Michele Strogoff (Mondadori)
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Michele Strogoff (Mondadori)

  1. 440 pagine
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Michele Strogoff (Mondadori)

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La pericolosa missione del capitano Michele Strogoff attraverso le sconfinate distese della Siberia. Un celebre romanzo d'avventure il cui protagonista è entrato nel panteon degli eroi più amati, una delle storie più popolari di Verne (1828-1905) con uno scritto di Edmondo de Amicis.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852050251

PARTE PRIMA

I

Una festa al palazzo nuovo

Una festa al palazzo nuovo
«Sire, un altro telegramma.»
«Da dove?»
«Da Tomsk.»
«Più in là di Tomsk il filo è tagliato?»
«Da ieri.»
«Ogni ora, generale, fa’ spedire a Tomsk un telegramma. E che mi si tenga al corrente.»
«Sì, Vostra Maestà» rispose il generale Kissof.
Tali parole venivano scambiate alle due del mattino, mentre il ballo di corte al Palazzo Nuovo ferveva in tutta la sua magnificenza.
Durante quella serata le bande dei reggimenti Preobrajenski e Pavlovski1 non avevano cessato un istante di suonare le loro polche, le loro mazurche, i loro scottisch e i loro valzer, scelti nel miglior repertorio. Le coppie danzanti si moltiplicavano all’infinito dall’uno all’altro degli splendidi saloni di quel palazzo, costruito a pochi passi di distanza dalla “vecchia casa di pietra”,2 dove, nel passato, tanti drammi terribili si erano svolti, e gli echi della quale si ridestarono allora per ripetere gai motivi di quadriglie.
Il Gran maresciallo della Corte era ben secondato nell’esercizio delle sue delicate funzioni. I granduchi e i loro aiutanti di campo, i ciambellani di servizio, gli ufficiali di Palazzo, presiedevano in persona all’organizzazione delle danze. Le granduchesse coperte di diamanti, le dame di corte nei loro vestiti di gala, davano volonterosamente l’esempio alle mogli degli alti funzionari militari e civili dell’antica “città dalle bianche pietre”. Insomma quando echeggiò il segnale della Polonaise, quando gli invitati d’ogni rango presero parte a quella passeggiata cadenzata che nelle solennità di tal genere ha tutta l’importanza di una danza nazionale, il miscuglio dei lunghi vestiti ornati di trine e delle uniformi scintillanti di decorazioni offrì un colpo d’occhio indescrivibile, sotto la luce di cento lampadari decuplicata dal riflesso degli specchi.
Fu una visione abbagliante.
E il grande salone, il più bello tra quanti racchiude il Palazzo Nuovo, offriva a quel corteo di alti personaggi e di donne splendidamente ornate una cornice degna della sua magnificenza. La ricca volta, con le sue dorature già addolcite dalla patina del tempo, era si può dir costellata di punti luminosi. I broccati dei tendaggi e delle cortine mossi in pieghe superbe, si imporporavano di toni caldi violentemente interrotti agli angoli della pesante stoffa.
Attraverso le vaste vetrate a tutto sesto la luce che impregnava i saloni, smorzata da una leggera appannatura, si proiettava all’esterno come un riflesso di incendio e contrastava vivacemente con la notte avvolta per qualche ora intorno a un così sfavillante palazzo. Il contrasto attirava l’attenzione di quegli invitati che le danze lasciavano liberi. Quando restassero fermi nel vano delle finestre potevano scorgere alcuni campanili, confusamente sfumati nell’ombra, profilarsi qua e là nelle loro sagome enormi. Sotto i balconi scolpiti vedevano camminare in silenzio numerose sentinelle, il fucile tenuto orizzontalmente a spall’arm, l’elmo a punta come impennacchiato da un asprì di fiamma nel bagliore delle luci proiettate all’esterno. Udivano anche il passo delle pattuglie battere, ritmicamente, le lastre di pietra, forse più a tempo giusto che non i piedi dei ballerini sul parquet dei saloni. Di tanto in tanto il grido dei soldati si ripeteva da un posto di guardia all’altro; talvolta lo squillo di una tromba echeggiando tra gli accordi dell’orchestra lanciava le sue note lucenti frammezzo all’armonia generale.
