Veglia d'armi
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Veglia d'armi

L'uomo di Tolstòj

  1. 176 pagine
  2. Italian
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Veglia d'armi

L'uomo di Tolstòj

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La letteratura, la guerra e la natura umana analizzate attraverso le opere di Tolstòj. Un viaggio avventuroso nei modi e nelle forme del romanzo moderno in un saggio di singolare intensità.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852062148

Veglia d’armi

Volete sapere come si svolgono i combattimenti? Leggete la Descrizione della guerra di Michajlovskij-Danilevskij: è un libro meraviglioso; descrive tutto nei dettagli.
Il capitano di L’incursione (1852) sta parlando all’eterno ragazzo tolstojano che sembra appena uscito da una stampa illustrata. Nella sua battuta si sente già l’ironia sulle ricostruzioni storiche effettuate dagli studiosi a tavolino che saranno presenti in Guerra e pace. «Al contrario, questo non mi interessa affatto» osserva il ragazzo e, poco dopo, domanda: «Che cosa intendete, voi, per coraggioso?». Il capitano risponde: «coraggioso è colui che si comporta come bisogna».1
Come bisogna stare al mondo? In quale modo si deve vivere? Tolstòj sin da giovane s’imponeva regole ferree da rispettare, lingue da studiare, ginnastica da eseguire. I diari lo attestano: era un frankliniano. Ha lasciato certi cataloghi che assomigliano a quelli che scriveva Ugo Foscolo adolescente nel “Piano di studi”, un altro scrittore e soldato, un altro strano tipo d’illuminista.
Quattro uomini seduti intorno al fuoco, le chiacchiere del bivacco, di notte, prima dello scontro: è una visione ricorrente nella sua opera. Compare per la prima volta nel Taglio del bosco (1854) dove troviamo anche l’idealizzazione del soldato russo: «Non ha bisogno di parole a effetto, discorsi, grida di guerra, canzoni e tamburi: al contrario, ha bisogno di tranquillità, ordine e assenza di qualsiasi tensione».2
Sembra già di vedere gli antieroi di Guerra e pace: Timochin, Tuscin. Essi eseguono il compito loro assegnato e, senza protagonismi, danno contributi determinanti alla vittoria. Sono quasi sempre uomini semplici e umili. Simili a quelli che Pierre incontra nei boschi dopo aver assistito come un reporter alla carneficina di Borodinò e, accettando il cibo che gli offrono, si riconcilia con il mondo. Poco tempo dopo, sul letto di convalescente, ancora intontito e confuso, pensa: «Essere un soldato, semplicemente un soldato».3
Chi è dunque il soldato? Lo capiamo seguendo la storia di Nicola Rostòv, l’uomo comune, quando, dopo una lunga licenza, torna al suo amato reggimento:
Non c’era tutto quel disordine del libero mondo, in cui egli non trovava un posto per sé e si sbagliava nello scegliere… non c’erano quelle ventiquattro ore della giornata, che si potevano adoperare in tante maniere diverse… Là, al reggimento, tutto era chiaro e semplice.4
Ricordiamo la missione del generale-aiutante Balasciòv al quale lo zar affida un messaggio da consegnare a Napoleone appena questi è penetrato in Russia. Il messaggero si presenta alle avanguardie francesi che lo prendono in consegna facendolo sfilare in mezzo alla Grande Armata. Passando di comando in comando, Balasciòv conosce i più alti gradi: vede Murat, Berthier, Davout, gli assistenti imperiali, lo stesso Napoleone. È una discesa fiabesca nel cuore dell’esercito nemico. Intorno sentiamo la protezione assicurata dal mondo militare. Migliaia di uomini si stanno preparando a morire, eppure sono anche sottilmente inattaccabili, giustificati dal ruolo che interpretano: non hanno da render conto a nessuno. Basta eseguire gli ordini e tutto andrà a posto.
La marcia verso i luoghi del combattimento allontana da casa. Si attraversano nazioni a piedi. Trenta chilometri al giorno. Partenza all’alba, accampamento verso mezzogiorno. Il pomeriggio dedicato ai problemi di vettovagliamento. Dentro lo zaino c’è tutto quel che serve. Camminando, gli uomini parlano, raccontano aneddoti scherzosi. Avanza un’intera società. Napoleone concedeva una sosta di cinque minuti ogni ora: l’ultima mezz’ora di marcia veniva fatta al suono della banda musicale. La forza del passo militare protegge, rassicura, anche se è diretta verso il fuoco nemico.
Il soldato in movimento è circondato, limitato e trascinato dal suo reggimento, come il marinaio dalla nave sulla quale si trova. Per quanto vada lontano, per quanto strane, sconosciute e pericolose siano le latitudini in cui è penetrato… così ha sempre e dappertutto intorno a sé gli stessi compagni, le stesse file, lo stesso sergente Ivàn Mìtric, lo stesso cane della compagnia, gli stessi superiori.5
