Gli spiriti non dimenticano
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Gli spiriti non dimenticano

Il mistero di Cavallo Pazzo e la tragedia dei Sioux

  1. 396 pagine
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Gli spiriti non dimenticano

Il mistero di Cavallo Pazzo e la tragedia dei Sioux

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Il racconto struggente e meraviglioso di un popolo, i Lakota Sioux delle Grandi Praterie americane, e del loro ultimo intrepido eroe, il capo Cavallo Pazzo, il vincitore di Custer. Una indimenticabile epopea ricostruita con emozionante intensità da un famoso scrittore e giornalista.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852048500
Argomento
Storia
XV

La resa

Quel giorno finì il sogno di un popolo.
Era stato un sogno meraviglioso.
ALCE NERO (1879)
La vendetta dei bianchi fu pronta e spietata.
Il massacro Custer si rivelò la miglior notizia che il governo potesse ricevere, perché sembrò assolvere gli Stati Uniti e l’esercito da ogni pretesa di finzione umanitaria o legale. Quei barbari, quei selvaggi che avevano massacrato il boy general della Guerra Civile e il fiore della Cavalleria non meritavano nulla.
Svaniti da tempo erano gli umori pacifisti del dopo Guerra Civile, le preoccupazioni pietistiche, la sceneggiata di patteggiare qualche forma di convivenza con i primi abitatori del Nuovo Mondo. Ora gli Stati Uniti si sarebbero semplicemente presi quel che volevano fin dall’inizio, il territorio dei Lakota, con le sue terre, i suoi monti, il suo oro, sentendosi giustificati dalla strage. La vittoria degli indiani all’Erba Grassa, al Little Bighorn, aveva sigillato per sempre il loro destino di perdenti storici.
L’esercito, come tanto spesso accade dopo le disfatte, quando i politicanti cercano di correre ai ripari dopo che i buoi sono scappati, ebbe tutto quel che chiedeva, uomini, armi, munizioni e soprattutto il sostegno di un’opinione pubblica che voleva a tutti i costi vendicare il suo eroe dai capelli biondi massacrato dai «selvaggi».
Crook, il generale «Tre Stelle», ricevette rinforzi immediati, quasi 2000 uomini freschi, comprese alcune compagnie di colore, di Negroes, come si diceva nel linguaggio del tempo. Non era la prima volta che reparti di neri venivano mandati nel territorio del Dakota contro i Sioux, che li avevano battezzati, con ammirazione, «i soldati del bufalo», per i capelli fitti e crespi che ricordavano loro il ciuffo di peli che i bisonti avevano sulla testa.
Se il messaggio di quei rinforzi non fosse bastato a chiarire le intenzioni del governo – c’erano ormai circa 5000 truppe di prima linea nella regione –, Washington tolse ogni dubbio con una legge straordinaria, e quasi incredibile nella sua spudoratezza, approvata dal Congresso, dal Parlamento, il 7 agosto 1876, appena sei settimane dopo la morte di Custer.
La legge era semplice e brutale: il governo non avrebbe più distribuito cibo, coperte, provviste di nessun genere ai Sioux delle riserve fino a quando gli indiani non avessero formalmente ceduto le Colline Nere, i monti Bighorn e il territorio del Fiume della Polvere e non si fossero rassegnati a vivere di elemosina, senza eccezione alcuna, sotto il controllo dei militari e degli agenti governativi. In una parola: dovevano cedere tutto: terre, storia, armi, cavalli, libertà.
In soli venticinque anni, si era passati dall’impegno di lasciare agli indigeni le loro terre «sino a quando l’erba crescerà e l’acqua scorrerà», scritto nel primo trattato di Fort Laramie del 1851, al «cedete tutto e basta» dell’agosto 1876. E questo senza neppure la giustificazione di una conquista armata. Anzi, gli indiani dovevano arrendersi perché avevano avuto l’impudenza di vincere.
