L'ultimo viaggio dell'imperatore
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L'ultimo viaggio dell'imperatore

Napoleone tra Waterloo e Sant'Elena

,
  1. 360 pagine
  2. Italian
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L'ultimo viaggio dell'imperatore

Napoleone tra Waterloo e Sant'Elena

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Napoleone, disastrosamente sconfitto a Waterloo nel 1815, abdica per la seconda volta e viene esiliato a Sant'Elena, dove morirà nel 1821: questo si legge nei libri di storia. Ma cosa accadde in quei turbinosi momenti tra Waterloo e Sant'Elena? Come trascorse Bonaparte le sue ultime ore da imperatore? Come raggiunse l'oceano e perché si trovò confinato su una sperduta isola inglese, ai confini del mondo? Alberto Cavanna ricostruisce, con stile narrativo e coinvolgente ma sempre basandosi su documenti e testimonianze d'epoca, i quattro mesi più drammatici della vita dell'uomo allora più potente d'Europa. Ecco succedersi il ritorno a Parigi dopo la sconfitta del 18 giugno 1815; la partenza verso il golfo di Biscaglia, dove spera di imbarcarsi per l'America, desideroso di vivere da privato cittadino, insieme ai suoi fedeli servitori accompagnati da mogli e figli, e a ciò che riesce a trasportare dei propri beni; l'arrivo a Rochefort e la difficile decisione di presentarsi al capitano Maitland dell'Hms Bellerophon ponendosi sotto la protezione delle leggi inglesi; l'attesa, a Plymouth, di una risposta dal principe reggente alla richiesta di asilo (che non arriverà mai) e la delusione del verdetto: il «generale Buonaparte», così sarà chiamato d'ora in poi, dovrà essere deportato come semplice prigioniero di guerra a Sant'Elena. E, poi, il lungo viaggio a bordo dell'Hms Northumberland: novantatré giorni di navigazione, fino al 15 ottobre 1815, in un contesto claustrofobico, umiliante e deprimente, degna anticipazione del lento declino dei piovosi tramonti a Longwood House sull'isola delle nebbie, in una realtà quotidiana vissuta in spazi ristretti, segnata da false speranze, tristezza, rabbia, malinconia. «Napoleone, preso atto della sua sconfitta e prigionia in un presente irrazionale, si pietrifica per il futuro e la Storia nell'immagine ieratica e impenetrabile dell'imperatore... Ciò che gli resta da fare è allora soltanto lavorare sulla sua immagine del passato, traghettandola verso il futuro, cercando di fornire gli elementi a suo favore sul giudizio che verrà dato di lui una volta che l'imparzialità della Storia prenderà il posto delle passioni della politica.» Sarà proprio durante questa lenta crociera, infatti, che incomincerà a dettare le sue Memorie. Il racconto avvincente della fine di uno dei più grandi personaggi dell'epoca moderna: un Napoleone assolutamente inedito, sorpreso nella sua più intima essenza, nella solitudine di una piccola cabina, verso un'isola sperduta in un mare grigio.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852055799
Argomento
Storia

Parte prima

DA WATERLOO AL «BELLEROPHON»

