Il re di ferro
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Il re di ferro

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  1. 312 pagine
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Il re di ferro

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Freddo, silenzioso e avvenente, Filippo IV detto "il Bello" siede sul trono di Francia e governa il suo regno con mano ferma. Ciò che non riesce a dominare sono le insane passioni che covano nella sua famiglia e che lo avvolgono in una rete di intrighi e delitti. Soprattutto nulla può contro il terrore che si diffonde a corte e in tutto il regno quando Giacomo di Molay, l'ultimo maestro dell'Ordine del Tempio, scaglia dal rogo la sua maledizione. Parole di fuoco, presagio di rovina per l'intera dinastia dei Capetingi...

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852056987

Parte seconda

LE PRINCIPESSE ADULTERE

I

Il banco Tolomei

Messer Spinello Tolomei rifletté a lungo. Poi abbassò la voce e, temendo forse che qualcuno stesse origliando, disse:
«Duemila lire d’anticipo vanno bene, monsignore?»
Il suo occhio sinistro era chiuso, e solo il destro brillava innocente e tranquillo.
Benché risiedesse in Francia da molti anni, Tolomei non era riuscito a disfarsi del suo accento italiano. Era un uomo grosso dal viso scuro e appesantito dal doppio mento. I suoi capelli grigi accuratamente tagliati scendevano sul colletto di un abito di panno fine bordato di pelliccia e teso alla cintola sul ventre a pera. Quando parlava, alzava delle mani grassocce e affusolate e le sfregava lievemente una contro l’altra. I suoi nemici sostenevano che l’occhio aperto era quello della menzogna e che lui si ostinava a tener chiuso quello della verità.
Questo banchiere, uno dei più potenti di Parigi, aveva modi da vescovo, soprattutto in quel momento, perché era proprio a un prelato che stava parlando.
Si trattava precisamente di Jean de Marigny, un giovane esile, elegante, quello stesso che, il giorno avanti, al tribunale episcopale insediato sul sagrato di Notre-Dame, si era fatto notare per i suoi languidi atteggiamenti prima di prendersela tanto con il gran maestro. Era fratello di Enguerrand de Marigny ed era stato nominato arcivescovo di Sens, carica dalla quale dipendeva l’intera diocesi di Parigi. Era dunque un uomo ben addentro ai più protetti segreti del regno.14
«Duemila lire?» disse.
Fingendo di sistemarsi sul ginocchio la preziosa stoffa della sua veste viola, cercava di nascondere la lieta sorpresa che la cifra proposta dal banchiere gli aveva procurato.
«Sì, credo che questa somma vada bene» aggiunse fingendo indifferenza. «Ma preferirei che l’affare venisse regolato al più presto.»
Il banchiere lo guardava come un grosso gatto che punti un tenero uccellino.
«Ma possiamo regolarlo immediatamente» rispose.
«Benissimo» disse il giovane arcivescovo. «E quando volete che vi vengano portati i...»
S’interruppe: gli era parso di udire un rumore dietro la porta. Ma no. Era tutto tranquillo. Si sentivano solo le voci e le grida degli arrotini, degli acquaioli, degli erbivendoli e dei mercanti di cipolle, di crescione, di formaggio bianco e di carbone di legna che affollavano la rue des Lombards a quell’ora mattutina. “Latte, donne, latte...” “Ho del buon formaggio di Champagne!...” “Carbone! Un denaro al sacco...” Dalle finestre a tre ogive, costruite secondo lo stile senese, una tenue luce illuminava le ricche tappezzerie dei muri, le credenze di quercia e la grande cassaforte di ferro.