Nell’Aviere Ross (1955) Thomas Edward Lawrence sostiene, più o meno, la stessa cosa:
La vita militare insegna a vivere di poco. Noi apparteniamo a una cosa grossa, che esisterà sempre per innumerevoli generazioni di comuni avieri, come noi. Ce lo rammenta la nostra esterna identicità di vestito e tipo. E anche la nostra segregazione e concentrazione. Noi andiamo al di là dell’Accademia, al di là di Whitewash Villas, al di là del Deposito, in centinaia di campi, su mezzo mondo. L’abitudine di “appartenere a qualcosa” genera in noi il senso d’essere una parte di molte cose.6
Si tratta di un modo d’essere profondamente drammatico per chi, come il principe Andrej, intuisce la fragilità di quello schema esistenziale, tanto più vano quanto più chiuso, rinserrato su se stesso, a parte rispetto al resto del mondo. Quando la truppa si bagna presso la diga di uno stagno in modo allegro e spensierato, il principe guarda lo spettacolo dei corpi bianchi che sguazzano felici «come carpioni stipati in un innaffiatoio», ascolta le grida, le esclamazioni. Gli vengono in mente strani pensieri: «Carne, corpo umano, carne viva, chair à canon7 e in queste parole, oltre al presentimento dell’imminente battaglia, c’è l’intuizione di una caducità a cui nessuno può sottrarsi.
Nello stesso tempo, il punto di vista del soldato è privilegiato perché esterno e formale. Se si riducono i margini della scelta individuale, aumenta il gusto della libertà. Il militare rappresenta un ordine spirituale, nel richiamo costante all’essenzialità, rigettando il superfluo della vita. Infatti egli compie due fondamentali esperienze: l’ozio e la morte.
Una tradizione biblica dice che l’assenza del lavoro – l’ozio – era la condizione necessaria della beatitudine del primo uomo sino alla sua caduta… Se l’uomo potesse trovare uno stato nel quale, rimanendo in ozio, sentisse di essere utile e di compiere il proprio dovere, troverebbe uno dei lati della beatitudine primitiva. E di una tale condizione di ozio obbligatorio e irreprensibile gode un’intera classe – la classe militare.8
Nelle corrispondenze di guerra dei Racconti di Sebastopoli (1855-56) troviamo raffigurati entrambi i momenti con una concisione secca che si rivela specialmente attraverso il rapporto con i diari scritti negli stessi anni. In privato il giovane scrittore dava libero sfogo alla sua irruenza, raccontando aneddoti divertenti, oltre che tragici, sulla vita nei celebri bastioni. I racconti invece selezionano frammenti di valore universale in rapide sequenze di forte presa. Classico esempio al riguardo è il personaggio dell’ufficialetto Volodja, protagonista finale del terzo racconto, inviato al fronte proprio quando il nemico sta attaccando, il quale sperimenta sulla propria pelle lo scarto fra ciò che si era immaginato fosse la guerra e ciò che realmente è.
Viene subito in mente il battesimo del fuoco di Nicola Rostòv durante lo scontro che la retroguardia di Bagratiòn sostiene contro le truppe guidate da Murat: l’alfiere cade da cavallo e i francesi lo inseguono prima ch’egli riesca a mettersi in salvo nella foresta. Oppure l’assalto di cavalleria sferrato dallo stesso Nicola contro i dragoni quando Napoleone ha già varcato le sacre rive del Niemen, e il dubbio che lo coglie nel portare il fendente sul giovane avversario terrorizzato.
Sono tre episodi molto simili e nella memoria del lettore resta sempre la faccia di un francese: quello con la barba bruna che spara su Volodja, il naso aquilino del fuciliere che rincorre Nicola e il biondo con le fossette sul mento che viene risparmiato. Sembrano ritratti di Géricault per potenza visiva: il monumentale tolstojano ha una plasticità morbida che impressiona. Nelle sue scene di guerra lo stravolgimento dell’organizzazione militare sul campo delle operazioni è totale. Disse Ernest Hemingway: «Tolstòj faceva assomigliare gli scritti di Stephen Crane sulla Guerra Civile alle brillanti fantasie di un ragazzo malato che non aveva mai visto la guerra ma solo letto le cronache delle battaglie e visto le fotografie di Brady che avevo letto e visto anch’io nella casa dei miei nonni».9