I

IL RIENTRO A PARIGI

Waterloo… 1815, domenica 18 giugno: disfatta dell’esercito imperiale francese.
Cosa pensasse Napoleone di quella giornata, lo scrive nel 1909 Philippe Gonnard: «Questa campagna sembrava aver stregato la mente di Napoleone a Sant’Elena. Non riusciva ad accettare le ragioni della sua sconfitta, dunque continuava a tornare sul medesimo argomento».1
In realtà, l’ex imperatore a quella spina nel fianco è tornato già prima di Sant’Elena, scrivendone con Emmanuel de Las Cases, che lo ha seguito nell’esilio, nella piccola e soffocante cabina a bordo del Northumberland. Ha iniziato precisamente a partire dal 6 ottobre 1815, dopo due mesi di navigazione, e, come riporta ancora Gonnard: «per tre anni continuò a lavorare a una prima versione, che Gourgaud portò con sé e pubblicò in Europa. Napoleone ne fece poi una nuova stesura che fu pubblicata da O’Meara». Ma non sarà l’ultima: un’ulteriore memoria sarà dettata, più avanti negli anni, a Charles Tristan de Montholon, altro compagno di esilio.
Se all’inizio il suo scopo è quello di allontanare da sé tutte le responsabilità della disfatta, in seguito sarà sempre meno coinvolto emotivamente fino ad arrivare a una disamina abbastanza oggettiva dei fatti, senza però mai riconoscere gli errori da parte francese e soprattutto i propri (se non nella misura di quelli commessi dai suoi diretti subordinati, Michel Ney ed Emmanuel de Grouchy, ai suoi occhi unici responsabili del disastro).
Che la Campagne du Nord sarebbe stata un azzardo Napoleone era conscio ancor prima di intraprenderla, come del resto che il suo ritorno a Parigi dall’Elba sarebbe stato una battaglia quotidiana: all’esterno contro i nemici della Francia, all’interno contro le Camere e i deputati, l’alta borghesia e la nobiltà, e contro una serie di personaggi, da Joseph Fouché al marchese Gilbert de La Fayette, che a Sant’Elena più volte si rammaricherà di non aver fatto fucilare. Abituato a considerare le situazioni con distacco matematico, aveva messo in bilancio la possibilità di una sconfitta e, infatti, alla vigilia della campagna, sulle sue carrozze erano state caricate notevoli somme in banconote, preziosi e lingotti d’oro «fasciati in pezze di stoffa in involucri separati».2 Consapevolezza di una possibile sconfitta, ma non di un disastro di quella portata… Se Napoleone, tre mesi prima, era riuscito a tornare a Parigi dall’Elba era stato perché l’esercito, inviato a fermare la sua marcia su Parigi, si era invece schierato dalla sua parte; ma dopo Waterloo non c’era più un esercito: dunque il suo trono era vacillante, e lo era su un abisso.
L’imperatore, già capo indiscusso della nazione francese e di buona parte d’Europa per quindici anni, l’anno prima, il 14 aprile 1814, era stato costretto ad abdicare – dopo la disfatta di Lipsia dell’ottobre precedente e l’invasione della patria da parte degli Alleati della Sesta coalizione – e a prendere la via dell’esilio per l’Elba. Tuttavia, dopo un periodo di esitazioni e incertezze, e spinto anche dal mancato rispetto da parte dei Borboni degli accordi economici relativi all’abdicazione di Fontainebleau (che prevedevano una rendita nei fatti mai pagata), aveva deciso di rimettersi in gioco: il 1° marzo 1815 era sbarcato nuovamente in Francia con appena mille uomini per riprendersi il trono, cosa che gli era riuscita senza spargimento di sangue, con una rischiosa e brillante operazione che darà avvio ai famosi «Cento giorni».
Alla notizia che Napoleone era fuggito dall’Elba ed era sbarcato in Francia, il 13 marzo 1815 i plenipotenziari di otto nazioni, nel corso del Congresso di Vienna impegnato a ridare all’Europa un assetto che cancellasse le conseguenze della Rivoluzione francese e della politica imperiale, si erano espressi stilando questo documento:
