi non esiste, ma solo dopo il rientro dell’imperatore dall’Elba viene accolto nel novero dei generali ai quali affidare compiti di particolare responsabilità, senza una ragione che vada oltre la sua devozione.
Nei tratti del suo carattere spicca la mancanza di iniziativa, e proprio grazie a questo limite viene a trovarsi nelle condizioni di ricevere l’ambito bastone da maresciallo: nella repressione delle deboli reazioni monarchiche seguite al ritorno di Napoleone in Francia, come si è visto, il generale si è trovato, per una serie di casualità, a dover ratificare l’accordo di capitolazione del duca di Angoulême, le cui truppe si sono sbandate, concordato con il generale Gilly, vero artefice della sua sconfitta. In quanto ufficiale più alto in grado fra quelli presenti nella regione Grouchy è nelle condizioni di dire l’ultima parola, ma si rifiuta di prendere qualsiasi decisione e preferisce invece attendere istruzioni da parte dell’imperatore. Il ruolo avuto nella sconfitta dell’ultimo tentativo di resistenza realista e il suo rifiuto di agire in autonomia valgono a Grouchy il bastone di maresciallo, il cui conferimento rappresenta un atto politico e non certo il riconoscimento per un gesto di particolare valore militare. Il comportamento del maresciallo nella circostanza della resa del Borbone costituisce un attestato di lealtà, ma anche una pessima presentazione per un generale chiamato in seguito a svolgere un ruolo nel quale la capacità di prendere decisioni autonome e in tempi brevi risulta decisiva. Inoltre, se Grouchy è simpatico a Napoleone non lo è affatto ai suoi subordinati in Belgio al comando dei due corpi che formano l’ala destra dell’Armée du Nord, Vandamme e Gérard, generali ben più esperti di lui nella direzione di complessi militari misti, per la quale è necessaria una notevole esperienza tattica, oltre alla capacità di comprendere la situazione strate...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. I. Il mare dell’Elba
  5. II. Da Golfe Jouan alle Prealpi
  6. III. L’incontro di Laffrey e le porte di Grenoble
  7. IV. Da Grenoble a Fontainebleau
  8. V. Il cortile del Cavallo Bianco
  9. VI. Le Tuileries
  10. VII. Vienna non vuole Napoleone
  11. VIII. Riunione di famiglia a Parigi
  12. IX. Al palazzo dell’Eliseo
  13. X. Il palco troppo alto del Campo di Maggio
  14. XI. Vincere nella sconfitta
  15. XII. L’ultimo mese in Francia
  16. XIII. Il destino dell’imperatore, del suo nemico e dei suoi marescialli
  17. Conclusione
  18. Cronologia dei 100 giorni 26 febbraio - 15 luglio 1815
  19. Nota bibliografica
  20. APPENDICI
  21. Copyright