Qualche anno più tardi sono con un amico al ristorante di Filippo Lamantia. Lo chef mi vede, mi riconosce e mi dice: «Abbiamo un’amicizia in comune, Chiara».
Quella Chiara che mi ha prestato la macchina il giorno dell’incidente, quella Chiara con cui mi sono schiantata in autostrada. Per dodici anni mi sono rifiutata di sentirla e di vederla. In molti mi hanno detto in questo lungo periodo: «Dài, ti prego, chiamala!», ma le loro richieste sono sempre cadute nel vuoto.
Ora però è diverso: grazie anche al lavoro di analisi che mi ha rimessa in pace con il mondo e mi ha ormai liberata dai fantasmi del passato, lascio il mio numero a Lamantia. «Dille di chiamarmi!»
Chiara mi telefona il giorno successivo, felice di avermi ritrovata. Forse sono soltanto alla ricerca di un modo per farmi perdonare la lunga assenza, ma riprendiamo a sentirci regolarmente. Le nostre conversazioni sono tranquille e piacevoli, come se fossero avvolte da una sensazione di pace e serenità.
«Perché non vieni a Lourdes con me? È un posto bellissimo, pieno di luce e di persone simpatiche» mi dice Chiara un pomeriggio. «Non preoccuparti, staremo lì soltanto quattro giorni!»
L’ultima cosa che vorrei fare nella vita.
E ora cosa le dico? Che faccio? Penso velocemente a un modo per rifiutare, per dire di no a un’amica che non vedo da dodici anni e verso cui mi sento in debito.
Le dico: «A Lourdes... Veramente?». Avverto un sospiro di dispiacere all’altro capo del filo. Dopo un attimo di esitazione, aggiungo: «Sì, certo, vengo!».
Ci siamo appena ritrovate: non voglio che si senta rifiutata un’altra volta. Progetto di inventarmi un impegno improvviso all’ultimo momento – una chiamata in studio, un concerto – per essere “costretta” a rinunciare. Figuriamoci se io, atea convinta, posso mettere piede in un posto così assurdo, così lontano da me in tutto. Non credo in Dio, e non ho alcuna intenzione di cominciare a farlo.
Lourdes è davvero l’ultimo luogo al mondo in cui vorrei andare, lo nomino solo in qualche battuta e nessuno dei miei amici ci è mai stato. E poi, se proprio devo fare un viaggio, preferirei andare in posti come la Scozia, il Portogallo, la Nuova Zelanda... mica a Lourdes! Lo immagino profondamente triste, doloroso e pesante.
E poi non è il momento: dopo anni, finalmente mi sento bene. Il lavoro di analisi sta andando a gonfie vele e mi dà risultati incredibili. Vivo anche relazioni amorose piacevoli e non impegnative. Insomma, ho quello che voglio.
Ma alla fine accetto.
L’appuntamento alla stazione di Roma Ostiense è per le sette del mattino, anche se il treno parte alle otto e mezzo. Andrò a Lourdes con quello che chiamano il “treno bianco” dell’Unitalsi: ventiquattro ore di viaggio – e di preghiere.
Per l’ennesima volta chiedo a mia madre il favore di badare a Leo, il mio barboncino nero, che lei adora quasi quanto me. Accetta con gioia e si offre anche di accompagnarmi in stazione ad aspettare con me l’arrivo del convoglio.
Ci dirigiamo con il trolley verso il punto di ritrovo, cercando di farci spazio tra la folla rumorosa di pellegrini, parenti dei pellegrini, infermi, famigliari degli infermi... Prendo il telefono per chiamare Marta, un’amica con cui Chiara mi ha messa in contatto. Ma, prima di comporre il numero, il telefono mi squilla in mano. È lei.
«Ciao, sono Marta, sei in stazione?»
«Sì, sono qui. Stavo giusto per chiamarti.»
«Benissimo. Arrivo.»