Sebbene intimamente certi che la Francia intera, sotto la guida del suo legittimo sovrano, ignorerà quest’ultimo attentato da parte di un impotente e criminale delirio, i sovrani europei dichiarano che se, contro ogni aspettativa, da questo evento dovesse insorgere un qualsiasi pericolo, essi sono preparati a offrire al re di Francia e al popolo francese l’aiuto necessario per restaurare la tranquillità…
I poteri dichiarano che, rompendo gli accordi che lo hanno insediato all’isola d’Elba, Napoleone Bonaparte ha distrutto il solo titolo legittimo legato alla sua esistenza; che, ricomparendo nuovamente in Francia, si è posto al di fuori delle relazioni civili e sociali; e che, come un nemico e perturbatore della pace mondiale, si è reso perseguibile e condannabile.
Nell’opinione comune dei suoi avversari, Napoleone aveva lasciato dietro di sé un’interminabile scia di morti, tre milioni solo di francesi dirà La Fayette: una cifra che ai nostri occhi scompare di fronte alle ecatombi delle due guerre mondiali, ma notevole in un’epoca in cui non si conoscevano ancora le armi di distruzione di massa. In realtà è difficile, nel gioco di specchi delle responsabilità, cercare a chi addossare quella delle guerre combattute da Napoleone, anche perché i suoi nemici si erano sempre dimostrati abilissimi a gettargli addosso la maschera del mostro assetato di sangue, salvo poi spingere affinché fosse lui a compiere il primo passo verso l’ennesimo conflitto.
Dalle sue performance in altri campi – come l’amministrazione, la cultura, lo sviluppo delle industrie e delle scienze –, possiamo comunque evincere che per lui la perdita di vite umane era l’inevitabile e negativa conseguenza dell’applicazione della forza come strumento principe della politica: una logica che oggi può farci inorridire, ma in quel periodo era opinione comune (nulla comunque rispetto agli orrori dei totalitarismi del secolo scorso, quando la soppressione di esseri umani è assurta a sistematico strumento politico o a fine scientificamente perseguito).
In occasione del suo ritorno dall’Elba, però, l’imperatore non aveva sparato un colpo, né lo avevano fatto le truppe inviate dai Borboni: il 7 marzo, a Laffrey, vicino a Grenoble, si era trovato davanti, schierato, il 5° reggimento della fanteria di linea. Era allora avanzato da solo, scostando platealmente il pastrano per mostrare il petto ai fucili e aveva urlato: «Sono qui. Mi riconoscete. Se c’è un soldato che vuole uccidere il suo imperatore, spari! Questo è il momento». Ma nessuno aveva sparato e l’intero reggimento era passato dalla sua parte.
Il 18 marzo, a Auxerre, aveva incontrato il maresciallo Ney, fresco della promessa fatta al re di riportargli il Bonaparte in una gabbia di ferro, e anche Ney si era unito al suo vecchio padrone: al momento era quindi chiaro chi la stesse spuntando, sebbene circolasse la voce che il vecchio monarca si stava apprestando a difendere la capitale.
«La sola armata che poteva impiegare ora è mia» aveva commentato laconico Napoleone. «Sono sbarcato con novecento uomini e adesso ne ho trentamila… Sono sicuro riguardo a Parigi: Luigi XVIII è troppo furbo per aspettarmi alle Tuileries.» Infatti, nella notte del 19, il Borbone aveva lasciato la città per mettersi al sicuro in Belgio, a Gand, sotto la protezione inglese. Napoleone, che aveva saputo della fuga alle sette di mattina del 20, arrivò a palazzo in serata, portato a braccia dalla folla esultante.
Il suo primo valletto, Louis Joseph Marchand, lo aveva preceduto di qualche ora per preparargli l’alloggio e in seguito avrebbe scritto: «Alla Cour de France ho trovato le carrozze dell’imperatore, gli scudieri, la servitù. Nessun segno che un altro sovrano avesse abitato a palazzo: tutto il personale era al suo posto e sembrava solo che Sua maestà stesse tornando da un lungo viaggio».
Norwood Young, nel suo saggio pubblicato a cento anni esatti da quei giorni, scrive: «Fu un trionfo senza precedenti nella storia. Il rischio dell’impresa non era poi così imprevedibile. Era infatti cosa nota che soldati e contadini fossero pronti a una rivolta contro il regno reazionario di Luigi XVIII. Napoleone sapeva che il suo ritorno sarebbe stato ben accolto da una gran parte della nazione. Ma nonostante ciò il risultato fu sbalorditivo».3