Era un ricatto nudo, contro il quale i Sioux delle riserve erano impotenti. Non avevano più le armi né i cavalli per battersi o per dare la caccia ad animali sempre più rari. Avevano da tempo scambiato la loro libertà per l’elemosina dell’Uomo Bianco, nonostante gli ammonimenti di Cavallo Pazzo, e, proprio come il cane che lecca una mano e non vede il coltello nascosto nell’altra, ora si ritrovavano senza libertà e senza elemosina.
I capi delle tribù «amiche», quelle che stavano appunto nelle riserve, non avevano scelta, se non volevano condannare alla morte per fame i loro popoli. Mestamente, come tante volte nel passato, ripresero il sentiero della vergogna e andarono a firmare l’ultimo pezzo di carta che il Uas’ichu gli avrebbe messo davanti. Arrivarono Nuvola Rossa, il leader che i Sioux delle riserve avevano eletto a loro capo, Lui Cane, che aveva definitivamente abbandonato gli «ostili», e Coda Macchiata, il finto capo che i bianchi avevano arbitrariamente nominato, e tutti «toccarono la penna» sul trattato, nonostante la sua tragicomica illegalità. Tanto ovvia che ancora oggi, alla fine del XX secolo, pende irrisolto davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti il ricorso della nazione sioux per riavere il possesso delle Colline Nere.
I capi firmarono, in silenzio. Soltanto Alce In Piedi, un capo oglala che era stato a lungo con Cavallo Pazzo, non riuscì a stare zitto. Si alzò, per dire tremante di rabbia quel che tutti pensavano e che nessuno osava dire. «Uas’ichu, voi usate le parole e i pezzi di carta come bastoni. Qualunque cosa noi indiani facciamo, non è mai abbastanza per voi bianchi. Prendete tutto, prendetevi anche il nostro cuore.» La commissione inviata da Washington ascoltò indifferente e ripartì per la capitale, avendo ottenuto tutto quel che voleva. Quasi tutto. I bianchi non avevano ancora la preda più ambita: Cavallo Pazzo.
Il vincitore di Little Bighorn era ancora libero tra i suoi fiumi e i suoi alpeggi nel territorio del Powder River, il Fiume della Polvere. E finché lui, il profeta della resistenza armata, era libero, un pezzettino di quel «cuore» batteva ancora.
Catturare Cavallo Pazzo, ucciderlo o costringerlo alla resa divenne la priorità, l’ossessione del governo.
Dopo la vittoria e dopo le cerimonie funebri per la sepoltura dei loro morti nella battaglia contro Custer, le tribù che si erano raccolte sull’Erba Grassa per l’ultima volta nella storia dei popoli della prateria cominciarono a disperdersi con la loro gente.
Se ne andarono i Brulé, che tornarono nella riserva del loro vecchio capo, Coda Macchiata. Si dispersero gli Aràpaho, che poco alla volta chiesero e ottennero di mettersi al servizio dell’esercito, come i Corvi. Toro Seduto e i suoi Hunkpapa tornarono verso il Nord, da dove erano discesi per unirsi agli Oglala di Cavallo Pazzo.
Partirono gli Cheyenne, che furono i primi – di nuovo – ad assaggiare la vendetta dei Soldati Blu. Si imbatterono in «Tre Stelle», che dopo la sconfitta per mano di Cavallo Pazzo era tornato alla testa di ben 2200 soldati. Questi attaccò i villaggi di Piccolo Lupo e di Coltello Spuntato, uccidendo 40 guerrieri, bruciando le tende e portando via 850 cavalli, l’intera mandria. I superstiti riuscirono a raggiungere gli Oglala di Cavallo Pazzo e furono rifocillati, ospitati dai Sioux che divisero con loro, generosamente, quel che ancora avevano. Cioè molto poco.
Sotto la Luna della Brina nella Tenda, nel mese di dicembre, la situazione dei Lakota e dei rifugiati cheyenne era disperata.