È una ragazza molto carina, bionda e con gli occhi scuri. Ha un bel sorriso. Parliamo del più e del meno, il treno è in ritardo di due ore ma quasi non ce ne accorgiamo perché la chiacchierata è piacevole. A un tratto però lei mi chiede: «Ma tu conosci Giorgio, giusto?».
«Giorgio... Giorgio chi?» rispondo io.
«Come Giorgio chi?» ribatte lei, guardandomi perplessa. «Giorgio... Giorgio e Geraldine.»
Oh cazzo, Giorgio! Viene fuori che Marta è amica di Geraldine, la moglie dell’uomo sposato che ho conosciuto in Madagascar. Quante possibilità c’erano?
Il fratello di Chiara, frate Antonio da quando fa parte dell’Ordine dei Francescani e Anto per gli amici, ci raggiunge poco dopo. Non ci conosciamo, ma lei me ne ha parlato molto e lo stesso deve avere fatto di me con lui. Il suo sorriso alleggerisce un po’ la tensione che c’è tra me e Marta.
Qualcuno viene a salutarmi, altri mi sorridono da lontano. Leo si allunga tra i miei piedi e gratta l’asfalto: non vuole che me ne vada. Saluto mia madre con un abbraccio, poi salgo con gli altri pellegrini sulla carrozza.
Anto ci accompagna, ma subito ci lascia per aiutare chi ha più bisogno di noi: i vagoni riservati a chi è in barella sono cinque.
Sistemiamo i nostri bagagli e diamo una mano a quelli nelle cuccette vicine alle nostre. Su ogni lettino, così come su ogni sedile, c’è un libriccino con in copertina la scritta: CELEBRAZIONI, PREGHIERE E CANTI.
Quando il treno parte, il primo gruppetto di curiosi mi ha già attorniata. Tirar fuori la chitarra dalla custodia, suonare e cantare qualcosa può essere una buona idea per rompere il ghiaccio: non vivo il viaggio come un pellegrinaggio, però voglio lo stesso rendermi utile cantando qualche pezzo con i malati e gli accompagnatori.
Marta mi chiede una canzone di Laura Pausini, altri me ne domandano una di Lucio Battisti, Domenico Modugno o Fabrizio De André. Oltre a, naturalmente, qualche brano mio. Frate Antonio ci raggiunge e si mette a cantare con noi.
A Pisa, sale sul treno anche Chiara, insieme a una ventina di nuovi passeggeri. Mi racconta cosa succederà una volta a Lourdes: hotel, visita alla grotta, escursioni programmate... e poi messa, Via Crucis, confessioni...
Mi sento fuori luogo e fuori tempo. Non mi confesso dalla cresima.
Quello che è successo alla stazione di Roma mi ha colpito e continuo a pensarci: perché non ricordavo Giorgio? E perché ho istintivamente sovrapposto il mio passato con lui alla mia situazione sentimentale di oggi, come fossero due fogli con in mezzo la carta carbone? Comincio a sentire il bisogno di parlarne con qualcuno, forse abituata alle mie sedute dall’analista, non so.
Dopo il primo rosario, diffuso in tutto il treno da piccole casse bombardate di crepitii e scariche elettriche – in un altro momento sarei impazzita per quel rumore così fastidioso –, vedo il fratello di Chiara seduto in disparte. Mi sembra un ragazzo di cui posso fidarmi, così colgo l’occasione per raggiungerlo e parlare un po’ con lui.
Gli confesso lo stupore che ho provato per aver rimosso dalla mia memoria quel nome pronunciato da Marta alla stazione. Frate Antonio ascolta il mio racconto con un’attenzione ammirevole, senza giudicare. Mi piace parlare con lui: risponde ai dubbi che cominciano ad attraversarmi la testa in modo molto chiaro e sicuro.