Però la Francia che Napoleone aveva ritrovato era completamente diversa da quella che aveva lasciato e da quella che sperava di ritrovare. Egli null’altro era se non un despota, abituato a governare con un potere assoluto, e si trovò a dover fare parecchie concessioni costituzionali per accaparrarsi il favore delle Camere, da lui disprezzate, emanando il 22 aprile un Acte additionnel alla costituzione imperiale che limitava di molto il suo normale modo di operare, tanto che confessò al conte Louis-Mathieu Molé che, se avesse immaginato di dover concedere tali aperture ai democratici, non avrebbe mai lasciato l’Elba.4
Anche della situazione personale non era soddisfatto: nessuna delle lettere che aveva inviato a sua moglie Maria Luisa in Austria, chiedendo che si ricongiungesse a lui col figlio, aveva avuto risposta, così si ritrovava la sera a vagare nelle tristi stanze vuote del suo appartamento privato alle Tuileries. Era una situazione talmente deprimente che aveva preferito installarsi all’Élysée-Bourbon, meno carico di ricordi.
Continuò a lavorare freneticamente, cercando di convincere gli altri e se stesso che l’abdicazione fosse stata solo una parentesi e che il suo ritorno fosse definitivo, occupandosi anche di dettagli insignificanti, che però gli davano un senso di quotidianità, come racconta Marchand: «Una sera, mentre si ritirava, l’imperatore mi parlò dei quadri che voleva o aveva già ordinato su alcuni episodi della marcia verso Parigi: quando aveva fronteggiato il 5° reggimento di linea, quando un granatiere dell’Elba gli aveva presentato il novantenne padre cieco che voleva arruolarsi, e quando Charles de la Bédoyère gli aveva presentato le insegne con l’aquila del reggimento e lui le aveva afferrate e baciate».
Ma, per quanto tentasse di ritrovare una normalità che facesse dimenticare l’esilio elbano, riguardo alla politica estera a livello diplomatico non gli era rimasta in mano una sola carta da giocare. Il proclama emesso dai partecipanti al Congresso di Vienna il 13 marzo non lasciava speranze, e la diplomazia accreditata dall’imperatore per dare una legittimità internazionale al suo gesto, se non de iure perlomeno de facto, non aveva alcuna possibilità di successo.
Le potenze che l’anno prima lo avevano costretto all’abdicazione, e che erano sembrate sul punto di farsi la guerra tra loro, al riapparire del «predone d’Europa» si erano nuovamente coalizzate, allo scopo di battere non tanto la Francia quanto lui in persona. E l’imperatore, che non era un diplomatico bensì un soldato, sapeva bene che l’impasse nella quale si trovava avrebbe potuto essere superata solo usando di nuovo le baionette della sua Armée. La sua risposta alla Settima coalizione – i cui membri (Regno Unito, Russia, Prussia, Austria, Svezia, Paesi Bassi, Regno di Sardegna, Spagna, Portogallo e alcuni Stati tedeschi) il 25 marzo avevano dato al precedente pronunciamento un assetto militare e strategico mettendo in campo ottocentomila uomini – fu dunque ancora una volta quella che passava sul filo delle sciabole.
Napoleone sapeva che un esercito pur nominalmente inferiore (il suo contava solo duecentomila uomini), se unito e portato con rapidità e decisione sugli obiettivi, avrebbe potuto fare a pezzi i suoi avversari, come ai tempi gloriosi della prima Campagna d’Italia. In quest’ottica, il 15 giugno, con una mossa degna della sua migliore forma, aveva invaso fulmineamente il territorio dell’attuale Belgio, cogliendo di sorpresa i soli nemici pronti a quella data: gli anglo-olandesi, sotto il comando del duca di Wellington, e i prussiani, agli ordini del feldmaresciallo von Blücher.