La campagna estiva di Sheridan era stata per l’esercito un sanguinoso fiasco tattico, che aveva portato al massacro del Little Bighorn, ma era stata una vittoria strategica. Le offensive di Crook, di Terry, di Gibbon, di Custer avevano infatti tenuto le tribù libere sotto una costante pressione militare e avevano impedito loro di fare le provviste per l’inverno, di cacciare i pochi bisonti rimasti, di scambiare merci, di fare rifornimento di munizioni. Forse per questo motivo, o per le conseguenze che ebbe, i Sioux non celebrarono mai la battaglia presso il fiume Little Bighorn, l’Erba Grassa, come una grande vittoria. Nei loro pittogrammi, nella storia del 1876 dipinta sulle pelli di bisonte, quell’anno è ricordato soltanto come un anno di dolore e di disgrazie, non di vittorie.
L’inverno dopo la battaglia, che la memoria indiana ricorda come particolarmente freddo, ma forse sembrò tale soltanto per le condizioni della tribù, cadde su Cavallo Pazzo e sugli Cheyenne che si erano rifugiati sotto la sua protezione come una condanna senza appello.
Alla fine di dicembre, Cavallo Pazzo era braccato da migliaia di soldati. I parfleches, le scatole di pergamena che servivano da dispense, erano vuote, e la selvaggina d’inverno, mai molto abbondante, si era fatta introvabile.
I bambini rabbrividivano per il freddo e piangevano per la fame. I vecchi si allontanavano sempre più numerosi dalle tende, per andare a morire nel vento gelido e non essere più di peso alla tribù. I guerrieri dovevano abbattere i loro cavalli per mettere i neonati al caldo per qualche ora dentro la pancia degli animali sventrati, e poi darli in pasto alle mogli e ai figli, così garantendo – come il contadino che brucia la casa per tenersi caldo – che il futuro sarebbe stato ancora più duro. Scialle Nero, dopo l’effimero miglioramento ottenuto dal mistico sudore nella sauna sul lago dei miracoli, era tornata a tossire ferocemente. E dalla pianura erano arrivati messaggeri ad annunciare che i capi delle riserve, Nuvola Rossa, Coda Macchiata e gli altri, si erano arresi e avevano ceduto tutto, proprio tutto, il territorio indiano ai bianchi, comprese le Colline Nere, la Casa del Padre che era in cielo.
Tashunka scomparve per qualche giorno, come tante volte aveva fatto in passato, quando una pena insopportabile lo colpiva, quando la sua anima smarrita aveva bisogno di parlare con gli spiriti e chiedere loro guida e aiuto. Quando tornò, trovò nella sua tenda due indiani di quelli che un tempo si chiamavano «i Fannulloni», gli oziosi che vivevano della elemosina bianca attorno ai forti, e ora erano divenuti la maggioranza. Erano latori di un messaggio di Cappotto d’Orso, di un certo colonnello Nelson Miles che indossava sempre un’enorme pelliccia di grizzly e che aveva appena organizzato una nuova base sul fiume Tongue, il Fiume della Lingua, non lontano dal Little Bighorn dove era ancora il campo degli Oglala di Cavallo Pazzo. Offrivano pace con onore, e il Figlio del Tuono, l’eroe mai sconfitto, decise di negoziare, per la prima volta nella sua vita.
Scelse otto amici fidati. Ordinò di lasciare tutte le armi. Diede loro una bandiera bianca e un cavallo dell’esercito americano, catturato al Little Bighorn, ancora con la stampigliatura a fuoco «U.S.», Stati Uniti, sulla groppa, in segno di pace e li guardò allontanarsi verso il forte di Cappotto D’Orso, di Miles. Quando furono scomparsi dietro una cresta, tornò da Scialle Nero e le disse: «Moglie, preparati a partire. La guerra con il Uas’ichu per me è finita. Non ho perduto, eppure ho perduto, perché lo Spirito mi ordina di pensare alla fame del mio popolo e di dimenticare il mio orgoglio. Non combatterò mai più».
