Gli italiani in Africa Orientale - 1. Dall'Unità alla marcia su Roma
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Gli italiani in Africa Orientale - 1. Dall'Unità alla marcia su Roma

  1. 936 pagine
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Gli italiani in Africa Orientale - 1. Dall'Unità alla marcia su Roma

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Basandosi su una vastissima documentazione, Del Boca ricostruisce i diversi tentativi colonialistici italiani in Africa Orientale, dai primi anni dopo l'Unità fino all'avvento del fascismo. I protagonisti e le vicende di una tra le più infelici "avventure" della nostra storia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852054945
Argomento
History
Categoria
World History

GLI ITALIANI IN AFRICA ORIENTALE

Dall’Unità alla marcia su Roma

Avvertenza

Questa non è propriamente una storia militare delle imprese coloniali italiane in Africa Orientale. Non è neppure e soltanto una storia politico-diplomatica delle stesse. Queste due opere restano da fare e lo saranno quando le chiavi degli archivi di Stato potranno essere alla portata di tutti gli studiosi e non soltanto di pochi privilegiati. Questa, dunque, come suggerisce il titolo dell’opera, è piuttosto la storia del comportamento degli italiani in Africa Orientale, la storia di un popolo povero spinto da minoranze irresponsabili e da un insano concetto del prestigio nazionale ad aggredire e sottomettere popoli ancora più poveri. È quindi una storia scritta sui documenti accessibili ma anche e soprattutto scritta in base alle moltissime testimonianze dei protagonisti, italiani, etiopici e somali. Essa si propone di dimostrare, essenzialmente, che il colonialismo italiano dell’ultimo quarto dell’800 e dei primi due decenni del ’900 non è stato «diverso», cioè più umano, più illuminato, più tollerante, degli altri colonialismi europei coevi e del tardo colonialismo fascista. Intende anche provare che lo Stato liberale, che è l’artefice dell’espansionismo italiano in Africa, ha trasmesso senza ombra di dubbio alcune pericolose eredità al fascismo: una grande carica aggressiva, non frustrata neppure dalle sconfitte, la pratica del genocidio, il disprezzo per i popoli di colore, gli uomini per ritentare le imprese una prima volta fallite.
Angelo Del Boca
Milano, aprile 1975
Parte prima

IL COLONIALISMO DELLE ORIGINI

I

Origini del colonialismo italiano

I «precursori».

«L’Africa ci attira invincibilmente. È una predestinazione. Ci sta sugli occhi da tanti secoli questo libro suggellato, questo orizzonte misterioso che ci chiude lo spazio che ci rende semibarbaro il Mediterraneo, che costringe l’Italia a trovarsi sugli ultimi confini del mondo civile... L’Africa, sempre l’Africa!... L’abbiamo proprio sugli occhi e fin qui ne siamo esiliati».1 Quando il Correnti lancia nella primavera del 1875 questa ben nota e romantica invocazione, per la verità l’Italia si disinteressa dell’Africa, nonostante l’acquisto di Assab e certe mire sulla vicina Tunisia, sede di una importante comunità italiana. Dai giorni dell’unità nazionale i governi della Destra sono totalmente assorbiti da problemi ben più gravi ed urgenti, come la organizzazione dello Stato unitario, il brigantaggio e l’arretratezza nel Mezzogiorno, l’insicurezza dei confini orientali, le ricorrenti crisi economiche, la questione romana, l’isolamento diplomatico. L’Africa non interessa i politici e ancora di meno le masse contadine ed operaie, ancora escluse dal voto e incerte dinanzi ai messaggi mazziniani, anarchici e socialisti. L’Africa non interessa neppure la borghesia industriale, terriera e professionale, ancora volta a consolidare o ad estendere il proprio potere. In realtà l’Africa interessa soltanto una ristretta cerchia di studiosi e di viaggiatori, di sognatori e di scontenti della politica «rinunciataria» delle «mani nette», di armatori che mirano alle sovvenzioni statali e di speculatori, di missionari cattolici che contendono ai protestanti o all’Islam le ultime riserve di anime disponibili, e di avventurieri attratti dal miraggio di grandi e facili ricchezze. Una compagine estremamente eterogenea di personaggi, ai quali con molta disinvoltura verrà data la qualifica — specie dagli storici dell’epoca fascista — di «nostri precursori coloniali». Una galleria di personaggi tutti indistintamente glorificati, senza la minima istruttoria, il minimo esame dei moventi, dei risultati, ma col solo fine di dare alla filosofia dell’espansionismo italiano le origini più antiche e le fondamenta più solide.2 Una galleria di nobili antenati per un colonialismo che non sfuggirà ugualmente alla definizione di «straccione».
Gran parte della storiografia coloniale nostrana, dopo di aver fatto rilevare che l’interesse degli italiani è stato principalmente rivolto all’Africa Settentrionale ed Orientale e che le vie di penetrazione sono state essenzialmente tre — lungo la valle del Nilo, dai porti del Mar Rosso verso l’Etiopia, e da Berbera verso l’Harrarino, l’Ogaden e le regioni somale —, annovera fra i «precursori» egittologi come il Belzoni, il Forni, il Drovetti, il Segato, il Rossellini che fra il 1815 e il 1850 compiono ricerche in Egitto e Nubia, tra l’altro non tutti sorretti da spirito o competenza scientifica. Annovera missionari, come Angelo Vico, Emanuele Pedemonte, Giovanni Beltrame, Daniele Comboni, che visitano le più inospitali regioni del Sudan, ma per motivi squisitamente professionali. Elenca viaggiatori come il De Bono (maltese oltretutto), il Terranova, l’Antognoli, l’Evangelisti, che nel Sudan si occupano più di caccia o di incettare avorio che della «resurrezione civile» delle popolazioni indigene o di illustrare con nobili azioni il nome del loro paese. Ciò che si può sostenere, tutt’al più, è che gli scritti di taluni fra questi viaggiatori possano aver destato un certo interesse per queste contrade africane ancora contrassegnate dal rituale hic sunt leones. Più curiosità che interesse, e solo per quella infima minoranza che può, per istruzione e mezzi, accedere ai libri ed ai giornali.3
Anche l’azione di promozione coloniale esercitata dalla seconda ondata di «precursori», composta principalmente da missionari che agiscono nell’area che più riguarda il nostro studio, lascia, come si vedrà, spesso perplessi e dubbiosi.

