Fragile come un maschio
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Fragile come un maschio

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  1. 224 pagine
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Fragile come un maschio

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I maschi non sono come le donne li vorrebbero. I maschi sono - anche e soprattutto - fragili. Ma hanno una possibilità: accettare, indagare e riconoscere la loro fragilità, per capirla e per cambiare. Sarebbe il primo passo verso una straordinaria rivoluzione sociale. Nel cuore dei maschi, infatti, quella rinnegata fragilità - quel "vizio d'origine" che li vuole figli del fango, primi nella mente di Dio, per far nascere poi la donna da una loro costola (da un osso, invero, perciò è così resistente!) - s'è trasformata nel tempo in invidia, senso di inadeguatezza, bisogno di sottomettere e di ferire. Accettare la propria fragilità può diventare, finalmente, una liberazione. Può consentire ai maschi di rinunciare alla sfida, alla perenne misurazione dei corpi, all'invidia del grembo - grotta-d'amore o Paradiso terrestre, dal quale sono nati al mondo maschi, e per questo per sempre 'derubati' della possibilità di ricreare in sé quell'eden originario. In questo nuovo libro, insieme coinvolgente e sconcertante, che fa seguito al successo dell'"Amore dannoso", la psicoterapeuta e scrittrice Maria Rita Parsi esplora 'amorosamente' la condizione maschile attraverso ventitré storie di ragazzi che "si fanno uomini".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852053016

Prima parte

I FIGLI DELLE DEE

Quattro storie emblematiche
di fragilità maschile

Storia di Igor

«Baciare un uomo»

