Nazisti in fuga
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Nazisti in fuga

Intrighi spionistici, tesori nascosti, vendette e tradimenti all'ombra dell'Olocausto

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  1. 192 pagine
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Nazisti in fuga

Intrighi spionistici, tesori nascosti, vendette e tradimenti all'ombra dell'Olocausto

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Com'è stato possibile che tanti criminali nazisti siano fuggiti dall'Europa dopo la seconda guerra mondiale? La loro scomparsa ha alimentato le ipotesi più fantasiose, a partire dall'idea che lo stesso Hitler fosse scappato con un sommergibile rifugiandosi in Patagonia. Arrigo Petacco ricostruisce le reali vicende di questi terribili aguzzini attraverso un racconto ricco di sorprendenti e poco noti retroscena. La loro fuga, pianificata fin dalle ultime fasi del conflitto, fu favorita dalla guerra fredda che indusse le potenze occidentali a chiudere in fretta i conti con il passato. In un groviglio di inconfessabili interessi che coinvolgeva la Cia e il Vaticano, ebbero un ruolo centrale alti prelati come il «vescovo nero», l'austriaco Alois Hudal, già uomo di fiducia del Führer. Grazie a queste protezioni e a un'efficiente organizzazione clandestina denominata «Odessa», numerosi scherani del Reich, mimetizzati in un improbabile saio francescano, imboccarono un tortuoso percorso attraverso l'Italia, detto Ratline, «via dei topi», o «via dei monasteri» perché ricevevano asilo nei conventi, per raggiungere Genova. Da lì, provvisti dalla Caritas di passaporti rilasciati dalla Croce Rossa, potevano agevolmente imbarcarsi verso destinazioni lontane. Molti trovarono ospitalità in Sudamerica, in particolare nella compiacente Argentina di Perón, ma anche i Paesi arabi, come la Siria, nel segno del comune odio antiebraico aprirono le porte ai macellai del nazismo. Oltre a parlare dei criminali più famosi, come Adolf Eichmann e Josef Mengele, l'«Angelo della Morte» di Auschwitz, autore di abominevoli esperimenti sui gemelli, Petacco si pone sulle tracce di personaggi solo apparentemente «minori», in realtà responsabili dello sterminio di centinaia di migliaia di persone, che godettero di lunga impunità in terra straniera, come Alois Brunner, un nazista «mezzosangue», implacabile nei rastrellamenti, che presentò con subdolo cinismo alla stampa e all'opinione pubblica il campo di Theresienstadt come un villaggio modello abitato da ebrei «felici», o Franz Stangl, il comandante di Treblinka che camuffò il lager da stazione ferroviaria con tanto di biglietteria, sala d'aspetto, bagno, accogliendo con il sorriso sulle labbra i deportati che mandava alle camere a gas. Fra intrighi spionistici, ricatti, tradimenti, catture romanzesche, viavai di navi e sommergibili carichi di fuggiaschi e di tesori trafugati, il cosiddetto Nazi Gold, Petacco rievoca in tutta la loro portata gli orrori della Shoah mettendo al tempo stesso in guardia dai fantasmi sempre incombenti dell'antisemitismo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852057175
Argomento
History
Categoria
World History

VI

LA CACCIA AL «NAZI GOLD»

Nell’immediato dopoguerra si registrò in Italia uno sconcertante afflusso di turisti tedeschi che non sembravano affatto interessati ai nostri panorami o alle bellezze artistiche di cui è ricco il nostro paese. Zaino in spalla, abbigliati da globe-trotter, come allora si usava dire, questi strani visitatori preferivano spingersi in bicicletta o con l’autostop in località devastate dagli avvenimenti bellici che non vantavano alcun richiamo paesaggistico. Che cosa andavano cercando questi turisti dal cui zaino sbucava il manico di una zappa o di una paletta?