Si sbagliava. Dalle palizzate dell’accampamento fortificato del colonnello Miles, i Corvi di guardia videro arrivare gli otto ambasciatori con la bandiera bianca e riconobbero immediatamente gli odiati Oglala. Non seppero resistere alla tentazione della loro piccola vendetta privata. I Corvi uscirono al galoppo dal forte lanciando le grida di guerra e si abbatterono sugli otto Oglala disarmati. Ne uccisero cinque, sotto lo sguardo di Miles e dei Soldati Blu che avevano invitato Cavallo Pazzo a quel colloquio e avevano promesso l’onore delle armi, ma non mossero un dito per impedire l’assalto ai suoi ambasciatori. I tre superstiti tornarono al galoppo al villaggio e riferirono a Cavallo Pazzo quel che era accaduto.
La moglie tremò al pensiero di quale follia avrebbe fatto il marito, all’udire dell’ennesimo tradimento della parola data da parte dei bianchi, ma lui non si alzò neppure dalla terra dura, gelata, sotto la sua tenda. Disse soltanto: «Il Grande Mistero ha voluto così e così dovrà essere».
Una settimana più tardi, Tashunka Uitko e quel che gli restava delle orde invincibili degli Oglala Sioux mossero contro l’armata del colonnello Miles, di Cappotto D’Orso, che stava avanzando contro l’accampamento invernale di Cavallo Pazzo, trascinandosi obici da montagna e mitragliatrici.
Lo scontro avvenne sui fianchi del Monte del Lupo e durò ben cinque ore. I guerrieri non poterono molto contro i bene organizzati uomini di Miles e contro i loro cannoni. Cappotto D’Orso non era una testa calda e avventata come Custer, era un ufficiale metodico, implacabile. Aveva studiato le nuove tattiche sioux volute da Cavallo Pazzo e aveva concluso, correttamente, che il modo più efficace di spezzare l’impeto delle ondate d’assalto degli indiani era prenderle a cannonate.
La mattina della battaglia, quando gli Oglala avevano visto i soldati consumare il caffè e le gallette della prima colazione dall’alto delle colline, avevano gridato «mangiate bene, mangiate tanto, perché questo sarà il vostro ultimo pasto da vivi», ma era millanteria. Dopo cinque ore di cannoneggiamento e di inutili cariche, Cavallo Pazzo dovette ordinare la ritirata. La colonna di Miles li inseguì, irrompendo nel villaggio.
Le donne e i bambini, avvertiti dai guerrieri in ritirata, erano già fuggiti, vestiti di quel che avevano addosso, verso i monti e scamparono a un sicuro massacro. Ma Cappotto D’Orso non perse tempo a inseguirli e a rischiare imboscate. Intelligentemente, metodicamente, si limitò a distruggere con cura ogni tipì, ogni pelle, ogni pentola, ogni pezzetto di carne, ogni cavallo rimasto ancora vivo nel recinto delle bestie. Soltanto quando, pietosamente, la neve cominciò a mutarsi in pioggia e ogni ulteriore operazione militare divenne impossibile nel fango, Miles riportò i suoi soldati al forte. Inutile rischiarli. Per Tashunka Uitko non c’era più scampo.
Sui monti, i resti degli Oglala ancora liberi si trovarono soli davanti all’inverno senza più un brandello di carne secca, senza una buona tenda, quasi senza più munizioni.
Restava loro solo qualche coperta, una pelle, una manciata di pemmican sfuggite alla sistematica distruzione dei militari, e con i rami strappati agli abeti e alle betulle le donne riuscirono a costruire piccole capanne di fortuna, sorta di igloo per riparare almeno i figli più piccoli dal vento che soffiava giù per le valli anguste, dove erano costretti a bivaccare, non osando scendere più verso il fondo delle valli grandi, pattugliate dai soldati.