L’attività dei missionari all’epoca dei prìncipi e di Teodoro.

Intorno al 1830 la Propaganda Fide, che non ha mai perso di vista l’antica Chiesa copta abissina, decide di inviare un missionario in Etiopia, in ciò sollecitata dai successi (anche se modesti) riscossi in quella terra dai predicatori protestanti della Church Missionary Society di Londra e dalla circostanza, abbastanza favorevole, che la massima carica della Chiesa abissina è vacante da qualche anno. L’incaricato di questa difficile missione, padre Agostino, cade però ammalato al Cairo e solo nel 1838 un altro missionario, il lazzarista ligure Giuseppe Sapeto, può mettere piede in Etiopia, in compagnia degli esploratori francesi Antoine e Arnaud d’Abbadie, che faranno i primi rilievi geodetici del paese.
Vinte in breve tempo le diffidenze delle popolazioni ed entrato nelle grazie del capo del Tigrè, ras Ubié, Sapeto dà conferma a Roma che il momento per iniziare l’apostolato in Etiopia è particolarmente favorevole, ciò che spinge la Congregazione ad inviare nel 1839 ad Adua due altri lazzaristi, Giustino De Jacobis e Luigi Montuori, i quali non soltanto scoprono che possono predicare liberamente ma, profittando della benevolenza che ras Ubié dimostra per essi, giungono a sottoporgli i vantaggi che il paese trarrebbe dal chiedere un vescovo cattolico a Roma anziché, come per il passato, un abuna «eretico» ad Alessandria d’Egitto.4 Poco prima che il prefetto apostolico De Jacobis facesse ad Ubié queste incredibili e irritanti proposte, era giunta nel Tigrè una missione francese composta dall’ufficiale di marina Théophile Lefebvre, dal botanico Quartin-Dillon e dallo zoologo Petit. La missione, all’apparenza esclusivamente scientifica, celava invece anche il proposito di concludere un accordo fra ras Ubié e la Francia di Luigi Filippo. Accordo che viene rapidamente concluso grazie alla collaborazione tecnica (conoscenza della lingua e degli usi) ed ai suggerimenti del lazzarista Sapeto. In virtù del trattato, Ubié cede alla Francia la baia di Anfilè e parte del litorale, assicura protezione ai missionari cattolici e si impegna a convogliare tutto il commercio del Tigrè verso il nuovo possedimento francese; in cambio ottiene dal re di Francia che garantisca l’indipendenza del Tigrè, minacciata dall’Egitto e dai prìncipi che reggono le sorti degli altri Stati etiopici.
Il trattato non viene poi ratificato da Parigi per il semplice motivo che su Anfilè, nonostante le pretese di Ubié, accampa diritti anche l’Egitto, che già occupa buona parte del litorale eritreo. Anche due altri progetti di accordo con la Francia falliscono, per lo stesso motivo, nel 1845 e nel 1849. Ma ciò che ci preme mettere in risalto è che i due primi tentativi sono ispirati dai lazzaristi italiani, il primo dal Sapeto, il quale, divenuto intimo del degiac Ubié, cerca di convincerlo ad armarsi, ad estendere i suoi domini ed a mirare, col sostegno della Francia, allo stesso trono imperiale, tenuto solo nominalmente dall’inetto negus Giovanni III, in quanto virtuale prigioniero del suo «protettore» Alì Mariè II, ras dell’Amhara e principale rivale di Ubié. Come acutamente dirà più tardi il Massaja, il Sapeto «si portò in Abissinia con doppio scopo, cioè religioso e