Tutti gli scrittori di guerra del nostro secolo riconducono, in un modo o nell’altro, al conte di Jàsnaja Poljana. Si possono seguire percorsi affascinanti fra Russia e Stati Uniti. A parte il fatto che la short story americana sarebbe inconcepibile senza Puškin, resta indubitabile che la ritirata di Caporetto così come viene descritta in Addio alle armi (1929), nel trionfo del caso sull’organizzazione militare, non può prescindere da Guerra e pace. Hemingway rilancia la pallina oltre lo stretto di Bering. A raccoglierla c’è il Viktor Nekrasov prima maniera, quello di Nelle trincee di Stalingrado (1946). Siamo alla svolta cruciale della seconda guerra mondiale. L’esercito sovietico ripiega sotto l’attacco delle artiglierie nemiche. Superato il Don, Stalingrado diventa l’ultima spiaggia. Il tenente Kerzencev difende la città della sua giovinezza. Non c’è tempo per pensare. Comincia il bombardamento della Luftwaffe. Spuntano i carri armati, come blatte cieche fra le macerie. I russi vivono nelle fogne. Non si fanno stanare. Escono e azzannano, finché i tedeschi, sfiniti, mollano la presa e se ne vanno. Come non sentire in tutto questo che Tolstòj è tornato a casa?
Del resto, negli stessi anni in cui viene pubblicato il libro di Nekrasov, compare anche Il nudo e il morto di Norman Mailer: ottocento pagine incandescenti, in piena ottemperanza filosofica e poetica ai dettami bellici tolstojani. Isola di Anopopei, oceano Pacifico, 1944. La vita dei soldati trascorre oziosa negli accampamenti, fra esercitazioni e uragani. Il generale Cummings, cinico e reazionario, s’intrattiene con il tenente Hearn, intellettuale e progressista. Anche se i due si odiano, in quel mare di fango e pioggia laggiù nei Tropici non possono fare a meno di confrontare le loro opposte visioni del mondo. Ma quando arriva il momento dell’azione, il generale affida al tenente una missione senza speranza con la precisa intenzione di ucciderlo. Gli ordina di compiere una ricognizione dietro le linee giapponesi per un’impresa che alla fine si rivelerà completamente inutile. Diciamo la verità: quella montagna da conquistare a tutti i costi non è altro che l’obiettivo di ogni uomo, ciò che nella vita vogliamo raggiungere senza riuscirci: forse, la nostra stessa solitudine.
Nei libri bellici novecenteschi troviamo pienamente applicato il rivolgimento kantiano sul quale in fondo è basato lo stesso celebre inizio della Chartreuse. Jean-Jacques Langendorf ne ha dato una perfetta definizione nel suo Elogio funebre del generale August-Wilhelm von Lignitz, libro di esibito tolstojsmo contemporaneo:
La ragione ha i suoi limiti proprio come la razionalità guerresca. Se la prima è impotente a cogliere l’in-sé della realtà – il noùmeno, per riprendere l’espressione del filosofo – la seconda è incapace di comprendere la realtà guerresca; il fatto di guerra non si lascia circoscrivere in alcun modo. Così, il segreto della vittoria non dipenderà mai dal “piano”, dal “metodo”, dal “sistema” (come avevano creduto tutti i post-fridericiani), poiché l’avversario sfugge per definizione a ogni tentativo di delimitazione, non altrimenti da come il noùmeno sfugge a ogni tentativo di conoscenza. È vano pretendere di capire la guerra come è; tutt’al più, essa si lascia ridurre a un apparire talmente fluttuante che l’assunzione di un sistema non può avere alcuna presa su di esso.10
Quale scrittore en plein air, Tolstòj è forse destinato a restare imbattuto: manovra le masse senza guardarle dall’alto, facendole passare sotto i nostri occhi attraverso degli zoom improvvisi che non riguardano necessariamente i protagonisti della narrazione, ma colgono i movimenti di centinaia di comparse tese a realizzare i loro scopi immediati. Su questa base si forma l’esperienza del soldato ed è tale l’intensità dello sguardo narrativo che non si può fare a meno di captare la direttrice metaforica a cui lo scrittore allude.
Essa riguarda la veglia d’armi che bisogna compiere nel tempo dell’esistenza, una specie di vigilanza interiore, la cui forma ognuno deve riuscire a trovare dentro di sé. Non dobbiamo mai dimenticare la nostra solitudine perfetta, di fronte alla morte e nella realtà quotidiana. Il disertore, dal Gus’kóv del Degradato (1856) al Dòlocov di Guerra e pace, sfugge a se stesso, prima che all’esercito. Quando s’era arruolato, credeva che la vie de camp fosse una delizia. Poi comprende che può capitare di trascorrere la notte in un burrone, con il pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Veglia d’armi
  4. Stemmi araldici
  5. Ragazze e Caucaso
  6. Veglia d’armi
  7. Musica da camera
  8. Il rintocco della campana
  9. Spiga di grano
  10. Lampada a olio
  11. Banco di scuola
  12. Arte della vita
  13. Copyright