I vangeli
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I vangeli

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  1. 168 pagine
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I vangeli

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Noi moderni lettori dei Vangeli siamo immensamente rozzi e limitati, se ci paragoniamo a un sacerdote ebreo o a un fedele cristiano del primo secolo. Cogliamo soltanto una minuscola parte dell'infinita ricchezza di citazioni e allusioni, rinvii interni ed esterni e sensi segreti con cui veniva composto un Vangelo. Leggere un testo è un'arte che abbiamo quasi dimenticato. Con infinita pazienza e umiltà, Pietro Citati ripercorre il cammino fatto da quei primi lettori: ricostruisce la trama di rimandi e riferimenti nascosti, legge gli indizi, ricompone gli intarsi, mostrandoci come la storia, gli eventi della vita di Gesù si sono compiuti con simboli immaginati molti secoli prima. Tutto il racconto evangelico – dal misterioso tema della nascita verginale di Gesù fino alle parole finali sulla croce: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» – è fittamente intrecciato con il testo dell'Antico Testamento, con le leggende ebraiche che formano una specie di fondale, di eco e di conferma alle verità della nuova fede. Al di là del ricchissimo tessuto della tradizione, però, Citati cerca con tutte le sue forze di cogliere la novità, il respiro profondo della rivelazione cristiana. La modestia, il candore, la dolcezza di Maria non trovano riscontro nei testi antichi. E nemmeno la misteriosa immagine del «bambino nella mangiatoia», uno dei segni fondamentali in cui si riconoscevano i nuovi fedeli. Nessuno prima di Gesù e dei suoi discepoli ha amato con tanta intensità i poveri, gli ultimi, gli estremi, che vivono sotto e oltre il limite del nostro mondo. Nessuno prima di loro ha detto che i bambini, disprezzati dal mondo antico, nella loro incompletezza e debolezza tengono aperte le strade dell'amore paterno di Dio. La spada, la tensione, i contrasti, la violenza che Gesù porta nel mondo non hanno nulla a che vedere con la religione dei farisei. Nuova è l'idea che per la salvezza dell'uomo non vi è richiesta, domanda, esigenza, requisito, se non la fede: di qui nasce il profumo della vita eterna. Citati sembra conoscere e condividere tutte le inquietudini e i dubbi che tormentavano le prime comunità cristiane. È turbato dal mistero, dalla contraddizione e dal paradosso che sono alla base del cristianesimo, questa religione che ama la leggerezza e la grazia ma culmina in modo terribile nello scandalo della croce. Però sa anche che, come accade nel Vangelo di Giovanni, ogni incertezza, ogni dubbio si può capovolgere in un glorioso trionfo. Sa che l'ultima parola, nel cristianesimo, resta futura.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852054518

XI

Gesù e i farisei

Nella letteratura farisaica, la Torà venne elevata al grado di realtà assoluta ed eterna, modello di tutta la creazione. Per un rabbino del secondo secolo dopo Cristo, il mondo derivava la sua esistenza dal fatto che Israele accettava la Torà: senza di essa il mondo sarebbe ritornato nel caos. Ognuno dei duecentoquarantotto comandamenti e ognuna delle trecentosessantacinque proibizioni della Torà avevano un significato cosmico. In quanto realtà assoluta, la Torà era la sorgente della vita, perché, secondo le parole del rabbino Hillel, «dove c’è molta Torà, c’è anche molta vita».