Ancora più in basso davanti alla facciata, masse oscure si stagliavano sui grandi coni di luce proiettati dalle finestre del Palazzo Nuovo. Erano battelli che percorrevano il fiume là sotto alla terrazza, punteggiato dai vacillanti riflessi di qualche fanale.
Il personaggio principale del ballo, colui che offriva quella festa e al quale il generale Kissof aveva rivolto una qualifica riservata ai sovrani, indossava la semplice uniforme di ufficiale dei cacciatori della Guardia. Non si trattava, da parte sua, d’affettazione, ma dell’abitudine d’un uomo poco sensibile all’etichetta. La sua uniforme contrastava dunque con i superbi vestiari che la circondavano, ed era così che egli quasi sempre si mostrava fra la sua scorta di georgiani, di cosacchi, di baskiri, rutilanti squadroni splendidamente decorativi come è regola nel Caucaso.
Quel personaggio di alta statura, dall’aria affabile, la fisionomia calma ma la fronte pensierosa, si spostava dall’uno all’altro gruppo; tuttavia parlava poco, e sembrava non prestasse che una distratta attenzione sia ai discorsi gioiosi degli invitati più giovani sia alle parole misurate degli alti funzionari o membri del corpo diplomatico, rappresentanti intorno a lui dei principali Stati d’Europa. Due o tre di costoro – fisionomisti per professione – avevano ripetutamente creduto di notare sul suo volto qualche inquietudine; il motivo sfuggiva loro, non si sarebbero in ogni modo permessi di interrogarlo in proposito. Quell’ufficiale dei cacciatori della Guardia voleva d’altra parte impedire che le sue preoccupazioni turbassero la festa, e poiché egli era uno tra i pochi sovrani verso i quali ognuno, o quasi, nel loro cerchio, si è abituato a un’obbedienza persino dei sentimenti, i piaceri del ballo non ebbero la minima pausa.
Intanto il generale Kissof aspettava che l’ufficiale al quale aveva comunicato il dispaccio spedito da Tomsk gli ordinasse di ritirarsi; ma l’altro restava silenzioso. Aveva preso il telegramma, lo aveva letto, e la sua fronte si era ancor maggiormente oscurata. La sua mano involontariamente si portò sull’elsa della sciabola, e risalì poi ai suoi occhi coprendoli per un istante. Si sarebbe detto che lo splendore delle luci li ferisse e che egli cercasse l’oscurità per veder meglio se stesso.
«E così» riprese dopo aver condotto il generale Kissof nel vano di una finestra «da ieri siamo senza comunicazioni col granduca mio fratello?»
«Senza comunicazioni, Sire, e vi è da temere che presto i telegrammi non possano più superare la frontiera siberiana.»
«Ma le truppe dell’Amur e di Iakutsk, e così quelle della Transbaikalia, hanno ricevuto l’ordine di marciare immediatamente su Irkutsk?»
«Quest’ordine è stato dato. Con l’ultimo telegramma che abbiamo potuto far giungere al di là del lago Baikal.»
«Quanto ai governatorati dello Yeniseisk, di Omsk, di Semipalatinsk e di Tobolsk, siamo sempre in comunicazione diretta con loro dopo l’inizio dell’invasione?»
«Sì, Sire: i nostri dispacci giungono a destinazione, e per ora abbiamo la certezza che i tartari non debbano aver spinto la loro avanzata oltre l’Irtysc e l’Obi.»
«E del traditore Ivan Ogareff nessuna notizia?»
«Nessuna» rispose il generale Kissof. «Il direttore della polizia non è in grado di affermare se egli abbia varcato la frontiera oppure no.»