Igor ha diciassette anni. Vive fuori casa da quando ne aveva quindici. Sta da una zia, sorella della madre, alla quale è morto un figlio della stessa età. La zia tollera ogni atteggiamento ribelle del ragazzo: il corpo pieno di tatuaggi, i piercing che gli trapassano il naso, l’arcata sopraccigliare, l’ombelico, la lingua; i capelli rasati a zero che finiscono in un lungo codino annodato con un elastico di strass; gli abiti stracciati e sporchi; l’igiene inesistente, le uscite notturne, le troppe birre, le canne, le rabbie incontenibili, la distruttività e la pericolosità di molte sue azioni. La zia ama Igor di un amore caritatevole, rassegnato, paziente. Igor è il «sostituto del figlio morto» che, per restare con lei, le procura molti dolori, molte paure, molte ansie. Ma è vivo!
Se la zia non ci fosse, del resto, nessuno si prenderebbe veramente cura di Igor. La madre, infatti, ha abdicato al suo ruolo. Quel figlio non le calza. È un esperimento mal riuscito frutto di un esperimento amoroso mal riuscito. Igor non ha padre. È un ragazzo senza legge, che non ha potuto interiorizzare nessuna legge. Le regole che accetta sono quelle partorite dal limite, spesso estremo, delle sue quotidiane esperienze. Igor, per crescere se stesso, si misura col mondo come un barbaro, come un primitivo. Igor, guerriero metropolitano, vuole ottenere tutto e subito. Non ha tempo davanti a sé. Predilige l’emergenza perché può scaricare tutta la sua rabbia, la sua paura, la sua ansia; tutto il suo bisogno di sciogliere nell’immediato i problemi, le difficoltà, i dubbi, le scelte che gli si presentano.
Le sue armi di barbaro sono, però, quelle della più avanzata tecnologia: Internet, telefonini, computer, videogiochi. Sono «bacchette magiche» con le quali Igor cerca di addomesticare il quotidiano e gli altri alle sue soluzioni di vita. Il suo soprannome è Drago che usa come nickname quando «chatta». Nel territorio virtuale Igor cerca contatti. Naviga per incontrare «qualcuno»: un tiranno, un despota, un delinquente che gli somigli. O un santo, un poeta, un ragazzo come lui: se stesso o suo padre. «Un maschio da baciare» per diventare, insieme, due ranocchi o due principi.
Per Igor, spacciare fumo è un espediente che rimpingua il fondo-cassa alimentato dalla zia. Per Igor spinellarsi, bere birra fino a stordirsi, fino a dimenticare il tempo, vomitare l’anima, pisciare sui muri bestemmiando alla luna e, poi, prendere la moto e andare al mare, soprattutto d’inverno, per stare davanti a quell’oscuro movimento d’acqua, in silenzio, fino all’alba, nel freddo, è un atto di liberatoria pienezza. Gli sembra di poter rientrare nel grembo della vita, nell’estasi oceanica dell’inizio, e di trovare, finalmente, pace in lei, come un tempo, forse come prima di nascere.
A volte Igor fa anche il bagno in mare, nonostante la temperatura e la solitudine. Un battesimo notturno del quale ha bisogno; un rito di beneaugurante iniziazione per poi tornare a combattere. Per Igor vivere non ha domani. È solamente uscire di casa ogni giorno, verso l’avventura del giorno e dell’intera notte.
Igor non perdona a sua madre l’incapacità di contenerlo che ha sempre dimostrato. Non le perdona di non aver saputo trattenere un uomo accanto a sé. E, soprattutto, non le perdona il dubbio che lei, con il suo comportamento, gli ha insinuato nella mente e nell’anima: di essere lui «sbagliato», di essere nato non atteso né cercato né ben voluto, e che il suo non esistere sarebbe stato, per lei, garanzia di una vita migliore.
Perciò Igor non avvicina le ragazze. Prova, nei loro confronti, un’irrefrenabile ostilità. Le sente aggressive, dominanti, indifferenti. Anche quelle che, nel gruppo, si vestono e si atteggiano come lui; anche quelle che si comportano in modo così poco femminile da essere una caricatura colorata, borchiata, tatuata, dei maschi. Sono, comunque, femmine e, perciò, incapaci di accoglierlo, di prestargli una vera attenzione.
Igor non si è mai innamorato né ha mai provato, nei confronti delle ragazze, un sentimento simile all’amicizia. Anzi, quando qualcuna si è innamorata di lui, l’ha trattata malissimo. A volte in modo perfino crudele, affinché si allontanasse. Subito.
Accetta, invece, le donne mature, sfatte dal tempo, con l’aria servizievole. Le ricordano la zia e la tata che aveva da piccolissimo, quando la madre lo lasciava a un’anziana vicina di casa per andare al lavoro. Le ricordano la signora, una psicologa del consultorio, dalla quale la madre lo aveva portato per un po’. Il tempo che lui si affezionasse alla signora e che la madre gliela sottraesse.
Igor si sente «perseguitato» da sua madre ed è convinto che lei stia al mondo per rovinare quello che gli piace o che inizia ad amare o che lo soddisfa. Lei è convinta che Igor faccia lo stesso con lei. Non c’è persona che lui frequenti che piaccia a lei e non c’è amica o amico della madre che vada a genio a lui.
Igor ha un amico prediletto, Vanni, che chiama fratello, e una banda di compagni per i quali è disposto a correre qualunque rischio. E loro per lui. Igor non ha voluto studiare (nonostante sia molto intelligente). Così, dopo le medie, ha accettato di fare soltanto un corso di computer. Per lui, quello non è studiare. È il più coinvolgente dei giochi! Le lingue, per le quali è molto portato, le ha imparate bazzicando gli extracomunitari. Parla discretamente il francese, l’inglese, lo spagnolo. E se la cava anche col cinese, il rumeno, l’albanese. Il suo più grande desiderio è viaggiare. E aspetta di compiere diciotto anni per iniziare quel giro del mondo che lo porterà lontano, senza che nessuno, nessuna legge sui minori!, possa impedirglielo. Se durante quel viaggio si presenterà l’occasione, Igor pensa che ben volentieri accetterà di fare il soldato di ventura, il legionario, il paracadutista o il guerrigliero. Ha tante magliette con Che Guevara stampato sopra! Non farebbe mai però il militare di leva, in patria.

