Gli italiani in Africa Orientale - 4. Nostalgia delle colonie
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Gli italiani in Africa Orientale - 4. Nostalgia delle colonie

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Gli italiani in Africa Orientale - 4. Nostalgia delle colonie

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Questo quarto e ultimo volume della storia degli italiani in Africa Orientale ricostruisce le vicende delle ex colonie tra il 1943 e il 1983. Quarant'anni cruciali per Etiopia, Eritrea e Somalia, passate dalla colonizzazione a una difficile e drammatica indipendenza.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852054976
Argomento
Storia
Parte terza

TRE COMUNITÀ IN ESTINZIONE

I

Tramonto della democrazia in Somalia

Una macchina che non funziona.

Il risveglio, per i somali, dopo i giorni radiosi, esaltanti dell’indipendenza, è amaro. Concluse le cerimonie, spente le collane di lampadine multicolori, finite nella polvere le bandierine di carta con la stella a cinque punte, i somali si guardano attorno e si rendono conto che non è cambiato nulla, che la loro miseria è senza limiti, che le poche industrie e le migliori terre sono ancora in mano agli stranieri, che il commercio è gestito da italiani, arabi e indiani, che il paese non possiede neppure una lingua scritta, per cui è costretto, per farsi intendere, ad usarne tre, e straniere.
Se fossero in grado di fare confronti, e alcuni di loro lo sono, si accorgerebbero che nell’Africa che cambia vertiginosamente, che si fa ogni giorno meno Africa, la stessa capitale della Somalia, Mogadiscio, conserva intatta l’atmosfera dell’Africa più meschina e sordida, l’Africa che brulica di mosche, che si decompone, che si sfalda al sole e al vento marino. Non molto diversa da così, Mogadiscio deve essere apparsa al marocchino Ibn Batùta, quando la visitò nel 1331, e a Vasco da Gama quando, centocinquant’anni dopo, la prese a cannonate con le sue quattro navi. Settant’anni di presenza italiana non sono bastati a promuoverla al rango di altre città, che pure sono afflitte da un clima anche peggiore, come Aden e Lagos. Nel 1960, infatti, Mogadiscio è ancora senza porto, senza fognature, senza un impianto di acqua potabile, e isolata dal resto della Somalia per la mancanza di strade bitumate e di ferrovie. Il solo edificio che superi i quattro piani è la cattedrale cattolica, eretta con il lavoro forzato. Tutto il resto è stato costruito con il materiale più scadente, senza un piano preciso, aderendo in parte a banali suggestioni esotiche, in parte agli schemi dell’architettura littoria di provincia, in parte a reminiscenze paesane. Persino gli archi di trionfo, l’uno dedicato ad Umberto di Savoia, l’altro al re imperatore, sono di materiale vile e in formato ridotto. In questo cumulo di brutture, riescono ad assicurarsi una certa nobiltà due edifici, del resto modesti, costruiti prima dell’arrivo degli italiani: la vecchia moschea di Arba Rucùn e la Garesa, l’antica residenza del valì del sultano di Zanzibar.
Se questa è la capitale, il resto del paese è facilmente immaginabile. Per la Somalia, quindi, il 1960, anno dell’indipendenza, è anche l’anno zero, dal quale bisogna ripartire. C’è tutto da fare o da rifare. A cominciare dall’unificazione del paese. Anche se il popolo somalo costituisce da secoli un’unica entità culturale e linguistica, la sua unità politica è infatti poco più che simbolica. Questa verità emerge subito all’indomani dell’indipendenza, quando l’integrazione fra le due Somalie, riunite in tutta fretta con una decisione ai vertici, si manifesta irta di ostacoli. A rallentare la fusione tra la Somalia ex italiana e quella ex britannica sono le diverse eredità coloniali, le diverse tradizioni giuridiche, il tutto aggravato dalla barriera linguistica, che obbliga politici e funzionari di Mogadiscio a fare uso di interpreti ogni volta che debbono corrispondere con i colleghi di Hargheisa. Si aggiunga che non esiste fra i due capoluoghi una linea telefonica diretta e che il tragitto fra le due città, via terra, comporta un viaggio in auto di tre giorni.