Cercavano il Nazi Gold. L’oro dei nazisti e i presunti tesori che i tedeschi avevano nascosto nei giorni cruciali della ritirata e che ora qualcuno sperava di ricuperare. Non è infatti un mistero che durante gli anni dell’occupazione i tedeschi rapinarono il nostro paese con teutonica efficienza. Rapinavano i comandanti e rapinavano i semplici soldati, ma non tutti riuscirono a portarsi a casa il bottino: qualcuno era stato costretto a sotterrarlo sperando di ricuperarlo in tempi più favorevoli, mentre altri, più autorevoli e meglio organizzati, avevano provveduto a occultare il vero Nazi Gold nelle banche disponibili o in nascondigli più sicuri, percorrendo vari itinerari, complessi e misteriosi, che non era facile individuare.
Come abbiamo visto, quando la guerra volgeva alla fine e la certezza nell’«immancabile» vittoria aveva cominciato a scricchiolare pericolosamente, i gerarchi nazisti più accorti avevano provveduto a mettere al sicuro i loro patrimoni, ma non solo per assicurarsi un agiato futuro, altri, i più fanatici, si erano anche preoccupati di predisporre i fondi necessari per l’«immancabile» riscossa. Himmler, per esempio, aveva fatto trasferire all’estero, in Svizzera, in Spagna e in Argentina, enormi riserve finanziarie che avrebbero dovuto essere utilizzate per la rinascita del nazismo... E non solo: aveva anche organizzato l’«Operazione Uova del drago», che consisteva nella costruzione di cave sotterranee per nascondervi i mezzi necessari, appunto, per la riscossa, che lui riteneva ovviamente immancabile. Queste cave erano chiamate in codice «caverne di Alì Babà», mentre le «uova del drago» erano i fondi necessari che, nei fanatici deliri di Himmler, avrebbero dovuto consentire la rinascita... del Quarto Reich.
Gli altri «tesori», quelli, per così dire, personali di quel generale o di quel sergente, che non rientravano nel programma di Himmler, erano stati invece occultati un po’ dove capitava quando le colonne tedesche avevano iniziato la ritirata verso il Nord. In quei giorni, d’altronde, le banche non erano più disponibili e le valigie erano ingombranti e pericolose perché un soldato in ritirata non se le poteva portare dietro senza destare sospetti. Cosicché erano stati utilizzati soltanto gli zaini capienti che ogni soldato aveva con sé. Molti di questi zaini, furono sotterrati un po’ dovunque, ma in particolare di qua e di là dal Brennero, dove alcuni di essi forse giacciono ancora perché il proprietario non ce l’ha fatta a ricuperarli o i «cacciatori» non sono riusciti a scovarli.
Ma il mitico Nazi Gold non era stato disseminato «a pioggia» nelle vallate alpine, bensì sistemato, come si è detto, nei caveau delle banche oppure nelle «caverne di Alì Babà» precedentemente predisposte. Alcuni di questi «tesori» furono in seguito ricuperati dai servizi segreti, ma soprattutto da «Odessa», l’organizzazione segreta che aiutava i nazisti in fuga, di altri si sono perdute le tracce e sulla loro sorte si è favoleggiato a lungo nel dopoguerra.
La caccia al Nazi Gold ha infatti suggerito molti libri di fantastoria, tanti film avvincenti e tante leggende, ma ha anche provocato delle clamorose truffe internazionali e misteriosi delitti. Oggi, nel polverone che si è sollevato attorno questi eventi, è difficile separare il grano dal loglio, tuttavia su alcuni di tali «tesori» scomparsi esistono delle prove concrete della loro esistenza, anche se permane il mistero sulla loro sorte. Come, per esempio, «il tesoro di Rommel»...
Pure il maresciallo Erwin Rommel ha infatti nascosto un tesoro, anche se va detto subito che la «Volpe del deserto» non aveva intenzione di occultarlo per motivi personali o politici: intendeva semplicemente trasferirlo in Germania come gli era stato ordinato dopo la sfortunata conclusione della sua campagna nell’Africa Settentrionale. Questo tesoro però non arrivò mai a destinazione: finì probabilmente in fondo al mare dopo una complessa operazione che ha effettivamente delle tinte romanzesche.