Se Parigi e i francesi non erano più quelli di un tempo – il primo valletto Marchand annotò infatti: «Le parole di gente che incontrai mi sorpresero e presi atto con tristezza che non avevano fiducia come prima. … Mi dissi che se l’imperatore fosse emerso vittorioso dalla lotta che stava per iniziare, questa gente avrebbe cambiato musica» – anche il suo esercito era cambiato ed era, come afferma Henry Houssaye: «Impressionabile, pensieroso, senza disciplina, sospettoso dei suoi capi, agitato dalla paura del tradimento e forse suscettibile di panico ma comunque agguerrito e desideroso di guerra, assetato di vendetta, capace di sforzi eroici e slanci furiosi e soprattutto più focoso, più esaltato, più desideroso di combattere di ogni altra armata repubblicana o imperiale, questa era l’armata del 1815. Mai Napoleone aveva avuto nelle sue mani uno strumento di guerra così pericoloso e così fragile».5
La battaglia decisiva, necessaria a Bonaparte per tornare a godere della fiducia della nazione, prende avvio nella tarda mattinata del 18 giugno, ma le cose non vanno come pianificato e una serie di imprevisti si somma agli errori: le occasioni perdute dei giorni precedenti, il maltempo che rende il terreno impraticabile, Jérôme Bonaparte che fallisce l’attacco su Hougoumont, Ney che fa massacrare inutilmente la cavalleria, l’ala destra di Grouchy che non si presenta ma si perde a Wavre dietro ai prussiani (i quali dovevano essere intercettati e invece a sera piomberanno in massa sul campo decidendo le sorti dello scontro). Con l’ultimo, disperato assalto della vecchia guardia che viene sanguinosamente respinto, sono quasi le venti quando termina la battaglia e inizia il disastro di Waterloo.
La realtà nuda e cruda che si rivela sulle insanguinate pianure a Mont-Saint-Jean è che Napoleone ha perduto l’occasione decisiva e, quel che è peggio, nel modo più catastrofico: cioè restando senza un esercito; mentre i suoi nemici, ora riuniti come aveva cercato di evitare, hanno iniziato a tallonarlo per inseguirlo al di qua delle sue frontiere. Scrive ancora Young: «La Francia aveva dato a Napoleone la possibilità di riprendersi durante i Cento giorni, ma lui aveva fallito in tutti i sensi. … Non era riuscito a proteggere la Francia da un’invasione né era riuscito a dare ai francesi una ragionevole libertà. La sua carriera era terminata, definitivamente e in modo irrecuperabile. Napoleone, dopo Waterloo, è una forza ormai spenta».
In quale momento l’imperatore avrà preso atto della situazione? Definire l’ora precisa in cui Napoleone intuisce l’entità della disfatta, e dunque della sua difficile posizione di «fuorilegge da perseguire e condannare», è importante non solo per capire il momento esatto in cui effettivamente vede a rischio la propria carriera politica, ma anche per comprendere in quale direzione si indirizzino i suoi pensieri e come impieghi le sue ultime energie nel tentativo di reagire.
Da parte francese si fa epicamente riferimento al momento in cui egli avanza verso la linea del fuoco per mettersi alla testa di un distaccamento della vecchia guardia, con l’evidente intento di cercare la morte in battaglia. I suoi lo fermano: «No, Sire!» avrebbe detto il maresciallo Soult. «Il nemico è già troppo felice!»6 e i suoi uomini lo avrebbero costretto alla fuga, intorno alle ore venti.
Da parte inglese, invece, una delle testimonianze cita: «Quando Wellington vide che l’esercito francese era in rotta e in piena ritirata, Napoleone a quel punto era ormai un fuggiasco e si può considerare la sua carriera politica e militare terminata in quel preciso momento».7 Si tratterebbe, in tal caso, di una mezzora più tardi, e cioè subito dopo l’apice della battaglia, verso le venti e trenta.
In realtà, Napoleone si sarebbe reso conto della gravità della sconfitta non sul campo di battaglia bensì nel corso della fuga, parecchie ore dopo, almeno d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. L'ultimo viaggio dell'imperatore
  3. Parte prima - DA WATERLOO AL «BELLEROPHON»
  4. Parte seconda - DALLA FRANCIA ALL’INGHILTERRA
  5. Parte terza - DA PLYMOUTH A SANT’ELENA
  6. Epilogo
  7. Note
  8. Bibliografia
  9. Copyright