La parola «fariseo» ricorreva negli scritti rabbinici col senso di «appartato, separato, distinto». A partire dal secondo secolo avanti Cristo e nei Vangeli, i farisei erano appunto coloro che stavano appartati e separati. Come Israele era il popolo segregato dagli altri, così il sacerdote, secondo i farisei, viveva in una clausura e in una segregazione che lo teneva lontano da ogni impurità, confusione e moltiplicazione del mondo. Viveva nella purezza rituale. Il fariseo imitava il sacerdote: nella vita quotidiana, doveva essere chiuso ed esclusivo come lo era il sacerdote, rispetto a tutti i profani, e a tutti i sacerdoti delle altre religioni. Così ammiriamo, nei Vangeli, il gesto incessante con cui il fariseo teneva lontano il resto del mondo: egli era il solo, l’unico, il purissimo: nessuno poteva toccarlo e sfiorarlo; nessuno poteva imitarlo o vivere nella sua ombra. La mensa nella sua casa doveva essere come la mensa del Signore nel tempio. I farisei ricordavano come Dio si era rivolto a Israele nell’Esodo (19,5-6): «E ora, se voi sentite la mia voce e conservate la mia alleanza, voi sarete la mia parte personale tra tutti i popoli … e voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa».
Così, per edificare la purezza, i farisei accordavano a sé stessi una serie di obblighi: in primo luogo l’obbligo, prescritto dalla Torà, di rispettare il riposo del sabato. Così dice l’Esodo (31,12-17): «Il Signore disse a Mosè: “Di’ ai figli di Israele: voi osserverete i miei sabati, perché è un segno tra me e voi di età in età, perché si riconosca che sono io, il Signore, che vi santifica. Voi osserverete il sabato, perché per voi è sacro. Chi lo profanerà sarà messo a morte. Sì, chiunque farà un’opera, costui sarà cacciato dal seno della sua parentela. Durante sei giorni, si farà la propria opera, ma il settimo giorno è il sabato, il giorno di riposo consacrato al Signore. … I figli di Israele conserveranno il sabato, per fare del sabato, di età in età, un’alleanza perpetua. Per sempre, tra i figli di Israele e me, è il segno che in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra, ma che il settimo giorno è rimasto inattivo e ha ripreso il suo soffio”».
Intorno al sabato il Signore aveva costruito una perpetua teologia dell’alleanza: il giorno di sublime inattività di Dio si ripeteva nei tempi: la continuità era interrotta da un ritmo; un segno temporale legava Dio e gli uomini. Il ricorso al sabato creava una parentela tra i popoli, e Dio maneggiava la sua arma fondamentale, la morte. La ricorrenza del sabato era considerata come il segno dell’elezione: Dio aveva santificato soltanto il popolo di Israele con l’osservanza del sabato. Il giorno di riposo, festeggiato già dai patriarchi, consentiva di pregustare la gloria eterna, che sarà un sabato senza fine. Il meraviglioso effetto del sabato era tale che, nel settimo giorno, anche gli empi godevano nella Gehenna una sospensione della pena. Così il comandamento del sabato era importante quanto tutti gli altri comandamenti della Torà messi insieme. Se Israele avesse osservato – i rabbini dicevano – solo due sabati secondo le esatte prescrizioni, ci sarebbe già stata la redenzione.
Intorno al riposo del sabato, il mondo farisaico edificò una serie di prescrizioni e di rituali. La lavanda delle mani prima del pasto, e durante il pasto, era un rituale al quale erano tenuti in primo luogo solo i sacerdoti, quando mangiavano le primizie: poi tutti i farisei la imitarono, per rappresentare il popolo sacerdote della salvezza negli ultimi tempi. Le mani, non lavate prima del pasto, potevano essere impure per aver toccato uomini e cose impure, e quindi contaminavano il cibo. La preghiera in formule fisse esisteva nelle ore stabilite di ogni giorno, così che il rapido slancio del cuore verso Dio si consacrava in un formulario, senza perdere il suo calore. Di là dal mondo della purezza, si spalancava il caos barbarico dell’impurità: chi aveva polluzioni notturne che ne macchiavano il corpo: chi entrava nelle case dei pagani, dove forse erano sepolti bambini nati morti: chi toccava un cadavere; una serie di condizioni che ricordavano da lontano l’immenso, tragico mare dell’impurità zoroastriana.