Si mostra dolce e disponibile anche quando gli racconto delle due storie d’amore parallele che sto vivendo attualmente. La prima con un vecchio amico, da sempre innamorato di me: lui riesce a darmi una serenità tale da farmi desiderare che divenga il padre del figlio che non ho. L’altra con un uomo che mi piace molto: lo frequento da sei mesi ma solo da poco mi ha confessato di avere una famiglia. Nonostante questa rivelazione, non sono riuscita a chiudere con lui; a volte ci ho provato, però sono stata troppo debole per farlo sul serio.
Dopo una messa celebrata nella carrozza di servizio su un altare ornato di carta crespa rossa, una tovaglietta bianca e due vasetti di fiori di plastica, le volontarie iniziano a distribuire la cena ai malati. Il cibo è precotto, ma nessuno presta molta attenzione alla qualità. Anzi, le pietanze sembrano avere anche un buon sapore, che forse deriva dalla convivialità della situazione.
Tengo la chitarra a tracolla. Riesco appena a finire di mangiare e a bere un bicchiere di vino rosso scadente che già mi viene voglia di suonare e cantare insieme agli altri ragazzi e ai malati.
Tutti sorridono. L’atmosfera è allegra e molti sembrano avere davvero gli occhi colmi di speranza. Mi chiedo come possano immaginare di essere salvati da una preghiera, da un bagno in una piscina o da una visita in una grotta. Poco dopo penso però a quanto sia superficiale il mio punto di vista. Questo viaggio mi insegnerà che i pellegrini, i malati soprattutto, non affrontano il percorso per guarire, ma per ringraziare. Chiedono soltanto di non perdere la fede, loro unica grande forza, ed è grazie alla fede che riescono ad amare quello che sono, in qualsiasi condizione di salute. Hanno imparato ad accettare la propria sorte con umiltà: vanno a Lourdes per la guarigione dell’anima, non per quella del corpo.
La notte trascorre tranquilla, più veloce di quanto avessi immaginato.
Dopo il rosario delle sei, recitato all’altezza di Marsiglia, viene diffuso un brano della Messa di Requiem di Giuseppe Verdi, presto interrotto per far posto all’ennesima Ave Maria.
A Tolosa il treno sosta per circa mezz’ora, sotto una lunga tettoia di zinco ondulato. Quando mi affaccio al finestrino, vedo i Pirenei. Poco dopo, finalmente arriviamo: file di pullman che conducono agli alberghi e agli ospedali ci aspettano fuori dalla stazione. Bienvenue à Lourdes.
Chiara aiuta le Dame della Carità a spingere le carrozzelle che accolgono i malati. Sembrano tutte amiche, graziose e impeccabili nelle loro divise stirate alla perfezione, nonostante le ventiquattr’ore di viaggio. Io e Marta aiutiamo un gruppetto di signore anziane a portare i bagagli fino al piazzale della stazione.
Il sole è alto, l’aria calda. L’occhio destro mi fa male per la stanchezza, come se ci fossero tante piccole spine conficcate dentro. Metto due gocce di collirio, infilo gli occhiali da sole e mi dirigo verso l’hotel Royal insieme al resto del gruppo.
Le pareti della hall sono rivestite da una sorta di boiserie in fòrmica. I divani marrone sono sbiaditi e spelacchiati; i ripiani di cristallo dei tavolini, opachi. Questo hotel deve essere uguale a com’era negli anni Settanta. Il pavimento della camera che divido con Chiara è ricoperto di moquette grigia e i copriletto sono a righe di una tonalità indefinita. Un arredamento in sintonia con quei passanti che, giunti all’altezza dell’ingresso dell’albergo, imprecano e filano dritto.
Decidiamo di non stenderci a letto per non rischiare di cadere in un sonno profondo. Una doccia veloce e, dopo un’ora, siamo di nuovo fuori. Le viuzze si inerpicano in salite ripide che lasciano poi posto a discese improvvise. Attraversiamo boulevard Rémi Sempé, zeppo di negozietti di souvenir e articoli religiosi, e imbocchiamo la stradina pedonale che porta al santuario.