Monologo di Igor

Mia madre mi portò dalla psicologa che avevo sei anni. Diceva che ero una peste, ingovernabile, e qualcuno le consigliò di andare al consultorio per farmi dare una cura. Magari un calmante. Invece, quella signora che ricordo sempre perché aveva uno sguardo dolcissimo, si mise a giocare con me come una ragazzina. C’era un grosso burattino, un drago, in fondo alla stanza, e io, che correvo su e giù, lo individuai subito, lo afferrai e volevo giocarci. Mia madre corse a strapparmelo di mano perché non avevo chiesto il permesso. Ci mancò poco che non mi allentasse, anche lì, il solito ceffone. La signora, con gentilezza, intervenne. Mi lasciò tenere il drago e si mise a giocare con me. Prese un burattino principessa e giocammo. Io ero il drago e volevo divorare la principessa. Lei fuggiva e intanto mi domandava: «Perché mi vuoi mangiare?».
«Perché sei cattiva, cattivissima» rispondevo io.
E provavo un piacere immenso, la soddisfazione di una giustizia fatta o che stava per compiersi. Il drago aveva ragione! Quella principessa meritava d’essere divorata! Ma la signora continuava a giocare e a domandare e io a rispondere, sino a quando non mi stancai. Il drago mi scivolò dalla mano destra e con la sinistra afferrai la principessa e mi misi a guardarla, da vicino. Dovevano averci giocato in tanti perché era mezza rotta e con la vernice scrostata sulla testa tradiva la presenza del legno sottostante. Mi fece pena. Allora la diedi a mia madre, dicendo: «Guarda, poverina! È tutta rotta!».
Mia madre fu sorpresa che io le affidassi la principessa, che qualche istante prima volevo divorare, affinché se ne prendesse cura. Ma non fece niente. L’accolse sulle ginocchia e la lasciò lì. Allora la signora le disse con aria complice: «Perché non aiuta la principessa a stare meglio?».
Ma mia madre non capiva, proprio non capiva. Rise (perché fa sempre così quando non capisce!) e disse: «Burattinate!».
Dentro mi montò una rabbia, ma una rabbia che riesco ancora a sentire, se ci penso! Sapevo benissimo che mia madre non avrebbe curato la principessa! Non gliene importava niente di giocare con me. Allora, ricominciai a correre per lo studio e a buttare a terra tutto quello che mi capitava a tiro. Allora lei si alzò e, per fermarmi, mi diede quel ceffone che aveva sempre pronto, sulla punta delle dita, per arginarmi. Scoppiai a piangere. La signora intervenne ancora. Mi prese per mano e mi portò dall’altro lato della stanza dove c’erano una lavagna, colori, gessetti e tanti fogli. Iniziai a disegnare utilizzando il nero, il viola, il blu. Mia madre, allora, raccontò alla signora che io disegnavo sempre. «Ma non case, alberi, navi, aeroplani, come fanno di solito gli altri bambini» disse. «Disegna soltanto fantasmi, mostri e, soprattutto, ragni!»
Io, che avevo appena iniziato a scarabocchiare, presi le parole di mia madre come un suggerimento. E disegnai un ragno gigantesco, mezzo nero e mezzo viola. La signora lo apprezzò molto e poi mi chiese che cosa ne volessi fare. Risposi: «Voglio darlo da mangiare al drago!».
E così fu. Il drago fece a pezzi il foglio sul quale avevo disegnato il ragno. La signora teneva fra le mani il ragno e io, col drago, addentavo il foglio. La cosa mi piacque tanto che continuai a disegnare ragni e a farli addentare e stracciare dal drago per molte volte. Alla fine, ero molto tranquillo. Mia madre si stupì nel vedermi così calmo, anche perché quella calma si protrasse per alcuni giorni. Ogni sera, quando tornava dal lavoro, io volevo fare con lei il gioco del drago e dei ragni. Per questo motivo, ne disegnavo parecchi nel pomeriggio e, poi, con ansia, aspettavo che lei tornasse a casa. Per un po’, lei giocò con me come aveva visto fare alla signora. Poi si stancò e si rifiutò di continuare il gioco. Io, allora, divenni nuovamente intrattabile e lei mi riportò al consultorio dove potevo ripetere, con la signora, quello e altri giochi che mi facevano sentire meglio, più tranquillo, pacificato.