Erwin Rommel era giunto in Libia nella primavera del 1941 al comando dell’Afrika Korps, in aiuto degli alleati italiani che erano stati travolti dalla controffensiva britannica del dicembre 1940 che aveva consentito agli inglesi di giungere alle porte di Bengasi. Bloccata l’avanzata nemica e riconquistata Tobruk, Rommel si era poi spinto audacemente verso Suez con uno slancio che sembrava irresistibile, ma che invece si era esaurito a El Alamein, pochi chilometri prima di Alessandria, alla fine di ottobre del ’42. Era stata una dura sconfitta per le forze dell’Asse e avrebbe deciso le sorti della guerra. Dopo di allora, aveva avuto inizio una lunga ritirata che, aggravata dallo sbarco degli americani in Algeria, aveva stretto le forze di Rommel in una morsa fatale. Nel gennaio 1943, il «Gruppo d’Armate Africa» (che comprendeva 250.000 soldati fra italiani e tedeschi) si ritrovò intrappolato in Tunisia. La capitolazione era prossima e Rommel, prudentemente, il 9 marzo 1943, lasciò il comando e rientrò in patria.
Prima di partire, la «Volpe» sconfitta aveva però predisposto l’inoltro in Germania delle ricchezze razziate nel Nordafrica dalle SS che, com’era consuetudine, provvedevano a saccheggiare le retrovie. Questi «predatori» erano comandati dal colonnello SS Walter Rauff, il quale aveva raccolto un bottino che, secondo gli inventari compilati dai razziatori, consisteva in sei casse contenenti oro, monete, gioielli e alcune tele di pittori contemporanei come Picasso e Chagall.
Queste casse erano state spedite via mare verso l’Italia poco prima del 9 maggio ’43, quando le forze dell’Asse in Africa erano state costrette alla resa. L’itinerario previsto per il prezioso carico era il seguente: sosta a Palermo quindi, sempre via mare, sbarco alla Spezia dove il «tesoro» doveva essere poi trasferito per ferrovia nel Reich.
Questa complicata vicenda di trasbordi marittimi si svolse a cavallo del 25 luglio 1943, quando la famosa seduta del Gran Consiglio provocò la caduta di Mussolini e la fine del regime fascista. Tale evento interruppe il trasferimento nel Reich del «tesoro» che rimase invece depositato nel porto spezzino. Nel frattempo, l’arresto di Mussolini e l’avvento del governo Badoglio avevano convinto Hitler che l’Italia era ormai sul punto di «tradire» spingendolo quindi a dare il via all’«Operazione Alarico», che prevedeva l’occupazione dell’Italia del Nord da parte delle forze di Rommel, che si trovava alla Spezia, e dell’Italia del Sud da parte delle forze del maresciallo Albert Kesselring che stava a Frascati.
L’«Operazione Alarico» ricadeva quindi sotto la responsabilità dei due marescialli, peraltro divisi da profondi dissidi sorti durante la campagna di Libia. Il peso operativo dell’«invasione strisciante», o «in punta di piedi» come la definivano i tedeschi, ricadeva sulla 26a Panzerdivision di Rommel, mentre Kesselring doveva preoccuparsi degli Alleati che avevano già conquistato la Sicilia.
In quel momento (siamo alla vigilia dell’8 settembre), Rommel già si apprestava a impadronirsi della squadra navale italiana che si trovava al completo nel golfo della Spezia ed essendo impegnato in questa situazione ingarbugliata, fra italiani e tedeschi che si accingevano a tradirsi a vicenda, aveva incaricato il capitano Hans Dahl di procedere al trasferimento ferroviario nel Reich del prezioso carico che ancora giaceva in quel porto. Per ragioni ignote, Dahl era stato però affiancato da tre ufficiali delle SS, la cui presenza è una prova dell’interessamento diretto nella vicenda da parte del Reichsführer Heinrich Himmler. Le casse, comunque, erano ancora alla Spezia quando, la sera dell’8 settembre, fu annunciato l’armistizio, ma all’alba del giorno dopo, quando Rommel si precipitò nel golfo spezzino per impadronirsi della squadra navale italiana, lo trovò completamente vuoto. L’ammiraglio Carlo Bergamini, comandante della flotta, aveva già salpato le ancore lasciando l’ex «Volpe del deserto» con un palmo di naso.
