Il tribunale del bene
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Il tribunale del bene

La storia di Moshe Bejski, l'uomo che creò il Giardino dei Giusti

  1. 348 pagine
  2. Italian
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Il tribunale del bene

La storia di Moshe Bejski, l'uomo che creò il Giardino dei Giusti

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Esiste a Gerusalemme un luogo chiamato Giardino dei giusti, dove ogni albero piantato ricorda un uomo che durante la Shoah ha salvato almeno un ebreo dalla persecuzione nazista. A idearlo è stato Moshe Bejski, che ha saputo trasformare il suo destino personale in un esempio universale. Perseguitato dai nazisti durante l'invasione della Polonia, è scampato alla deportazione grazie all'intervento di Oskar Schindler. Dopo il conflitto mondiale Bejski ha pagato il debito di gratitudine verso il suo salvatore conducendo una campagna controcorrente affinché Schindler venisse onorato, al pari di molti altri "gentili" che aiutarono gli ebrei, riuscendo a far riconoscere il valore straordinario della "memoria del bene" e restituendo alle vittime la speranza e la forza di ricominciare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852059940
Argomento
History
Categoria
World History
Parte seconda

LA MEMORIA DEL BENE

VI

La Commissione dei giusti: un’identità difficile

Il giudice del bene

«Ci spieghi perché vorrebbe fare il giudice.» Moshe Bejski si trovava davanti alla commissione statale che esaminava le domande per entrare in magistratura.
Vedeva dietro il tavolo le facce curiose di otto persone che lo scrutavano come se fosse uno studente liceale nel giorno dell’esame di maturità.
Si sentiva pronto a rispondere alle domande più disparate attorno ai problemi della giustizia nel suo paese. Aveva in mente tutti gli argomenti di discussione che potevano presentarsi in un’occasione simile. Non si aspettava però quella domanda, che gli sembrò un’intrusione nel suo mondo privato.
Ci pensò un attimo e, come per liberarsi di un lungo travaglio, diede una risposta secca e brevissima al ministro della Giustizia che presiedeva la commissione: «Lo faccio perché è un mio dovere. Le ripeto, è un mio dovere».
In quel momento stava per lasciare una professione che garantiva un tenore di vita inimmaginabile per il ragazzo di Dzialoszyce. Aveva la prospettiva di grandi guadagni con gli altri giovani dello studio legale, ormai inseriti fra i professionisti più ricchi e affermati di Tel Aviv. Sceglieva invece un lavoro di poca gloria, che gli avrebbe dato, in quei tempi pionieristici dello Stato ebraico, lo stesso stipendio di un insegnante di liceo.
«Non ho mai avuto in tutti questi anni alcun rimpianto per quella scelta. Già mi sembrava un miracolo poter continuare a vivere, nonostante la cardiopatia che mi portavo fin dall’infanzia.»
Bejski dava forza e adrenalina al suo fragile cuore con la passione per la resurrezione della giustizia, che aveva visto morire quando era ragazzo.
Era attratto dall’idea di ascoltare, di ragionare, di porsi tante domande sui comportamenti degli uomini finiti in tribunale, ma anche di assumersi la responsabilità della decisione al momento della sentenza.
C’era soltanto un compito che non avrebbe mai accettato di svolgere, che considerava una discriminante fondamentale dopo la sua esperienza in Polonia.
«Mi sarei rifiutato di lavorare per qualsiasi tribunale che considerasse legittima la condanna a morte. Dopo avere visto migliaia di uomini scomparire per la sola colpa di essere ebrei, sono arrivato a una conclusione irrevocabile. Nessun uomo ha il diritto di togliere la vita a un altro essere umano, neanche il tribunale del paese più civile e democratico del mondo nei confronti del peggiore criminale.»
L’aveva capito a Plaszow di fronte agli occhi di ghiaccio di Amon Goeth.
Moshe avvertì la stessa sensazione di doversi assumere personalmente una responsabilità, il giorno in cui accettò la direzione della Commissione dei giusti. Era stato proprio Moshe Landau a proporre alla commissione, il 6 ottobre 1970, di nominarlo al suo posto come presidente, nonostante le divergenze, le incomprensioni, le diversità di carattere con quell’uomo che gli sembrava troppo mite e accomodante.
«Sono arrivato alla conclusione che proprio Bejski sia la persona più adatta ad assolvere questo incarico, ora che non ho più tanto tempo a disposizione, con la mia nomina a presidente della Corte costituzionale. Molte volte l’ho pregato di accettare, ma soltanto ora sono riuscito a convincerlo. Per questo vi chiedo di appoggiare la sua candidatura.»1