Come osserva I. M. Lewis, questo processo di integrazione raggiunge quasi tutti i suoi obiettivi entro il 1964, ma non senza causare dissensi e gravi incidenti. È il nord del paese che passa dall’euforia dell’indipendenza alla delusione e al risentimento, e che protesta giungendo a minacciare la secessione. «Sebbene il governo di coalizione di 14 ministri, costituito all’indipendenza, abbia incluso 4 ministri del nord, in una proporzione più che ragionevole tenendo conto dell’entità delle due popolazioni — scrive Lewis —, il nord venne sacrificato più del sud. Mogadiscio, come capitale della repubblica, migliorò considerevolmente la sua posizione commerciale e politica, mentre Hargheisa, la vecchia capitale del nord, fu ridotta a mero capoluogo di provincia e anche la sua prosperità cominciò a declinare».1
Il primo sintomo inequivocabile di scontento viene registrato il 20 giugno 1961 quando i somali sono chiamati ad approvare, mediante un referendum, la Costituzione provvisoria. Per quanto i «no» risultino soltanto il 13 per cento, il fatto è ugualmente grave perché i voti contrari provengono quasi tutti dal nord, dall’ex Somalia britannica, dove il 54 per cento dei votanti ha respinto la Costituzione unitaria. Qualche mese dopo, in dicembre, accade un fatto molto più grave. L’episodio di Hargheisa, infatti, non ha più i connotati della semplice protesta, ma si configura come una rivolta, come un autentico tentativo di colpo di stato con mire secessionistiche. Nella notte del 9 dicembre, alcuni giovani ufficiali del nord, appena rientrati dall’accademia inglese di Sandhurst, arrestano i loro superiori, che provengono dal sud del paese, ed occupano militarmente Hargheisa, spinti probabilmente da ambizioni personali, da insofferenza verso gli alti gradi istruiti dagli italiani e da un patriottismo nordista. Ma la rivolta non ottiene l’appoggio popolare e le autorità di Mogadiscio riescono a riprendere facilmente in mano la situazione arrestando tutti i congiurati, uno dei quali resta ucciso durante uno scontro a fuoco.2
Anche se il governo centrale non infierisce contro gli ufficiali ribelli3 ed anzi cerca di rimuovere i motivi di contrasto fra nord e sud, la tensione nell’ex Somaliland non diminuisce. E quando, nella primavera del 1963, le autorità di Mogadiscio cercano di imporre al paese un sistema unitario di salari, tasse e tariffe doganali, il nord, che si ritiene penalizzato, per la seconda volta si ribella, organizzando il 19 aprile uno sciopero generale e il 1° maggio un’imponente manifestazione di protesta ad Hargheisa, che si chiude con il pesante bilancio di 9 morti e decine di feriti.4 Ma anche se gli okal5 di Hargheisa minacciano di sostenere il movimento di secessione del nord, se le misure fiscali non verranno abrogate, non si giungerà alla spaccatura della Somalia e neppure alla costituzione di un partito separatista del nord. Si verificherà, invece, come osserva Lewis, un altro fenomeno: «Dissidenti del nord e del sud tenderanno ad unire le loro forze per opporsi al governo guidato dalla Lega dei Giovani Somali».6
L’antagonismo fra sud e nord provoca infatti un notevole rimescolio delle forze politiche, con la nascita di nuovi partiti e la scomparsa di altri. Nel maggio del 1963, ad esempio, per iniziativa dell’ex premier del Somaliland, Mohamed Ibrahim Egal, e dell’ex ministro Hagi Farah, viene costituito il Somali National Congress, che subito manifesta l’ambizione, pur non possedendo un’ideologia precisa, di sostituirsi come partito-guida alla Lega. In realtà lo SNC non è altro che il frutto di un accordo tattico e temporaneo fra gli Isak del nord e gli Hauia del centro-sud contro gli onnipotenti Daròt che stanno al governo.