Frattanto, il giorno prima, in coincidenza con l’annuncio dell’armistizio, mentre i tedeschi davano inizio all’«Operazione Alarico», gli Alleati erano sbarcati in forze a Salerno mettendo i tedeschi in serie difficoltà. Fu in questo frangente, che scoppiò il dissidio già latente fra Rommel e Kesselring. Il primo aveva convinto Hitler a rinunciare al resto della penisola e a fortificarsi dietro la Linea Gotica abbandonando il rivale al suo destino. Kesselring invece capovolse la situazione: mentre Rommel si lasciava sfuggire la squadra italiana, lui, di sua iniziativa, scatenò tutte le sue forze contro gli Alleati sbarcati a Salerno e per poco non li rigettò in mare. Comunque ritarderà la loro avanzata di oltre un anno.
Questo successo inatteso scosse la residua fiducia che Hitler ancora nutriva per l’ex «Volpe del deserto»: spedì infatti Rommel in Normandia, con un incarico subalterno, e nominò il maresciallo Kesselring comandante supremo delle forze tedesche in Italia.
Ma che cosa ne era stato del «tesoro» di cui Rommel non aveva certo avuto il tempo di occuparsi? L’unico punto fermo di questa vicenda è che, pochi giorni dopo l’8 settembre, il capitano Dahl e i tre ufficiali delle SS che lo «vigilavano», si presentarono al comando della Kriegsmarine della Spezia e chiesero che gli fossero messi a disposizione una motovedetta e un paio di palombari di loro fiducia (il tedesco Paul Schmidt e il cecoslovacco Peter Fleig) per una missione di cui non fornirono spiegazioni.
È a questo punto che ha inizio il mistero del tesoro di Rommel. Il 18 settembre 1943, dal porto di La Spezia prende il largo la motovedetta B34 con a bordo il capitano Dahl, i suoi tre «angeli custodi», i due palombari e ovviamente, le sei casse opportunamente stagnate. La destinazione è segreta. Solo in seguito sapremo che è la Corsica.
Raggiunta Bastia, tutto è dunque pronto per la fase finale. La motovedetta lascia il porto nella serata del 21 settembre e raggiunge un fondale dove, a una a una, le casse vengono calate in mare e i palombari provvedono ad ancorarle saldamente alla roccia per impedire che le correnti sottomarine possano spostarle. Poi il luogo viene contrassegnato con una serie di boe sottomarine mentre il capitano Dahl registra la posizione.
Terminata l’operazione, le SS sequestrano la carta nautica su cui sono indicate le coordinate di riferimento, ma Peter Fleig, il palombaro cecoslovacco, incide di nascosto, con il suo pugnale da sub, la latitudine e la longitudine approssimative del fondale all’interno del suo casco. Evidentemente non è un ingenuo...
La mattina del 22 settembre, la motovedetta è di ritorno alla Spezia, dove però la misteriosa «crociera» deve avere sollevato qualche sospetto perché ad attenderla ci sono altre SS che arrestano tutti i «croceristi».
Nessuno è mai riuscito a stabilire con esattezza se i componenti dell’equipaggio sono stati arrestati per tacitare imbarazzanti testimonianze o perché avevano disobbedito agli ordini di Himmler. D’altronde, sul finire della guerra in Germania c’era un tale magma di iniziative personali, di faide tra gerarchi, di complotti e di operazioni sotterranee, che si può avanzare qualsiasi ipotesi. Un solo fatto è certo: i quattro ufficiali sono stati condannati a morte al termine di un processo che si è svolto davanti al tribunale delle SS di Carrara, il 13 novembre 1943. La sentenza è stata eseguita il giorno dopo. I due palombari sono invece sfuggiti al plotone d’esecuzione, ma sono stati trasferiti con un battaglione di disciplina sul fronte russo, mentre la carta nautica compilata dal capitano Dahl è scomparsa.
