I ragazzi di Via Po
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I ragazzi di Via Po

1950-1961 Quando e perché Torino ritornò capitale

  1. 320 pagine
  2. Italian
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I ragazzi di Via Po

1950-1961 Quando e perché Torino ritornò capitale

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Torino, anni Cinquanta: nella città della Fiat e del Pci, dell'Einaudi di Pavese, Calvino e Natalia Ginzburg, dei filosofi Abbagnano, Pareyson e Bobbio, cresce una straordinaria generazione destinata a distinguersi nella vita culturale italiana. Sono i "ragazzi di via Po": Umberto Eco, Furio Colombo, Gianni Vattimo, Claudio Magris, Edoardo Sanguineti. Si incontrano al collegio universitario e nelle aule di palazzo Campana, frequentano (non tutti) l'Azione cattolica e più tardi si ritroveranno (non tutti) negli studi della Rai. Condividono passioni musicali, letterarie, cinematografiche e talvolta anche femminili. In questo libro Cazzullo fa rivivere la storia della loro formazione in una Torino capitale delle idee, dell'industria, del design. Attraverso una ricca scelta di testimonianze, spesso inedite, e grazie ad approfondite ricerche storiche, Cazzullo offre uno spaccato della città che negli anni Cinquanta ha aperto il cammino dell'Italia verso la modernità e ne ricrea la staordinaria atmosfera.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852056338
Argomento
Historia
I