«Gli... oggetti?» disse Tolomei completando la frase dell’arcivescovo. «A vostro comodo, monsignore, a vostro comodo.»
Aprì la cassaforte e ne tirò fuori due piccoli sacchi, che posò su un lungo tavolo da lavoro ingombro di penne d’oca, di pergamene arrotolate, di tavolette e di stiletti.
«Mille ciascuno» disse. «Prendeteli anche subito, se volete. Erano già pronti per voi. Vi spiacerebbe, monsignore, firmare questa ricevuta?...»
Tese a Jean de Marigny un foglio e una penna d’oca.
«Volentieri» disse l’arcivescovo prendendo la penna senza togliersi i guanti.
Ma, mentre stava per firmare, ebbe un’esitazione. Sulla ricevuta erano nominati gli “oggetti” che egli doveva consegnare a Tolomei perché costui ne facesse commercio: materiale ecclesiastico, cibori d’oro, croci preziose e armi rare, tutte cose provenienti dai beni sequestrati alle commende dei templari e conservati nell’arcidiocesi. Ora tutti questi beni sarebbero spettati parte al tesoro del re, parte all’Ordine degli Ospedalieri. Il giovane prelato stava dunque commettendo uno stornamento, un’autentica malversazione. E porre una firma sotto quella lista proprio il giorno dopo che il gran maestro era stato bruciato...
«Preferirei...» cominciò.
«Che gli oggetti non fossero venduti in Francia?» disse Tolomei. «Naturalmente, monsignore. Non sono pazzo, come si dice al nostro paese.»
«Volevo dire... questa ricevuta...»
«Non la vedrà nessuno all’infuori di me. Del resto sarebbe contro il mio interesse come contro il vostro. Noi banchieri siamo un po’ come i preti, monsignore. Voi confessate le anime, noi confessiamo le borse, e come voi siamo tenuti al segreto professionale. E sebbene sappia che questi fondi vi serviranno solo a sostenere i vostri infiniti atti di carità, non ne farò parola con nessuno. È solo per l’eventualità che capiti qualche guaio a uno di noi, che Dio ce ne liberi...»
Si segnò. Poi, rapidamente, fece le corna con le dita della mano sinistra dietro il tavolo.
«Non pesano un po’ troppo?» aggiunse, indicando i sacchetti come se per lui la faccenda fosse ormai conclusa.
«Grazie...» rispose l’arcivescovo «ho giù il mio servo.»
«Allora... qui, vi prego» disse Tolomei indicando col dito il punto in cui l’arcivescovo doveva firmare.
Costui non poteva più tirarsi indietro. Quando si è costretti a servirsi di complici, bisogna fidarsene per forza...
«Vedete bene, del resto, monsignore,» riprese il banchiere «che versando a voi una somma simile io non trarrò molto profitto da questo affare. Avrò tutti i rischi e nessun guadagno. Ma voglio aiutarvi perché siete un uomo potente e l’amicizia dei potenti vale più dell’oro.»
Aveva detto queste parole in tono bonario, tenendo però sempre chiuso l’occhio sinistro.
“Dopotutto, dice la verità” pensò Jean de Marigny.
E firmò la ricevuta.
«A proposito, monsignore,» disse Tolomei «sapete per caso come ha accolto il re... che Dio lo protegga... quei cani da caccia che gli ho mandato ieri?»
«Ah! Siete stato voi, allora, a regalargli quel grosso levriero che si porta sempre dietro e che chiama Lombard?»
«Lo chiama Lombard? Sono lieto di saperlo. Il re è uomo di spirito» disse ridendo Tolomei. «Pensate, monsignore, che ieri mattina...»
E stava per raccontare l’aneddoto quando bussarono alla porta. Entrò un impiegato ad avvertire che il conte Roberto d’Artois chiedeva di essere ricevuto.
«Bene, vengo subito» disse Tolomei allontanando il subalterno con un gesto.
Jean de Marigny si era rabbuiato.
«Preferirei... non incontrarlo» disse.
«Certo, certo» replicò cortesemente il banchiere. «Monsignor d’Artois è un gran chiacchierone.»