«Che i suoi dati segnaletici vengano immediatamente inviati a Nijni-Novgorod, a Perm, a Ekaterinburg, a Kassimov, a Tiumen, a Iscim, a Omsk, a Elamsk, a Kolyvan, a Tomsk: a tutti gli uffici con i quali il telegrafo ci collega ancora.»
«Gli ordini di Vostra Maestà saranno eseguiti immediatamente» rispose il generale Kissof.
«Su tutto ciò, silenzio!»
Dopo aver fatto un gesto di rispettosa adesione ed un profondo inchino, il generale si confuse tra la folla, lasciò presto il palazzo senza che il suo andarsene venisse rilevato.
Quanto all’ufficiale, restò pensieroso per alcuni momenti; e quando tornò tra i diversi gruppi di militari e di uomini politici che si erano formati qua e là nei saloni, il suo viso aveva ripreso tutta la calma che brevemente aveva perduto.
Ma i gravi fatti cui risaliva quel dialogo frettoloso erano meno ignorati di quanto egli e il suo interlocutore potevano credere. Non se ne parlava ufficialmente, neppure ufficiosamente, poiché le lingue non avevano “ricevuto l’ordine” di muoversi, ma alcuni alti personaggi erano stati più o meno esattamente informati degli avvenimenti in corso di là dalla frontiera. In ogni caso, di ciò che essi sapevano forse soltanto all’incirca, non discorrendone neppur tra membri del corpo diplomatico, due invitati che non portavano neppure uniformi né decorazioni conversavano a voce bassa, e pareva lo facessero in base a buone informazioni.
Come mai, per quali vie, grazie a quali relazioni quei due semplici mortali erano a conoscenza di cose che tanti altri personaggi, e dei più importanti, appena sospettavano? Impossibile dirlo. Era in loro un dono di prescienza o di preveggenza? Possedevano un senso in più, che permetteva loro di vedere oltre quell’orizzonte limitato al quale si ferma ogni sguardo umano? Disponevano di un fiuto particolare per le notizie più segrete? Grazie a un’abitudine diventata per essi una seconda natura, di vivere dell’informazione e per l’informazione, la loro natura originaria si era dunque trasformata? Molto avrebbe portato ad ammetterlo.
Di quei due uomini uno era inglese, l’altro francese: entrambi alti e magri, il secondo bruno come un meridionale di Provenza, il primo rossiccio come un gentleman del Lancashire. L’anglo-normanno, compassato, freddo, flemmatico, parco di gesti e di parole, sembrava dar loro via libera solo per lo scatto di qualche molla attiva a intervalli regolari. All’opposto il gallo-romano, vivace, petulante, si esprimeva al tempo stesso con le labbra, gli occhi, le mani come attraverso venti modi per comunicare il pensiero, mentre il suo interlocutore sembrava uno solo, immutabilmente stereotipato nel suo cervello.
Queste differenze avrebbero facilmente colpito l’uomo meno dotato di facoltà d’osservazione; ma un fisionomista, guardando un po’ da vicino quei due stranieri avrebbe nettamente identificato il contrasto fisiologico che li caratterizzava, dicendo che se il francese era “tutto occhi”, l’inglese era “tutto orecchie”.
In realtà, l’apparato ottico del primo era stato singolarmente perfezionato dall’uso. La sensibilità della sua retina doveva essere altrettanto istantanea di quella di certi prestigiatori, cui basta un rapido movimento di taglio del mazzo per identificare una carta. Quel francese possedeva, cioè, al massimo grado quella che viene chiamata “memoria dell’occhio”.
L’inglese...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione. di Lawrence Lynch
  4. Cronologia della vita e delle opere
  5. Bibliografia essenziale
  6. MICHELE STROGOFF
  7. PARTE PRIMA
  8. PARTE SECONDA
  9. Postfazione. di Edmondo De Amicis
  10. Copyright