Sul fronte russo, il palombaro tedesco Schmidt muore in combattimento, Fleig invece cade prigioniero e comincia per lui una lunga odissea nei campi di concentramento siberiani che si concluderà con la sua liberazione nel 1947.
Fleig è l’unico superstite del gruppo che quattro anni prima ha calato il «tesoro di Rommel» sul fondale al largo di Bastia. Il suo scafandro da palombaro sarà finito in qualche deposito di surplus bellici e il prezioso casco forse è stato venduto come ferrovecchio. I dati più o meno esatti della latitudine e longitudine, dunque, sono perduti per sempre, ma Fleig ha un ricordo approssimativo abbastanza chiaro del nascondiglio ed è convinto che valga comunque la pena di fare un tentativo.
Il 1948 è l’anno del colpo di Stato comunista di Praga che fa cadere la cortina di ferro anche sulla Cecoslovacchia, ma Fleig riesce a rifugiarsi in tempo nella Germania Occidentale e nel 1949 si stabilisce a Stoccarda, dove comincia a fare progetti per il ricupero di quello che ormai considera il «suo» tesoro.
La Germania Federale è però ancora sottoposta all’amministrazione militare alleata i cui servizi segreti potrebbero essere messi in allerta dai maneggi dell’ex palombaro della Kriegsmarine. Messo alle strette, Fleig prende una decisione audace: invece di defilarsi cerca di mettersi d’accordo con i servizi segreti di una delle potenze di occupazione. La sua scelta cade sulla Francia nella speranza che, essendo la più debole fra i vincitori, possa rivelarsi disposta a praticare condizioni meno leonine. E poi il tesoro non giace forse in acque territoriali francesi?
Le trattative vanno in porto con un accordo che a Fleig sembra vantaggioso: i servizi francesi sosterranno il costo della spedizione e riconosceranno all’ex palombaro il 30 per cento del provento. Cominciano i preparativi e Fleig viene condotto a Bastia insieme alla motobarca con l’attrezzatura per ricuperi subacquei. Al momento della partenza, però, l’ex palombaro sente puzza di bruciato: qualcosa gli fa capire che i suoi «soci» una volta messe le mani sul tesoro non hanno alcuna intenzione di onorare il loro impegno. Così, d’istinto depista la spedizione verso un altro fondale dove, naturalmente, le ricerche non danno alcun frutto. A questo punto, la situazione si invelenisce e Fleig decide di ritirarsi dalla combinazione, ma commette l’errore di portarsi via alcune attrezzature come compenso per il suo disturbo. Arrestato e condannato per furto, finisce nelle carceri di Bastia, dove viene avvicinato da un emissario della malavita corsa, messa sull’avviso da quell’andirivieni subacqueo e decisa ad accaparrarsi l’«affare». Fleig ha capito che sta per cadere dalla padella nella brace e pensa di giocare d’astuzia dichiarandosi pronto a collaborare, ma cercando al tempo stesso di far capire che l’ubicazione esatta del famoso fondale è ignota anche a lui e che il rischio di fare un buco nell’acqua dopo aver buttato via molto denaro non può assolutamente essere scartato. Questo atteggiamento, conservato stoicamente anche sotto ripetuti trattamenti di «terzo grado», finisce per rivelarsi vincente: e Peter Fleig può lasciare la Corsica, un po’ acciaccato ma ancora vivo e vegeto.