Landau la pensava diversamente sulla liceità della condanna a morte verso un criminale nazista, come sul valore morale di un personaggio quale Oskar Schindler, ma era perfettamente consapevole che non c’era nessun altro come Moshe Bejski in Israele che credesse così tanto in quel comitato di Yad Vashem, considerato da molti marginale e secondario.
Sembrava infatti poca cosa piantare degli alberi in un giardino per onorare degli uomini giusti in confronto all’attività di chi, nel paese che voleva ridare dignità agli ebrei, costruiva case, autostrade, università, musei, fabbriche, palazzi, o al cospetto dei gloriosi generali e colonnelli impegnati al fronte per difendere la nazione nelle infinite guerre del Medio Oriente.
Landau non lo ammetterà per tutta la vita, ma era stato conquistato dal cuore e dall’ostinazione morale del più grande protettore di Schindler.
Moshe, con la sua tipica modestia, cercò di tirarsi indietro temendo che la sua investitura potesse recar torto a una figura prestigiosa come Landau.
«Io abito a Tel Aviv e non sono sicuro di poter svolgere bene questo compito perché sono troppo lontano da Gerusalemme, dove si riunisce la commissione. Perché invece non cerchiamo di convincere Landau a rimanere come presidente? Tutti noi abbiamo imparato molto dal suo lavoro.»2
Fu un tentativo inutile.
Moshe non si arrese neanche il giorno dopo, quando ricevette formalmente l’incarico; propose infatti, «in nome del rispetto che sentiamo per lui»,3 che a Landau venisse comunque affidata la presidenza onoraria. «Vi ringrazio per la stima che mi accordate» rispose il giudice del processo Eichmann «ma non mi piacerebbe proprio rubare a Bejski il lavoro che gli spetta.»4
Era la risposta di un uomo orgoglioso, che tradiva un inequivocabile sentimento di superiorità nei confronti del suo sostituto, ma fu nel contempo una decisione molto saggia, perché quelle due teste difficilmente avrebbero potuto andare d’accordo.
Cominciò così l’avventura del nuovo presidente.
Moshe intuì presto quanto fosse diverso il suo nuovo compito da quello che ricopriva abitualmente in tribunale.
Aveva infatti assunto, con il suo spirito di gratitudine verso tutti i salvatori, una funzione umana assolutamente inesplorata. Era diventato da un giorno all’altro il «giudice del bene».
«In tribunale chiedevo agli uomini di rispettare la legge e di attenersi a un normale modello di vita, che non implicasse alcuna forma di prevaricazione nei confronti dell’altro. A Yad Vashem chiedevo molto di più, cercavo meticolosamente le tracce di un comportamento non comune, al di fuori della norma. Giudicavo se un uomo era stato capace di fare del bene nel momento più oscuro e difficile dell’umanità.»
Era come Abramo di fronte a Sodoma e Gomorra, quando cercava disperatamente gli uomini che con i loro comportamenti controcorrente avrebbero potuto salvare le città. Non aveva la pretesa di giudicare la loro condotta in generale, né esprimeva un verdetto sulle loro credenze, sulla loro fede, sulle loro azioni nei vari ambiti dell’esistenza, ma considerava soltanto un elemento: la loro responsabilità nei confronti di un altro essere umano. Era l’unica forma di bene che contava per quel tipo particolare di giudice ed è forse l’unica che ogni uomo può rintracciare in un altro uomo.
Bejski viveva, nel corso della stessa giornata, la più incredibile metamorfosi che potesse capitare a un magistrato: di giorno, in Corte d’assise, si pronunciava su chi non aveva rispettato le leggi del codice penale; di sera, quando si ritrovava con gli altri membri della commissione, premiava le azioni degli uomini che per fare il bene avevano osato sfidare, come Antigone, le leggi del tempo. Infatti il giusto, ai tempi di un male sancito dalla legge, poteva soltanto essere un trasgressore.
Per lunghi anni Moshe Bejski si interrogò sul tipo d’uomo che potesse meritare il suo albero, in quel paradiso della memoria del bene che era il viale di Yad Vashem.
Nel 1974, quando presentò pubblicamente la sua filosofia nel corso di una conferenza, si mostrò sicuro di sé: «Durante i primi undici anni della sua esistenza la commissione ha stabilito alcuni criteri fondamentali attraverso cui un uomo può accedere a questo onore: l’aiuto offerto per il salvataggio di una vita, il rischio della propria per salvare un ebreo, l’assenza di qualsiasi tipo di ricompensa economica o di altro genere nel compimento del suo gesto».5 Concluse il discorso rivendicando con orgoglio di essersi sempre attenuto scrupolosamente a questi principi.
Bejski era stato tentato diverse volte di proporre una modifica dell’articolo 9 della legislazione di Yad Vashem sulle caratteristiche dei giusti, ma poi si era tirato indietro, perché qualsiasi definizione ulteriore avrebbe rischiato di creare nuovi problemi.