Quando mi stavo abituando a quel modo di giocare, mia madre cambiò lavoro e non trovò più il tempo di accompagnarmi al consultorio. Penso, però, che fosse anche gelosa dell’attaccamento che io dimostravo verso la signora. Ma non si sforzò mai di essere disponibile come lei. Anzi, mi sgridava, mi insultava, cercava di dominarmi con le urla, i ceffoni, le minacce. O mi faceva dei regali. Con lei non ci sono vie di mezzo. O urla o ti compra! Ma anche quando cercava di conquistarmi con i regali, la sua disponibilità durava poco. Se non mi comportavo bene (e io non mi comportavo bene quasi mai!), li voleva indietro. Una volta, avevo undici anni, per punirmi, mise in una valigia i regali più belli che mi aveva fatto da quando ero bambino e li fece sparire per una settimana. Era la cosa più crudele che potesse farmi. Ma lei non lo capiva! Anzi, quando mi vide piangere, si arrabbiò: «Fai la vittima!» mi gridò. «E poi sei un maschio e ti dovresti vergognare di piangere davanti a me!»
Da quel giorno, non ho più pianto. Mai più davanti a lei! E quando ha rimesso i regali a posto, in camera mia, non li ho più voluti toccare. Avevano perso il loro odore. E io li avevo persi dentro di me. Scrissi un biglietto a mia madre per dirle che adesso quei regali se li poteva tenere e farci quello che voleva. Lei, la domenica, li portò in parrocchia e li regalò ai poveri. Non avrei mai creduto che potesse farlo! Mi sembrò una provocazione, peggio di un insulto. Come se, insieme ai regali, si fosse voluta liberare anche di me. Io, allora, andai per la prima volta a casa di zia Nora. Era ancora vivo Aldo, mio cugino. Lo zio Claudio, tutte le sere, quando tornava dal lavoro, giocava a carte con me e con lui. Mi sembrava di aver trovato una vera famiglia. Volevo restare lì. Ma mia madre, dopo quindici giorni, mi obbligò a tornare a casa. Quando venne a riprendermi, in verità mi fece un po’ pena. Per la prima volta, la vidi confusa, stanca, più addolorata che arrabbiata. Invece di aggredirmi, mi abbracciò. Forse glielo aveva consigliato zia Nora, ma a me fece effetto. E tornai a casa. Però, il fine settimana lo passavo dagli zii. Mi staccavo un po’ per volta da lei, anche per lasciare spazio ai suoi fine settimana, alle sue storie sentimentali. Non volevo vederla «sconfitta». Non sopporto la sconfitta di mia madre perché è come se fossi io ad averla sconfitta. A volte penso che il mio rapporto con le ragazze è così difficile perché ho sempre paura di deluderle. Non è vero, come dice mia madre, che sono «freddo». È vero, invece, che se provo un’emozione per qualche ragazza la blocco subito. E poi sono convinto che mia madre troverebbe la mia scelta sbagliata. Mia madre non lega con le donne, non troverebbe accettabile, per me, nessuna ragazza.
Così, le sole ragazze che frequento le incontro su Internet. Con loro parlo benissimo e mi presento come uno più grande. Mi piace, e poi mi esercito a prendere confidenza con l’altro sesso. Anche se, poi, finisco sempre per chattare con gli uomini! Ce ne sono tanti che cercano avventure con ragazzi. Quelli, però, li evito. Sono certamente dei vecchi porci! Ma ci sono anche tanti ragazzi come me. Ragazzi che ho conosciuto in chat e poi ho incontrato fuori. Hanno problemi simili ai miei e a volte peggiori. Qualcuno è gay, qualcuno è brutto e complessato; qualcuno non sa se ha voglia di vivere o di morire. Tanti sono allegri e tanti sono arrabbiati e, come me, amano la musica. È un popolo che mi piace e al quale piace la notte. Io sento di appartenere a quel popolo. Però, a volte, mi prende la nostalgia. La nostalgia di come sarei potuto essere se la mia famiglia fosse stata una famiglia «normale». Se avessi avuto un padre, dei fratelli. E se mio cugino Aldo fosse ancora vivo, se non mi avesse tradito, anche lui, andandosene così. Da quando è morto, c’è un sogno che faccio molto spesso ed è quello di trovarmi in un bosco molto folto e verde. C’è un castello e, intorno al castello, un fossato pieno d’acqua. Io so che in quel castello abita qualcuno che voglio, anzi che debbo incontrare. Allora attraverso a nuoto il fossato anche se ho paura che, nell’acqua, ci possano essere pesci pericolosi, squali, coccodrilli, piranha. Invece non succede proprio niente e io arrivo sotto le mura del castello e comincio a scalarlo a mani nude. Finalmente raggiungo una finestra aperta ed entro. Il castello è vuoto e pervaso di ragnatele. Cerco la stanza più grande, quella del trono. Finalmente la trovo. Il trono non c’è ma, al centro del salone, c’è un ragazzo come me (un ragazzo che somiglia ad Aldo!). Sembra essere lì in attesa del mio arrivo. Mi avvicino e lo tocco. Sento che quella è la persona che debbo incontrare. Allora lo bacio sulla bocca. E lui si trasforma in un uomo che mi abbraccia.