La lezione è stata dura, ma Fleig non molla e agli inizi degli anni Cinquanta fa la sua comparsa sul litorale toscano fra Livorno e Viareggio. Evidentemente Bastia è ormai out of bound, ma l’ex palombaro non dispera e riesce a trovare una ditta di ricuperi sottomarini disposta a effettuare l’operazione in società con lui. Alla fine, Fleig sbarca nell’isola di Capraia, a poca distanza dalla costa corsa ma quando l’ora X sembra ormai imminente, all’improvviso l’ex palombaro scompare. Secondo alcuni, l’ha raggiunto la vendetta della mafia corsa che non gli perdona di averla presa in giro. Secondo altri ha semplicemente rimandato l’operazione di ricupero a causa di difficoltà tecniche e si è nuovamente messo alla ricerca di un socio. Certo è che negli anni successivi si notò un gran traffico lungo la costa di Bastia, con episodi misteriosi. Il primo a entrare in scena nel 1954 è un avvocato, Carlo Cancellieri, che fa la sua apparizione a bordo di uno yacht da diporto. Ma è subito chiaro che l’obbiettivo del suo viaggio non è il turismo, lo dimostra la presenza a bordo di alcuni «amici» che sembrano piuttosto sub di professione che vacanzieri. Ed è proprio uno di questi che, una sera, si abbandona a bizzarre vanterie in un bar di Livorno, accennando alla ricchezza che l’aspetta «se tutta questa faccenda finisce bene». Ma non finisce bene, perché il mattino dopo lo yacht dell’avvocato Cancellieri viene «accidentalmente» speronato da un peschereccio. Probabilmente è un avvertimento della mafia corsa che, se non può ricuperare il tesoro, non è disposta a permettere che qualcun altro ci provi.
Passa un altro anno e il caso è riaperto dalla misteriosa morte di André Mattei, un sommozzatore francese che si era accampato sulla spiaggia di Bastia per fare delle immersioni nei fondali dinnanzi la foce del fiume Golo. Mattei è stato trovato ucciso da nove proiettili, ma ha ancora l’orologio d’oro al polso e il portafogli intatto. La versione ufficiale è che probabilmente è stato ucciso dai contrabbandieri perché ha scoperto dove nascondevano la loro merce, ma altre voci chiamano di nuovo in causa il «tesoro di Rommel».
Infine, sempre nel 1955 arriva Edwin Link con il suo Sea Diver. Link, che è uno dei più famosi cercatori di tesori sottomarini e possiede un battello carico di attrezzature per scandagliare i fondali, gioca allo scoperto. Infatti comincia a setacciare la zona, mentre sinistri pescherecci incrociano lentamente nelle vicinanze senza gettare in acqua neanche una rete e a Bastia prende a circolare la voce che, nascosto a bordo del Sea Diver, c’è anche Peter Fleig. Poi a Link viene recapitato un biglietto che dice: «Lascia perdere. Ci sono già stati dei morti. Non allungare la lista. Questo vale anche per Peter». E il Sea Diver il giorno dopo leva l’ancora...
Il tesoro di Rommel sarà ancora laggiù? La confraternita dei cercatori di tesori è convinta di sì. Solo qualcuno si chiede se non sia possibile che la famosa mappa del capitano Dahl sia in realtà finita nelle mani di Himmler e che il «tesoro» sia stato in realtà già ricuperato nel lontano 1943 e magari nascosto in una «caverna di Alì Babà».
Anche il feldmarescial...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Nazisti in fuga
  3. I. Semita o sovversivo?
  4. II. Le radici del razzismo
  5. III. Il film degli orrori
  6. IV. La piovra nazista
  7. V. La grande fuga
  8. VI. La caccia al «Nazi Gold»
  9. VII. In villeggiatura sulle Ande
  10. VIII. «Operazione Odessa»
  11. IX. «L’Angelo della morte»
  12. X. Il contabile dell’Olocausto
  13. XI. Ma sarà sempre più difficile crederci...
  14. XII. Ebrei contro
  15. XIII. Cane non morde cane
  16. XIV. Nessuno ha chiesto perdono
  17. XV. L’unico pentito
  18. XVI. Occhio per occhio
  19. Copyright