I farisei credevano nel merito. Chi osservava i comandamenti, acquistava un merito: chi non commetteva peccati, acquistava un merito: chi obbediva agli obblighi rituali, specialmente quelli che esaltavano la purezza, acquistava un merito; chi commetteva buone azioni moltiplicava i meriti. I rabbini facevano del merito un discrimine tra gli esseri umani. Esaltavano chi aveva meriti e disprezzavano chi non ne aveva, sostenendo che molti esseri umani, come i pubblicani, non potevano conoscere il merito.
La religione farisaica aveva grandi limiti. Gesù e i cristiani li indicavano: forse li esageravano: il legalismo, l’esaltazione della forma, l’adorazione dell’apparenza, la vanità di chi compiva opere buone, l’ipocrisia fondata sul formalismo. Non sempre dobbiamo pensare ai farisei secondo l’ottica dei Vangeli. Proprio i farisei raccomandavano le eccezioni alla religione rituale, condannando il formalismo. Un rabbino aveva detto: «A voi è dato il sabato, e non voi al sabato». Questa frase prescriveva che, per salvare una vita umana in estremo pericolo, il sabato poteva essere ignorato. La Torà prevedeva, nell’ambito del servizio del tempio, casi in cui il precetto del riposo sabbatico veniva sospeso. Quando avveniva un conflitto tra servizio del tempio e riposi sabbatici, il primo aveva la precedenza: se i sacerdoti lavoravano di notte nel tempio, violando il riposo sabbatico, non commettevano colpa.
In un passo del Vangelo di Giovanni (8,23), Gesù usò parole durissime contro i farisei e i giudei: «Voi siete dal basso, io sono dall’alto; voi siete di questo mondo, io non sono di questo mondo». Verso i farisei nutriva una specie di furore, perché scorgeva in loro gli eredi di chi aveva ucciso i profeti; e lui era l’ultimissimo, il più grande profeta, e ora volevano ucciderlo. Il fariseismo era un vestito liso e logoro: non si poteva rammendarlo e ricucirlo, né si poteva aggiungere un pezzo nuovo a un abito vecchio; bisognava soltanto gettare via il vestito vecchio. I farisei erano ciechi. La chiusura interiore della mente impediva loro di conoscere la rivelazione di Dio: vivevano nel mondo del dire e non in quello del fare: nel mondo delle apparenze e non in quello della realtà; e si innalzavano e si esaltavano invece di abbassarsi. Gesù non voleva salvarli. Anzi, ricorrendo al soccorso di Dio, voleva accecare ancora di più i loro occhi, e indurire terribilmente i loro cuori.
Qualche volta, Gesù ripeteva, contro i farisei, ciò che gli stessi farisei gli avevano detto contro l’esorbitanza del sabato. Quando i discepoli di Gesù strapparono, di sabato, delle spighe di grano, i farisei gli dissero: «Vedi! Perché fanno di sabato ciò che non è lecito?». Allora Gesù rispose: «Il sabato è stato stabilito per l’uomo, e non l’uomo per il sabato. Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato» (Mc 2,23-27). In una sinagoga Gesù vide un uomo con una mano paralizzata. Disse: «Alzati, vieni nel mezzo!». E disse ai farisei: «È lecito in giorno di sabato fare del bene o fare del male? Salvare qualcuno o ucciderlo?». Ma essi tacevano. E girando lo sguardo su di loro con indignazione, profondamente turbato per la durezza dei loro cuori, disse all’uomo: «Stendi la mano!». E quegli la stese e la sua mano fu guarita (Mc 3,1-5).
Mentre Gesù entrava nella casa di uno dei farisei durante un sabato, questi lo sorvegliava. C’era lì, di fronte a loro, un uomo idropico. Come in risposta, Gesù disse ai dottori della legge e ai farisei: «È consentito durante il sabato curare, sì o no?». Ma i farisei restavano tranquilli. Allora Gesù prese l’idropico, lo guarì e lo liberò. Poi disse loro: «Quale di voi, se ha un figlio o un bue che cade in un pozzo, non lo tira su subito nel giorno di sabato?» (Lc 14,1-5). Ciò che importava, ripeteva Gesù, era fare il bene: obbedire all’amore, alla richiesta di amore; mentre quello del sabato era un rito irrigidito. Se si vedeva nella cura un lavoro profano, ogni guarigione era proibita: se essa veniva ritenuta un compito spirituale, la guarigione era raccomandata e prescritta.