«Lettera a me stesso»

A me stesso non ho proprio niente da dire. Io so di me quello che c’è da sapere. Quando fumo, poi, è tutto chiaro nella mia testa e mi calmo. Io so benissimo anche quello che devo fare. Devo avere pazienza per un anno. Diventare maggiorenne e allora nessuno avrà più diritti su di me. E poi finalmente andarmene via. Voglio vivere liberamente: liberarmi di mia madre e liberare lei. Voglio fare «tana libera tutti»!
Prima di partire, però, voglio sapere chi è mio padre, andare a trovarlo e dirgli che è un bastardo, che lo è veramente! Mi ha fatto crescere senza un padre da conoscere, da imitare, da amare. Ha lasciato che mia madre facesse una parte che non le spetta. Ha pisciato una vita e poi se n’è fregato. Tanti uomini fanno così! Pisciano una vita in corpo alle donne e poi le lasciano sole con il bambino. A me stesso dico che mai farò una cosa simile a una donna. Anche a rischio di non averne mai una!
Quando penso che un giorno potrei diventare padre, non riesco neppure a immaginarmi. Ecco perché non ho l’idea del futuro dentro di me. Perché non riesco a immaginarmi padre. Eppure desidero crescere, diventare grande! Lo desidero, ma so che a me stesso dovrò provvedere io senza chiedere aiuto a nessuno! A me stesso allora dico che sono come un cowboy all alone, tutto solo alla conquista di una nuova frontiera. E non voglio il peso della sconfitta di nessuno sulle spalle!