Suonò un campanello e subito si aprì una tenda. Un giovane dal giubbotto attillato entrò nella stanza. Era lo stesso che il giorno prima aveva rischiato di far cadere il re di Francia.
«Nipote mio,» disse il banchiere «accompagna monsignore senza passare dalla galleria e badando bene a che nessuno lo veda. E portagli questi fino alla strada» aggiunse mettendogli in braccio i due sacchetti d’oro. «Arrivederci, monsignore!»
Messer Spinello Tolomei s’inchinò per baciare l’ametista al dito del prelato. Poi scostò la tenda.
Uscito Jean de Marigny, il senese tornò al tavolo, prese la ricevuta che il prelato gli aveva firmato e l’arrotolò accuratamente.
«Coglione!» mormorò. «Vanesio, ladro, ma soprattutto coglione.»
Ora l’occhio sinistro era aperto. Mise dunque il documento nella cassaforte e uscì ad accogliere l’altro visitatore.
Arrivato a pian terreno, attraversò la grande galleria illuminata da sei finestre dove erano sistemati i suoi banchi; Tolomei, infatti, non era soltanto un banchiere ma importava e commerciava derrate rare di ogni tipo, dalle spezie e i cuoi di Cordova ai panni delle Fiandre, dai tappeti di Cipro tessuti in oro alle essenze d’Arabia.
Un nugolo di commessi si occupava dei clienti che affluivano ininterrottamente; i contabili facevano i loro calcoli servendosi di speciali scacchiere e di gettoni di rame che ammucchiavano nelle apposite caselle; e tutta la galleria risuonava del sordo ronzio del commercio.
Continuando a camminare rapidamente, il grosso senese salutava qualcuno, rettificava una cifra, richiamava all’ordine un impiegato o faceva rifiutare con un “niente” pronunciato fra i denti una richiesta di credito.
Roberto d’Artois era piegato su un banco di armi del Levante e stava soppesando un grosso pugnale preziosamente intarsiato.
Il gigante si voltò bruscamente non appena il banchiere gli ebbe posto una mano sul braccio e assunse la solita aria grossolana e gioviale.
«Allora, monsignore,» disse Tolomei «avete bisogno di me?»
«Be’,» rispose il gigante «avrei un paio di cose da chiedervi.»
«La prima, penso, sarà del denaro.»
«Ssst!» borbottò d’Artois. «C’è proprio bisogno che lo sappia tutta Parigi che vi devo una fortuna, usuraio dei miei stivali? Andiamo a discuterne nel vostro ufficio.»
Lasciarono dunque la galleria. Arrivato nella stanza al primo piano e chiusa la porta, Tolomei disse:
«Monsignore, se è per un nuovo prestito, temo sia impossibile.»
«Perché?»
«Caro monsignor Roberto,» replicò tranquillamente Tolomei «quando avete fatto causa a vostra zia Mahaut per l’eredità della contea d’Artois, sono stato io a pagarne le spese. E quel processo lo avete perduto.»
«Ma l’ho perduto per una soverchieria e voi lo sapete!» esclamò d’Artois. «L’ho perduto per gli intrighi di quella schifosa di Mahaut... Che possa crepare!... Un bel mercato, davvero! Le hanno dato l’Artois perché la Franca Contea, attraverso sua figlia, passasse alla corona. Ma se esistesse una giustizia, io sarei pari del regno e il più ricco barone di Francia. E, credetemi, Tolomei, un giorno lo sarò!»
Il suo enorme pugno si abbatté sulla tavola.
«Ve lo auguro,» disse Tolomei senza scomporsi «ma intanto avete perduto il processo.»
Aveva abbandonato i modi prelatizi e trattava d’Artois con ben maggiore familiarità che non l’arcivescovo.
«Se non altro, ho ottenuto la promessa della contea di Beaumont-le-Roger, con cinquemila lire di rendita, e il castello di Conches» rispose il gigante.
«D’accordo,» disse il banchiere «ma parte dei possedimenti non sono ancora vostri e non siete ancora riuscito a rimborsarmi. Anzi...»