Un giorno i farisei e gli scribi videro che alcuni suoi discepoli mangiavano il pane con mani non lavate. I farisei dissero: «Perché i tuoi discepoli non si conducono secondo la tradizione degli antichi, ma mangiano il pane con mani impure?». Gesù chiamò a sé la folla e disse loro: «Ascoltate tutti, e comprendete! Non c’è nulla che, dall’esterno dell’uomo entrando in lui, possa renderlo impuro. Piuttosto, ciò che esce dall’uomo rende impuro l’uomo» (Mc 7,2-5, 14-16). Tutto ciò che Dio aveva creato era puro: non esistevano animali puri e animali impuri: tutto ciò che l’uomo mangiava era puro, mentre era impuro tutto ciò che usciva dall’uomo e andava nelle latrine; e quindi non era necessario lavarsi le mani prima del pasto. Dichiarando puro ogni cibo, Gesù diceva: «Ciò che esce dall’uomo, quello rende impuro l’uomo. Dall’interno, infatti, dal cuore degli uomini escono i pensieri malvagi, fornicazioni, furti, omicidi, adulteri, cupidigia, malvagità, inganno, impudicizia, occhio maligno, bestemmia, superbia, stoltezza, tutte queste cose cattive escono dall’interno e rendono impuro l’uomo» (Mc 7,20-23).
Di solito i farisei accusavano Gesù di non rispettare la Legge: qualche volta, invece, era Gesù che li accusava di offenderla e di violarla. Nel Vangelo di Marco, alcuni farisei chiesero a Gesù se era lecito al marito ripudiare la moglie. Essi avevano in mente un passo del Deuteronomio (24,1): «Un uomo prende una donna e la sposa, poi trovando in lei qualcosa che gli fa vergogna, cessa di guardarla con favore, redige per lei un atto di ripudio e glielo rimette, rinviandola a casa sua». Inoltre un rabbino insegnava che un uomo aveva il diritto di ripudiare la moglie se ne incontrava una più bella: così che nel tardo giudaismo il divorzio era facile, e i farisei volevano mantenerlo facile. Ma Gesù ribadiva la gravità dell’adulterio. E criticava il passo del Deuteronomio, giudicandolo una degradazione della legge ebraica, che si era penosamente adattata alla degradazione dei cuori in Israele. Contro il Deuteronomio e le interpretazioni rabbiniche, Gesù ritornava alla legge originale, la Genesi, la quale diceva: «Perciò l’uomo lascia suo padre e sua madre e si unisce con sua moglie e diventano una carne sola» (2,24). Gesù ristabiliva dunque, contro la tradizione ebraica, la sublime solennità del matrimonio originale.
Il Vangelo di Luca (18,10-14) racconta che due uomini salirono al tempio per pregare: l’uno era fariseo, l’altro esattore. Il fariseo, stando in piedi, nel proprio intimo pregava così: «O Dio, ti ringrazio per il fatto che non sono come il resto degli uomini, rapaci, iniqui, adulteri, o come questo esattore. Digiuno due volte alla settimana; e do la decima su tutto ciò che guadagno». L’esattore si teneva a distanza: non voleva nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, sii riconciliato con me, peccatore». Luca esalta la religione del peccatore, che si umiliava, si faceva piccolo, riconosceva il proprio peccato, pensava che la sua distanza da Dio fosse invalicabile e irrimediabile; e proprio lui, il peccatore, veniva giustificato da Dio. Il fariseo esaltava i propri meriti, si innalzava, si riteneva giusto, pensava di avere abbracciato per sempre la strada della virtù, condannando gli altri e in primo luogo l’esattore, che modestamente pregava tenendosi in disparte da lui. In quel momento, Dio distolse lo sguardo dalla preghiera superba, dalla virtù ostentata e dall’ipocrita esaltazione che il fariseo faceva di sé stesso.