Il Professore e l’Avvocato

La Fiat da Valletta agli Agnelli
La città sembra costruita da un solo impresario con i denari di un solo capitalista.
HERMAN MELVILLE, Torino 1857
Il mattino del 19 dicembre 1945 non c’era il sole, ma nubi basse e un vento gelido, che dalle montagne dell’alta val Chisone soffiava su Villar Perosa e sul corteo funebre. In prima fila, dietro la bara, l’erede della dinastia, un ragazzo riccioluto di ventiquattro anni, Gianni Agnelli, tornato a casa da sei mesi, dopo aver risalito la penisola con le truppe alleate. Dietro di lui, i fratelli Giorgio e Umberto, le sorelle Clara, Susanna, Maria Sole e Cristiana, e i cugini Clara, Laura, Giovanni, Umberta ed Emanuele, figli di Carlo Nasi e Aniceta Agnelli, detta Tina, la zia di Gianni.
È il funerale di un uomo in disgrazia. Manca la vedova, la signora Clara Boselli, che il dolore non ha sottratto allo stato vegetativo in cui si trascina. Mancano i politici, vecchi e nuovi, i giornalisti, i notabili. Anche il giornale della famiglia e della città, «La Stampa», ribattezzata dai commissari che la amministrano «La Nuova Stampa», quasi ignora la morte del suo proprietario. Due giorni prima ha dedicato una pagina ai diari di Galeazzo Ciano, relegando l’altra notizia in un articoletto su due colonne: «In questi ultimi tempi egli era soltanto più l’ombra di se stesso. Il lottatore che sembrava temprato nell’acciaio era vinto ormai».1
A mezzogiorno la salma di Giovanni Agnelli, cofondatore e presidente della Fiat, l’uomo che Piero Gobetti aveva definito «eroe solitario del capitalismo italiano» e Benito Mussolini «primo senatore del fascismo», scende nella tomba di famiglia a fianco della figlia Tina, del figlio Edoardo e della nuora Virginia Bourbon del Monte, madre di Gianni, la principessa bellissima e sorridente morta tre settimane prima, a quarantacinque anni, schiantandosi sull’auto che la portava da Roma a Forte dei Marmi.
Per ordine del CLN piemontese, presieduto da Franco Antonicelli, al Senatore nei suoi ultimi giorni era vietato varcare i cancelli di Mirafiori. «Giovanni, andoma a vëdde la Fiat da lontan» diceva all’autista. In cima alla collina, dall’altra parte del Po, lo sentivano mormorare: «La Fiat a l’è roba nòstra». Invece i beni e gli stabilimenti della più grande azienda italiana erano sotto sequestro, e lui, il Senatore, epurato dal CLN (con quattro voti favorevoli e l’astensione del rappresentante liberale) come uomo dell’ancien régime fascista.
Il 4 maggio, mentre gli Alleati entravano in Torino e vi trovavano l’ordine dei partigiani, i tram in servizio, gli uffici pubblici aperti, i cadaveri dei cecchini gettati nel Po, Giovanni Agnelli annunciava all’assemblea generale dell’IFI, la finanziaria del gruppo, le dimissioni da presidente: «Nella catastrofe della civiltà umana» aveva detto sconsolato all’ultimo consiglio d’amministrazione «la situazione del nostro paese è quanto mai altra sciagurata e avvilente».2 Non sapeva che l’aspettava, la sera stessa, un’altra umiliazione: il carcere delle Nuove, dove avrebbe trascorso la notte, prima di essere rilasciato con tante scuse. Il mattino del 5 maggio tornava a piedi a casa, in via Giacosa, dove si era stabilita una brigata di Giustizia e Libertà della 3ª divisione delle Langhe, comandata da Alberto Bianco, per evitare che a qualche capo garibaldino dalle ansie rivoluzionarie e dal fucile pronto venissero idee pericolose. Nelle sale della villa dov’erano stati ospiti Galeazzo e Edda Ciano, grandi amici di Edoardo e Virginia Agnelli, ora passavano gli uomini di Edgardo Sogno Rata del Vallino, il conte che guidava la Franchi, la formazione delle missioni disperate, e che avrebbe fondato l’organizzazione anticomunista Pace e Libertà, finanziata dalla Fiat, e il giovane partigiano giellista Giorgio Bocca, che ancora ricorda «con rimpianto i grandi champagne della cantina, e con rammarico quel pomeriggio del 7 maggio in cui il colonnello inglese George Stevens venne a dirci di sloggiare e annunciò: “Il Senatore è sotto la protezione del comando alleato”».