Era meglio rimanere nel vago, non essere troppo precisi, non diventare prigionieri degli schemi, ma sforzarsi di analizzare ogni volta, caso per caso, con grande apertura mentale.
Bisognava sapere ascoltare il soffio del bene.
«Come uomo di legge sono un sostenitore della parola scritta e di un quadro di lavoro chiaro, basato su regolamenti vincolanti. Non mi sono tirato indietro di fronte alla difficoltà di stabilire delle regole, ma per quanto mi sia impegnato e sforzato di elaborarle, mi sono convinto che non dobbiamo legare la commissione con protocolli rigidi, difficilmente applicabili alla complessità dei casi problematici che trattiamo. Ogni caso non assomiglia a un altro e anche quando sembra ci siano delle analogie, ci si accorge poi che dal punto di vista del luogo, del tempo e di altri fattori, ogni azione umana si presenta in modo diverso.»6
Moshe Bejski non esplicitò fino in fondo il vero problema, ma aveva intuito che sarebbe stato necessario diventare un vero e proprio Dio per riuscire a giudicare con perfetta imparzialità. Per uno spettatore umano era qualche volta impossibile cogliere l’intenzione che si nasconde dietro il mistero di ogni azione umana. Molte volte aveva pensato che persino il miglior giudice non avesse la possibilità di cogliere fino in fondo il meccanismo intimo e profondo che attraversa la coscienza di un uomo. Anche in un comportamento apparentemente sorretto da un interesse egoistico poteva manifestarsi l’amore e la protezione verso un altro essere umano, come del resto in un’azione apparentemente buona e limpida poteva in realtà emergere uno scopo di segno contrario.
L’inflessibile giudice Landau aveva preteso che la chiave per giudicare fosse il rapporto limpido tra un’intenzione chiara e l’azione conseguente del salvataggio. Moshe Bejski invece si era reso conto che un’azione buona si può manifestare anche al di là delle intenzioni.
Si poteva avere salvato con il cuore un ebreo anche se si era nazisti, anche se si era pensato in un primo momento soltanto al denaro o a un altro tipo di vantaggio, anche se si era stati sedotti dal volto di una bella donna, anche se nella vita quotidiana si continuava a essere un po’ farabutti o poco tolleranti o inguaribili egoisti.
Non esistevano confini precisi. La difficoltà più grande per il giudice del bene era quella di saper cogliere il segreto intimo celato dietro un’azione.
Preoccupato dall’idea di sbagliare, analizzava con pazienza e modestia infinita tutti i casi che si presentavano alla commissione. Non cessava mai di porsi delle domande, non si faceva mai condizionare da un pregiudizio, partiva ogni volta da una grande fiducia nelle potenzialità dell’uomo. Era diventato consapevole che in quel particolare mestiere che gli era capitato di esercitare l’inadempienza più grande consisteva nell’escludere dalla memoria, per un preconcetto, l’azione meritoria di un altro essere umano.
Si sentiva investito di una grande responsabilità per aver assunto il ruolo di presidente in seno alla commissione e sapeva che per esercitarlo non bastavano il rigore e l’onestà intellettuale che tutti gli riconoscevano.
Bejski aveva scoperto che l’esperienza nel campo di Plaszow gli aveva regalato una sensibilità che non tutti gli uomini possiedono. Di fronte al buio e alle macerie si era abituato a cogliere con rinnovato stupore la minima scintilla di bene, la più fragile parvenza di umanità. Era come se avesse costruito dentro di sé una ricetrasmittente capace di afferrare nel vuoto totale anche le onde più corte e impercettibili.
Per questo motivo non aveva più dimenticato la mela di Schindler e aveva cominciato ad apprezzare nel paesaggio umano più alberi da frutto di quanti normalmente un individuo è in grado di vedere.
Aveva intuito che qualche volta non si coglie il bene semplicemente per distrazione. Quello strano allenamento dell’anima, esercitato nel luogo peggiore, gli aveva fatto apprezzare un’immagine di Dio che appare spesso oscura e incomprensibile; anche se, in realtà, in Dio Moshe non aveva mai tanto creduto. Ma era un’immagine simbolica e lo faceva riflettere. Per quale ragione particolare Dio dovrebbe essere misericordioso e non invece severo e implacabile come quello che aveva in mente il giudice Landau? Soltanto per un motivo, pensava Bejski: perché è meno distratto degli uomini. È più capace di guardare, apprezzare, valorizzare ogni atto di umanità. Non ne vuole dimenticare nessuno.
Il co...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il tribunale del bene
  4. La coerenza
  5. Parte prima - LA TRAVERSATA DEL MALE
  6. Parte seconda - LA MEMORIA DEL BENE
  7. Postscriptum
  8. Elenco del numero di giusti riconosciuti per ogni nazione
  9. Note
  10. Inserto fotografico
  11. Copyright