Nel mondo spirituale di Gesù, non si poteva cancellare e diminuire il peccato, analizzandolo, descrivendolo, abolendo il suo rilievo: il peccato aveva un terribile peso, e gettava un’ombra capace di annullare e distruggere le nostre vite. Anche la Legge era radicale: la virtù non poteva venire ridotta a enumerazione, una semplice collana di meriti. Gesù esasperava le raccomandazioni della Legge, come testimonia il Discorso della montagna. «Avete udito» ricordava «cosa venne detto agli antichi: “Non uccidere, e chi ucciderà sarà sottoposto a giudizio”. Ma io vi dico: “Chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto al tribunale. Chi poi dica al proprio fratello Rakà, sarà sottoposto al sinedrio. E chi gli dice: “Stolto!” sarà sottoposto al fuoco della Gehenna» (Mt 5,21-22). E insisteva: «Avete udito che fu detto: “Non commettere adulterio”. Io invece vi dico: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore”» (5,27-28).
Un proverbio rabbinico diceva: «Non parlare con una donna per la strada»; e testi rabbinici posteriori proclamavano che non bisogna parlare molto nemmeno con la propria moglie. La donna veniva abbassata, diminuita, umiliata, come se fosse la metà inferiore del mondo, o addirittura qualcosa di abietto. Gesù capovolse queste persuasioni. Il maschio «signore» e «padrone di casa» venne messo in ombra e in secondo piano. Egli si intratteneva semplicemente con le donne, così che i suoi discepoli si meravigliarono quando lo scorsero parlare, da solo, con la Samaritana (Gv 4,27). Le donne avevano cura di lui: secondo Marcione, questo fatto venne addotto come capo d’accusa nel processo intentato dal sinedrio. In tutto il corso dei Vangeli, le donne riservano a Gesù un’attenzione e una fedeltà che non sempre i discepoli seppero mantenere.
Secondo indicazioni dei Vangeli sinottici, il rapporto di Gesù con i farisei mutò nel tempo: egli accettò di sedere al tavolo con loro (Lc 7,36; 11,37; 14,1). Nel Vangelo di Marco, uno scriba, probabilmente un fariseo, chiese a Gesù: «Quale comandamento è primo in tutto?». Gesù rispose: «Il primo è: “Ascolta, Israele, il Signore, nostro Dio, è unico Signore, e amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutta la tua mente e con tutta la tua forza” [così aveva detto il Deuteronomio 6,4-5]. Il secondo è questo: “Amerai il prossimo tuo come te stesso” [così aveva detto il Levitico 19,18]. Non c’è comandamento maggiore di questo». Lo scriba rispose: «Giustamente, maestro, secondo verità hai detto che è unico e non v’è altro all’infuori di lui; e amarlo con tutto il cuore e tutto l’intelletto ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. I vangeli
  3. I. La nascita di Gesù
  4. II. Chi era Gesù
  5. III. Il Messia
  6. IV. Il Figlio dell’uomo
  7. V. Il battesimo
  8. VI. La tentazione di Satana
  9. VII. Il mio giogo è dolce e il mio peso è leggero
  10. VIII. I miracoli
  11. IX. Beati i poveri di spirito
  12. X. Il Padre nostro
  13. XI. Gesù e i farisei
  14. XII. La fede e la grazia
  15. XIII. La risurrezione di Lazzaro
  16. XIV. La domenica delle palme
  17. XV. Prendete, mangiate. Questo è il mio corpo
  18. XVI. Il Paraclito
  19. XVII. Nel Getsemani
  20. XVIII. Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?
  21. XIX. Tutto è compiuto
  22. XX. La risurrezione
  23. Copyright