Qualche anno dopo, quando gli operai comunisti saranno licenziati, la disciplina di fabbrica ripristinata, le gerarchie ristabilite, tutto questo apparirà grottesco. Ma il 10 agosto 1945 Giovanni Agnelli è costretto a inviare all’Alto commissariato per le sanzioni contro il fascismo il suo memoriale difensivo, in cui invoca i «meriti industriali», la familiarità con i protagonisti dell’Italia liberale – Giolitti, Einaudi, Albertini, Frassati –, il carattere strumentale della sua adesione al partito fascista nell’ottobre del ’32, l’appoggio assicurato a Badoglio, a Buozzi, agli Alleati, ai partigiani. Intervengono in sua difesa il colonnello Stevens, Enrico Martini Mauri, comandante delle formazioni partigiane autonome delle Langhe, Giovanni Battista Montini, sostituto segretario di stato in Vaticano. Il 16 dicembre il Senatore è informato in via confidenziale che il tribunale lo riabiliterà e gli restituirà i suoi beni, cioè la Fiat. La sera stessa Giovanni Agnelli, sofferente da due settimane per una frattura alla spalla, muore nella villa di via Giacosa.
Tre giorni dopo, mentre il corteo funebre si incammina verso il cimitero di Villar Perosa, l’Alto commissariato dichiara di «non trovare luogo a deliberare sulla richiesta di decadenza dalla carica di senatore di Giovanni Agnelli, in seguito alla morte dello stesso».3
La memoria del Senatore è integra. Ma cosa sarà della sua «roba», della Fiat? Il presidente è morto, il vicepresidente Gian Carlo Camerana, marito di Laura Nasi, una delle nipoti del Senatore, è epurato, l’erede designato è ancora un ragazzo, l’amministratore delegato è indicato dai suoi operai al CLN come «traditore della patria», «per essersi fatto complice dei nazifascisti promuovendo la serrata e fornendo le liste degli operai patrioti che sono stati arrestati e sono minacciati di deportazione nei campi della morte della Germania hitleriana».4
In realtà Vittorio Valletta ha giocato, come dice Bocca, «non il doppio, ma il triplo e quadruplo gioco», stretto nella morsa delle truppe d’occupazione tedesche, delle bombe alleate, degli operai irrequieti e dei drappelli partigiani. In due anni il piccolo professore dal portamento rigido, le labbra carnose, i denti sporgenti e il coraggio spregiudicato ha passato tre notti in arresto, ha trattato, corrotto, blandito, minacciato i capi delle SS e della Wehrmacht (uno dei quali, il generale Hans Leyers, diventerà consulente della Deutsche Fiat), ha salvato i suoi operai dalla deportazione in Germania, indicato agli Alleati gli stabilimenti da colpire per evitare che l’occupante li trasferisse al di là del Brennero, passato borse di denaro nottetempo ai gappisti (tra cui Luigi Cavallo, allora comunista, poi provocatore per conto degli industriali). Alla morte di Giovanni Agnelli, l’uomo destinato a succedergli è prigioniero in casa. La fabbrica viene amministrata da quattro commissari: Aurelio Peccei del Partito d’azione, Arnoldo Fogagnolo, direttore della Grandi Motori e vicino ai socialisti, Gaudenzio Bono, un moderato che sarà amministratore delegato, e Battista Santhià, un comunista già amico di Gramsci, che sarà licenziato. Ma i veri protagonisti, sia pure per pochi mesi, sembrano gli uomini in tuta blu.
Gli operai della Fiat, che con gli scioperi del marzo ’43 hanno guidato la sollevazione contro il fascismo e con quelli dell’estate ’44 hanno sostenuto la sfida con i nazisti, sono la punta di lancia della classe operaia italiana. Tra loro molti sono gli specializzati, «coj ch’a fan j barbis a le mosche», capaci di tagliare i baffi agli insetti: hanno un forte senso dell’identità, il mito del lavoro ben fatto, l’orgoglio dell’appartenenza a un ceto definito dall’origine familiare (i più sono figli e nipoti di operai), dal quartiere (borgo San Paolo, Mirafiori, Barriera di Milano), dalla militanza politica (molti sono iscritti alla FIOM-CGIL e al Partito comunista). Ora che Valletta è stato epurato si sentono i padroni. Non sanno che, nei giorni passati in semiclandestinità in una cascina del Monferrato e poi a Torino, in via Genovesi, nella mente del Professore sta maturando il piano di modernizzazione della Fiat che segnerà l’inizio della seconda rivoluzione industriale italiana e della motorizzazione di massa, trasformerà Torino in una città-fabbrica, stravolgendone l’urbanistica, la cultura e il modo di vita, e condannerà a morte quell’élite operaia.