«Non riesco a farmi versare le mie rendite. Il Tesoro mi deve parecchi anni d’arretrati...»
«Ma ne avete già avuti in prestito una buona parte. Vi serviva del denaro per riparare i tetti di Conches e le scuderie...»
«Erano bruciate» disse Roberto.
«D’accordo. Ma poi c’è voluto altro denaro per mantenere i vostri partigiani dell’Artois.»
«E cosa potrei fare senza di loro? È grazie ai miei fedeli compagni, a Fiennes, a Souastre, a Caumont e agli altri, che un giorno riuscirò a vincere, magari con le armi... E poi, dite un po’, messer banchiere...»
Il gigante cambiò tono, quasi fosse stufo di essere trattato come uno scolaretto. Afferrò il banchiere per il davanti della veste, con una mano sola, e cominciò lentamente a sollevarlo da terra.
«... Dite un po’... Voi avete pagato il processo, le scuderie, i partigiani e tutto quello che volete. D’accordo, ma grazie a me non avete anche compiuto qualche vantaggiosa operazioncina? Chi vi ha fatto sapere, sette anni fa, che i templari sarebbero stati presi in trappola come conigli e vi ha consigliato di chieder loro prestiti che mai avreste dovuto rimborsare? Chi vi ha preannunciato le svalutazioni della moneta, in modo da permettervi di investire in merci il vostro oro e di rivenderle al doppio? Eh, chi è stato?»
Spinello Tolomei aveva infatti i suoi informatori perfino nel consiglio del governo, secondo una tradizione alla quale l’alta finanza non è mai venuta meno; e il principale di questi informatori era proprio il conte Roberto d’Artois, amico e commensale di monsignor Carlo di Valois, fratello del re, che gli raccontava tutto.
Il banchiere si tirò indietro, si aggiustò le pieghe dell’abito, sorrise e, sempre tenendo l’occhio sinistro chiuso, disse:
«Lo ammetto, monsignore, lo ammetto. Qualche volta mi avete dato utilissime informazioni, ma purtroppo...»
«Purtroppo, cosa?»
«Purtroppo i benefici che mi avete permesso di ottenere non sono tali da coprire le somme che vi ho prestato.»
«Davvero?»
«Davvero, monsignore» rispose Tolomei con aria innocente e profondamente costernata.
Mentiva, ed era certo di poterlo fare impunemente perché Roberto d’Artois, espertissimo di intrighi, non lo era altrettanto di problemi finanziari.
«Aah!» disse il gigante deluso.
Si grattò la testa e scosse il mento da destra a sinistra.
«Eppure i templari... Dovreste essere contento stamattina» disse.
«Sì e no. Monsignore, sì e no. Da un pezzo non succedevano guai per il nostro commercio. E ora con chi se la prenderanno? Con noi, con i lombardi, come ci chiamano... Eppure il mestiere di commerciare oro non è facile. E senza di noi non si potrebbe far nulla... A proposito, il signor di Valois vi ha detto se altereranno ancora il valore della lira a Parigi? Circola questa voce, sapete?»
«No, non ne so nulla...» rispose d’Artois preoccupato solo di quanto aveva in mente. «Ma ora, Mahaut è nelle mie mani. E anche le figlie e la cugina. E le stritolerò... crack... così.»
L’odio gli induriva i lineamenti e lo rendeva quasi bello. Si era avvicinato ancora a Tolomei e costui intanto pensava: “Quest’uomo con la sua ossessione di vendetta è capace di tutto... Comunque, gli presterò altre cinquecento lire...”. Poi disse:
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il re di ferro
  3. Introduzione di George R.R. Martin
  4. IL RE DI FERRO
  5. PRINCIPALI PERSONAGGI DI QUESTO VOLUME
  6. Prologo
  7. Parte prima - LA MALEDIZIONE
  8. Parte seconda - LE PRINCIPESSE ADULTERE
  9. Parte terza - LA MANO DI DIO
  10. Note storiche
  11. Copyright