scientifico [...] entrò in Abissinia sotto sembianze di viaggiatore, ed in verità si occupò più di ricerche naturali che di ministero sacerdotale».5 All’apostolato antepone quasi sempre altre attività provocate da una curiosità inesauribile. Prima che missionario è geografo, etnologo, glottologo, gran saccheggiatore, nei conventi copti, di antichi messali, salterii, senkessar (vite di santi), synodos (costituzioni canoniche), arganon (laudi). Spaventato da questa attività, che pone in ombra quella missionaria, il vicario De Jacobis è costretto a scrivergli: «Mio caro don Giuseppe, io la voglio cattolico. Così cieco non l’ho sempre conosciuta».6
La curiosità per la natura e la geografia, le lingue e gli incunaboli, l’archeologia e le tradizioni etiopiche porta inevitabilmente il Sapeto ad occuparsi anche di politica, a partecipare alle manovre delle nazioni colonialiste, a prestarsi all’occasione come diplomatico avventizio, per l’una o per l’altra parte. Il momento è particolarmente favorevole ad ogni manovra ed intrigo. Allorché il Sapeto si accinge ad indicare ad Ubié le vie più spregiudicate per salire al trono imperiale sta ormai per concludersi la Zamana Masafint, o èra dei prìncipi, iniziata nel 1750 e caratterizzata dall’assenza di un potere centrale e dalle continue lotte fra i prìncipi che governano le principali regioni (Tigrè, Amhara, Scioa, Goggiam), fra i prìncipi e i loro vassalli, fra i prìncipi e le monarchie galla del sud-est. Mentre il Sapeto entra sulla scena abissina mancano solo quindici anni al tentativo unitario, parzialmente riuscito, di Teodoro II. Quindici anni durante i quali il Paese è di continuo percorso da eserciti che si scontrano, razziano, distruggono regioni con l’implacabilità delle cavallette. Sulla scena, già così sconvolta, fanno la loro riapparizione inquietante gli emissari di due paesi, Francia e Gran Bretagna, già in rapporti con l’Etiopia dall’inizio del secolo. E mentre i francesi, grazie ai missionari ed ai poliedrici viaggiatori, affermano la loro influenza nel Tigrè, gli inglesi, soprattutto per merito di Walter Chrichele Plowden, guadagnano il favore di ras Alì, signore dell’Amhara.7
Agli irrequieti prìncipi si affianca, dal 1841, il nuovo e giovanissimo abuna Salama, giunto dal Cairo con scarse conoscenze religiose ma ambiziosissimo e consapevole dell’importanza del proprio ruolo sulla tormentata scena etiopica. Educato per qualche tempo da pastori protestanti a Malta e al Cairo, scelto come abuna pare anche per le pressioni degli inglesi, Salama complica il già intricato gioco dei prìncipi scomunicandoli ad uno ad uno: ras Alì per le sue tendenze islamiche, il degiac Ubié per la protezione che accorda ai missionari cattolici, Sahle Selassie, negus dello Scioa, perché sostenitore della teoria del Sost Lidet, delle tre nascite del Cristo.8 I prìncipi si vendicano imprigionandolo, confiscandogli i beni, abbandonandolo alle violenze della soldataglia, ma Salama sfoder...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gli italiani in Africa Orientale - 1. Dall’Unità alla marcia su Roma
  4. Avvertenza
  5. Parte prima. Il colonialismo delle origini
  6. Parte seconda. Gli anni delle conquiste
  7. Parte terza. La disfatta di Adua
  8. Copyright