Il «cit e gram»

La prima domenica di ottobre del 1901, gli allievi della scuola popolare festiva di Torino si alzano in piedi, in un moto di curiosità e di soggezione, al suo ingresso in aula. Ma si risiedono subito, sollevati e divertiti. Il nuovo insegnante non ha il physique du rôle di chi incute rispetto a prima vista. Loro sono operai e manovali grandi e grossi, lui un ragazzino di diciotto anni, piccolo e scuro. Ma impareranno presto a stimarne la serietà, la preparazione nelle sue materie – ragioneria e computisteria – e la fede assoluta nello studio e nel lavoro come strumento di elevazione sociale.
Il professorino si chiama Vittorio Valletta, si è appena diplomato all’istituto tecnico Germano Sommeiller, è iscritto all’università e fa pratica di contabilità aziendale in una cartiera della valle di Lanzo. Non è lì per caso a tenere (gratuitamente) i corsi festivi della Lega italiana di insegnamento, fondata dall’avvocato torinese Cesare Revel. Il giovane Valletta è di simpatie socialiste. Un socialismo subalpino, più vicino alla filantropia deamicisiana e all’ottimismo positivista dei «professori» di fine secolo che al progetto di trasformazione dello stato e della società che vent’anni dopo, sempre a Torino, concepirà Antonio Gramsci. Come scrive il suo biografo, Piero Bairati, quella di Valletta «non è una scelta ideologica argomentata, ma un’adesione diretta alla causa dei diseredati volenterosi, la speranza in una democrazia dei migliori, uno spontaneo moto di simpatia per i diseredati in cerca di emancipazione».5
Se non diseredato, in cerca di emancipazione è anche lui. Figlio di un tenente dell’esercito, Federico, palermitano spesso coinvolto in disastrosi duelli all’arma bianca, e di una maestra elementare, Teresita Quadrio, discendente di una famiglia valtellinese di nobili e patrioti, Vittorio è nato a Sampierdarena nel 1883, ma a sette anni è già a Torino, in un grande e misero edificio di San Salvario che i torinesi chiamano «il casone». Ha tentato con la politica, ma l’esordio non è stato incoraggiante: il podio del suo primo comizio, sulla piazza di Quattordio, in provincia di Alessandria, ha ceduto, trascinandolo nel crollo. Il primo a intuirne il talento e la tenacia è Vincenzo Gitti, suo insegnante di ragioneria all’istituto tecnico, l’uomo che aveva portato a Torino le nuove teorie sulla gestione aziendale della scuola veneziana. Gitti aiuta il suo allievo ad aprire uno studio di ragioneria in via Garibaldi, a pochi metri dal suo, lo introduce nei circoli giolittiani torinesi (e in quelli massonici) e gli presenta Giuseppe Broglia, direttore amministrativo di una delle imprese emerse dalla prima rivoluzione industriale italiana, la Fiat.
A Broglia e alla sua azienda il professor Valletta (che nel frattempo si è laureato e dirige la scuola media di Commercio) rende più di un servizio. Nel 1909, al processo per falso in bilancio contro Giovanni Agnelli e i vertici Fiat, redige una perizia che scagiona gli imputati e dimostra la correttezza dei bilanci. Quando un’azionista biellese si rivolge all’avvocato Bruno Villabruna per ottenere un risarcimento dalla Fiat, Valletta accetta di fare da perito d’accusa. «Ma al processo» confiderà Villabruna alla fine degli anni Sessanta a Diego Novelli «me lo ritrovai dalla parte della difesa. Valletta presentò una perizia che avvalorava la linea della Fiat, e Agnelli vinse la causa.»6
Nell’autunno del ’20, mentre gli operai occupano la fabbrica, Gramsci accarezza l’idea dell’insurrezione e Agnelli si dimette prima dalla presidenza dell’Associazione degli industriali metalmeccanici e poi dalla guida della Fiat, è Valletta ad arringare l’assemblea degli industriali e quella dei soci per chiedere il suo ritorno. Così, quando il Professore entra negli uffici del Lingotto, nel marzo del ’21, lo fa dalla porta principale: è direttore centrale, al posto dell’amico Giuseppe Broglia, che ha scelto la politica e i fasci di combattimento di Benito Mussolini. Di fatto, è già ai vertici.
«C’am ciama Valletta», mi chiami Valletta, ordina ogni mattina alla segretaria Giovanni Agnelli, dopo aver spento la pipa sul cancello d’ingresso (nel perimetro del Lingotto è vietato fumare). «Son si», eccomi, risponde lui, che parla il piemontese come un idioma straniero. A parte i registri linguistici, l’intesa tra il Senatore e il Professore è subito eccellente. Nelle lettere spedite per chiedere udienza al Duce, la direzione romana della Fiat specifica: «Il senatore Agnelli sarà accompagnato dal direttore generale, professor Vittorio Valletta». «Verrà costà con il Valletta» sintetizza da Torino il prefetto Ricci.7 Entrambi devono – senza entusiasmo – indossare la camicia nera per le visite del Duce, entrambi apprezzano nel fascismo le garanzie di ordine (e le commesse belliche) che può offrire: ma la linea monetarista e protezionista del regime ingabbia quel piano di espansione, basato sulla crescita dei consumi, del mercato interno e delle esportazioni, che Valletta ha già concepito, ma che dovrà rimandare a dopo la liberazione. Prima c’è da superare la lunga notte della guerra, dei bombardamenti degli Alleati e dell’occupazione nazista. Come dice il Professore, occorre «collaborare con l’inevitabile».
Nell’emergenza, la Fiat collauda quella supplenza dell’intervento pubblico che eserciterà nel dopoguerra. Agli spacci alimentari Fiat si distribuiscono centomila minestre al giorno, l’ufficio assistenza fornisce biancheria, vestiti, scarpe, legna da ardere e sacchi di foglie di granturco, che sostituiscono i materassi. Si allevano clandestinamente maiali e si ammassano viveri (le «patate Fiat»). Le colonie di Ulzio, Misano Adriatico e Marina di Massa ospitano i figli dei dipendenti che non possono sfollare. Eppure, quando i tedeschi fuggono e a Mirafiori entrano i partigiani, Giorgio Amendola annuncia nella grande sala mensa che Valletta è condannato a morte dal CLN.
In realtà il Comitato di liberazione nazionale ha emesso solo, il 23 marzo 1945, una sentenza di epurazione. Il Professore è barricato in ufficio. Lo proteggono gli uomini di Giustizia e Libertà e le fedelissime «tote», le signorine casa e ufficio che hanno sposato la Fiat. Arrivano gli Alleati. Ora Valletta è al sicuro, prima nella clinica Sanatrix sulla collina torinese, poi a casa. Il 4 maggio i partigiani comunisti vanno a cercarlo, lui ripara in prefettura, quindi sulle colline del Monferrato, e si appella al CLN contro l’epurazione. Lo interroga un magistrato antifascista appassionato di storia, Alessandro Galante Garrone.
Gli chiesi conto di tutto: la tessera fascista; la creazione della legione XVIII Novembre, che radunava gli operai votati al regime; l’assunzione come capo del servizio di sorveglianza di Roberto Navale, ex ufficiale del Servizio informazioni militari implicato nell’assassinio dei fratelli Rosselli; i rapporti con i nazisti. Lui era molto sicuro di sé, come chi sa che il vento della storia spira dalla propria parte. Aveva preparato un memoriale difensivo, diceva che la sua unica preoccupazione era stata di salvare la Fiat, e che non aveva mai negato aiuto ai partigiani. Eravamo in cinque, nel collegio che dovev...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ringraziamenti
  4. Introduzione
  5. I ragazzi di via Po
  6. I. Il Professore e l’Avvocato
  7. II. I cavalieri del tavolo ovale
  8. III. L’officina dell’arte
  9. IV. Torino la rossa
  10. V. L’abbazia di via Galliari
  11. VI. A scuola di TV
  12. VII. Storie di ragazzi
  13. VIII. Lo spirito del tempo
  14. Note
  15. Bibliografia
  16. Le opere di Aldo Cazzullo nelle edizioni Mondadori
  17. Copyright