Venne gennaio, il mese più crudele dell’anno, la luna sotto la quale le cortecce degli alberi scoppiano per il gelo. Molti altri uomini presero le loro donne, i loro bambini, diedero l’addio ai loro vecchi lasciati a morire sui monti Bighorn, e si avviarono verso il fondovalle, per arrendersi e consegnarsi all’esercito. I primi se ne andavano di notte, per non farsi vedere da Cavallo Pazzo, per la vergogna di quella resa, ma poi lui fece sapere che tutti erano liberi di fare quel che volevano e reputavano meglio per le loro famiglie, come voleva la tradizione dei Lakota.
Non avrebbe serbato rancore per chi abbandonava la lotta, né li avrebbe considerati traditori. Non c’era vergogna nel voler salvare la vita a bambini che morivano di freddo, che perdevano mani e piedi nella cancrena del congelamento. Non era un tradimento cercare di salvare la vita a neonati che i padri dovevano infilare nella pancia del loro cavallo, per tenerli caldi almeno per una notte tra le viscere fumanti della bestia.
All’improvviso, inaspettato, un giorno di gennaio arrivò da questi Oglala, ormai costretti a vivere come profughi sulla loro stessa terra, un uomo che Cavallo Pazzo non aveva più visto da quando gli indiani si erano dispersi otto mesi prima, in giugno, dopo il massacro di Custer: Toro Seduto.
Alla testa di un buon numero di Hunkpapa Lakota, Tatanka Yotanka aveva battuto le valli e gli alpeggi del territorio del Fiume della Polvere e dei Bighorn per cercare il suo amico, per riunirsi a Cavallo Pazzo. Portava con sé 50 casse di buoni fucili a ripetizione e di pallottole, più un gran numero di buone coperte militari americane, non quelle porcherie che gli agenti disonesti distribuivano agli indiani, e una proposta allettante.
«Tashunka, vieni via con me. Prendi i tuoi Oglala e uniscili ai miei Hunkpapa. Andiamo a nord, oltre il fiume, nel territorio della Grande Nonna [il Canada, come si è già visto, che apparteneva alla regina Vittoria d’Inghilterra], e lassù potremo dormire, cacciare e guardare le nostre donne e i nostri figli crescere, cacciando il bisonte e l’alce, come nei vecchi tempi.»
Cavallo Pazzo lo ascoltò in silenzio. Poi gli strinse entrambe le mani, gli porse la sua pipa per fumare insieme e scosse la testa, pronunciando quelle parole che non avrebbe mai voluto dire. «No, Tatanka, per noi è finita. Dovunque andremo, il Bianco ci inseguirà, ci braccherà come il cacciatore affamato che insegue l’alce d’inverno, come la lupa che ha i cuccioli da sfamare nella sua tana e ha sentito l’odore del cervo. Guardati intorno, Tatanka. I Lakota sono sempre di meno e i soldati sono sempre di più. Per uno che uccidiamo, dieci ne spuntano dalla terra.» Poi Cavallo Pazzo chiuse gli occhi, abbassò la testa e disse:
«È arrivato per me il momento di morire. Tu vai pure a nord con i tuoi. Io devo andare a sud, perché il mio destino si compia.»
Toro Seduto partì per la inutile fuga in Canada. Sarebbe durata molto poco anche quella e Toro Seduto sarebbe finito a lavorare come attore nel circo viaggiante di William Cody, «Buffalo Bill», prima di essere ucciso.
La notizia che Cavallo Pazzo aveva deciso di arrendersi corse dalle montagne verso i forti della prateria come il fuoco che gli india...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Ringraziamenti
  4. Gli spiriti non dimenticano
  5. Introduzione
  6. I. L’incontro
  7. II. L’attacco
  8. III. La caccia
  9. IV. Il sogno
  10. V. Il battesimo
  11. VI. L’amore
  12. VII. Le fiamme
  13. VIII. Le lacrime
  14. IX. L’onore
  15. X. L’assedio
  16. XI. Il duello
  17. XII. La bambina
  18. XIII. L’oro
  19. XIV. La strage
  20. XV. La resa
  21. XVI. Il segreto
  22. Appendice
  23. Bibliografia
  24. Copyright