Siamo circondate da una massa brulicante di pellegrini e da un instancabile brusio in cui distinguo almeno dieci lingue diverse. Molti portano un cero con un fiocco azzurro, ma non do molto peso a questi aspetti perché sono concentrata sulle emozioni che il viaggio e i ricordi del passato cominciano a suscitare dentro di me.
Il santuario è alla nostra sinistra, imponente, ma preferiamo non fermarci e andare subito verso la grotta. Attraversiamo la grande esplanade, punteggiata di volontari con ombrellini alzati a mo’ di guida turistica, e costeggiamo il muro esterno fino alle fontanelle.
Tantissime persone munite di bottiglie, bottigliette e bottiglioni si accalcano le une sulle altre, ma io e Chiara restiamo pazienti in attesa del nostro turno per bere un sorso d’acqua. Man mano che ci avviciniamo alla grotta, le voci si abbassano fino a scomparire in un silenzio irreale che mi conforta. Nello spiazzo antistante, noto un semicerchio transennato e sorvegliato da alcuni anziani barellieri. Molti fedeli sono seduti sulle panche, altri pregano in piedi o in ginocchio.
All’interno della grotta, una processione continua sfila da sinistra verso destra. Alcuni pellegrini sfiorano la roccia umida, altri la baciano, altri ancora fanno cadere in una grande urna trasparente bigliettini con intenzioni di preghiera in favore dei malati. Tutti si fanno il segno della croce e si fermano davanti a un enorme candelabro in ferro battuto che raccoglie i ceri accesi dai fedeli.
Quando stiamo per dirigerci verso gli archi della rampa monumentale, parte del gruppo – anche Chiara – si ferma a salutare una donna con la divisa dell’Ordine dei Cavalieri di Malta, che accompagna un ragazzo completamente paralizzato sulla sedia a rotelle.
Mi fermo anche io e riconosco Marina Salamon, una famosa imprenditrice che ho sempre ammirato molto: è una donna pragmatica, determinata e al tempo stesso dolcissima, mamma di quattro figli che ha cresciuto praticamente da sola. All’inizio mi stupisco nel vederla qui, soprattutto vestita in quel modo ma, quando la vedo sorridermi, mi rendo conto che l’unica domanda che devo farle è: «Dov’è la logica in questo posto? Come può una persona con i piedi ben piantati per terra fare queste cose? È normale?».
Il suo sorriso si fa ancora più grande e affettuoso. «Sì, è normale» mi risponde. «Vediamoci e, se ti fa piacere, facciamo quattro chiacchiere uno di questi giorni...»
Da piccola andavo dalle suore. A casa mi divertivo a recitare la messa a memoria, ma della cerimonia era solo l’aspetto teatrale a colpirmi. È un dettaglio che mi torna in mente, mentre mi preparo per andare a dormire questa prima sera a Lourdes.
Sono nella stanza, finalmente sola. Chiara, insieme agli altri, è andata a seguire una qualche funzione notturna o una processione con le candele in mano.
Presto sprofondo in un dormiveglia in cui rivivo gli avvenimenti della giornata. Corpi malati, sorrisi, preghiere e ceri votivi. Sogno il volto di Giorgio che si sovrappone a quello di chissà chi altro...
La sveglia di Chiara suona alle sei per permetterle di raggiungere i malati accolti nell’ospedale in tempo per la colazione delle sette. Io invece rimango a letto ancora un po’. Dopo un’abbondante razione di caffè, incontro Marta e, insieme, raggiungiamo Chiara all’ospedale.
Mentre la aspettiamo nell’atrio – io sono una pellegrina semplice, quindi non posso aiutare i malati, se non spingendo qualche carrozzina –, veniamo avvicinate da una famigliola sarda dall’aria allegra. Ci raccontano che hanno compiuto molti pellegrinaggi, un metodo per viaggiare con le nonne e il figlio costretti sulla sedia a rotelle. Anche per loro questa è la prima volta a Lourdes. Mi dicono di trovarla un po’ troppo turistica e che finora il loro viaggio preferito rimane quello in Vaticano.
«È il più culturale» mi dicono...