Lettera di Elena, madre di Igor, a suo figlio

Natale 199...
Caro Igor,
non mi è proprio piaciuto il tuo «scherzo di Natale», come lo chiami tu! Non si regala alla propria madre, e soprattutto il giorno di Natale, un pacco di schifosi ragni di plastica scrivendo sul biglietto: «Il ragno più bello sei tu». No, non sono io il ragno! Il ragno sei tu e hai fatto diventare la mia vita una ragnatela. Mi sento una mosca presa in trappola e non riesco a capire perché! Cosa ti ho fatto? Cosa ti manca? Perché ti comporti così? Perché non mi rispetti? I figli devono dire grazie alle madri per il dono della vita. Io ti ho cresciuto da sola. Tuo padre non ti voleva perché non voleva me. Abbiamo fatto a meno di lui. E ora tu mi rimproveri per non averti dato un padre! Anch’io, credi, avrei bisogno di un marito, di un padre che ti rimettesse a posto; che non ti permettesse di trattarmi come mi tratti, che dividesse con me la fatica di crescerti. Un uomo sul quale fare affidamento. Ma già! Quale affidamento mai si può fare sugli uomini? Nella mia vita, sugli uomini, non ho mai potuto contare. La nostra è stata una casa di donne che hanno lavorato per allevare i figli. Gli uomini non ci sono mai stati. Mio padre, tuo nonno, è morto di cirrosi quando avevo quattro anni. Quella morte è stato il primo degli abbandoni da parte degli uomini. Non ho mai perdonato mio padre per essere andato via così, senza saper sconfiggere la malattia che lo faceva morire. Di lui, ricordo solo i lamenti, la rassegnazione. E, dopo quell’abbandono, ce ne sono stati tanti altri. Non un uomo che aiutasse mia madre, non uno zio, un nonno, non un nuovo marito che si prendesse cura di noi. Sono andata a lavorare a sedici anni ed erano già quattro anni che zia Nora lavorava. Quando, a venti anni, sono rimasta incinta, non mi ha stupito che tuo padre rifiutasse la responsabilità della tua nascita. Avrebbe preferito che io abortissi. Non l’ho fatto. Ho lasciato che tuo padre se ne andasse, che continuasse la sua vita di studente. Voleva fare il medico e il suo primo atto da medico fu cercare di farmi abortire! Sono certa che adesso è un professionista affermato e che neppure ricorda l’episodio. Non si è mai più fatto vedere né sentire. Forse ha creduto che io avessi abortito; forse non ha neppure creduto che io fossi incinta. Di fatto, il suo era un amore che non c’era. Io però, e nonostante tutto, ti ho voluto e tu sei nato. Sono tornata a lavorare, ti ho allevato come ho potuto e tua nonna, tua zia, la vicina di casa, con me. Ti ho trattato meglio di come la vita mi ha trattata, ricordalo! Non posso fare a meno di volerti bene, ma tu non sei il figlio che avrei voluto, non sei l’uomo che ho deciso di mettere al mondo perché mi facesse ricredere sugli uomini, perché mi confortasse dei loro abbandoni, perché mi dimostrasse come «deve essere» un uomo!
Quando feci l’ecografia c’erano anche tua nonna e tua zia Nora. Ci abbracciammo e festeggiammo subito perché eri un maschio. Lo volevamo, quel maschio, lo attendevamo come un salvatore, come una benedizione. Eri il figlio di un uomo che non c’era ma eri il «nostro» uomo!
La zia Nora, poi, rimase incinta due mesi dopo e tuo zio Claudio non si tirò indietro. La sposò. Claudio è buono, serio, anche se non è una persona pratica e ha sempre la testa tra le nuvole. Però di lui, almeno, potevamo fidarci.
La mia non fu una gravidanza triste e non è vero che non ti volevo. Non ti aspettavo, questo sì! Ma con zia Nora abbiamo, fin dall’inizio, progettato di crescere i nostri figli come due fratelli. E, per un po’, fino a quando non ho cambiato lavoro e siamo andati a vivere fuori città, è stato così. Adesso mi dici che sei sempre stato solo; che ti ha cresciuto la vicina di casa e che stai bene solo a casa di zia Nora! Adesso mi rinfacci anche il fatto di aver lavorato, come una schiava, per te, soprattutto per te e per garantirti un benessere del quale non sai che fare.
Beh, io non mi sento sbagliata! Io mi sento incompresa! Capisci? Forse non sono stata e non sono la madre che vorresti. Ma certe parentele non si scelgono;...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Fragile come un maschio
  3. Introduzione
  4. Avvertenza
  5. Prima parte - I FIGLI DELLE DEE
  6. Seconda parte - LE DEE
  7. Terza parte - PROVOCAZIONI FINALI
  8. Copyright