Il processo di integrazione, se da un lato consegue alcuni notevoli risultati, dall’altro, paradossalmente, ridà però vigore al tribalismo, bandito severamente dalla Costituzione come un flagello. Per quanto la Somalia degli anni ’60 offra una estesa gamma di partiti e si presenti alle urne rispettando le regole del gioco democratico, non sono i partiti che contano, ma le cabile. I partiti servono quasi unicamente come strumenti di propaganda nel periodo elettorale, tanto che i deputati eletti, quando si ritrovano in Parlamento, non essendo legati da alcuna disciplina di partito, tendono a riunirsi di nuovo per cabila. Interrogato su questo fenomeno nel giugno 1963, il presidente della repubblica somala, Aden Abdulla Osman, risponde con molta franchezza: «Il tribalismo è indubbiamente più vivo oggi di quanto non lo fosse nel 1956, quando ci fu affidato, per la prima volta, il governo interno del paese. La responsabilità di ciò è senza alcun dubbio del potere, che si serve del tribalismo per raggiungere o mantenere posizioni di predominio. Il tempo eliminerà questo sentimento tribale, ma perché ciò avvenga occorre che il popolo somalo consegua una maggiore maturità. I cittadini debbono convincersi che non hanno bisogno dell’appoggio del consanguineo altolocato per far valere i loro diritti. In altre parole, bisogna moralizzare la pubblica amministrazione».7
Anche il partito al potere, la Lega dei Giovani Somali, che pure aveva fatto del tribalismo il primo avversario da sconfiggere, perde la sua coesione ed entra in crisi, una crisi che si trascinerà per alcuni anni per diventare poi acutissima nel 1967. Aden Abdulla Osman, che è stato segretario generale di questo partito dal 1954 al 1956, non ha difficoltà ad ammettere che «la Lega ha indubbiamente subìto un forte logoramento dovuto al potere che detiene dal 1956. Occupati in questioni di governo, i suoi uomini migliori non hanno potuto dispensare al partito le cure necessarie. Nello stesso tempo la compagine è stata indebolita anche da inevitabili gelosie e personalismi. Detto ciò, bisogna tuttavia aggiungere che non v’è oggi in Somalia un partito che sia in migliori condizioni. La Lega può quindi sperare in una ripresa prima delle elezioni del 1964».8
Nonostante abbia profuso tutto il suo slancio nella lunga lotta per l’indipendenza e poi non abbia saputo rinnovarsi, la Lega dei Giovani Somali riesce comunque a conservare la maggioranza nelle elezioni del marzo 1964, conquistando 69 dei 123 seggi, mentre 22 vanno al Somali National Congress di Mohamed Ibrahim Egal, 15 al Somali Democratic Union, il nuovo partito di Hagi Mohamed Hussein,9 9 all’Hisbia Destur Mustaqil Somali e 8 ai partiti minori. Ma la consistenza, il fascino, i richiami ideologici di questi partiti debbono essere pressoché nulli se nell’agosto del 1966 il numero dei deputati della Lega all’Assemblea nazionale è passato da 69 a 78, e nel luglio 1967 ha raggiunto addirittura i 105. Che cosa è accaduto? Ce lo spiega Lewis: «Questo fatto non significa necessariamente che il folto numero di deputati si sia gradualmente convertito alla filosofia politica della Lega, significa soltanto che essi hanno avvertito i vantaggi pratici di essere dentro piuttosto che fuori del partito al governo».10
Dopo il 1964 la situazione politica in Somalia si deteriora ad un ritmo ancora più rapido e anche se il presidente Abdirascid Ali Scermarche dichiarerà nel 1967 di essere particolarmente «fiero della nostra democrazia» e l’ONU continuerà a considerare la Somalia, per la sua apparente stabilità politica, come la sua più diletta creatura, in realtà, dietro la facciata, il caos è completo. Troppe sono le ipoteche coloniali e neo-coloniali che gravano sul paese e che ne dominano la vita economica e sociale. La proliferazione dei partiti a sfondo tribale (si giungerà a contarne 143 durante un’elezione) non favorisce certo il consolidarsi degli ideali di libertà e giustizia, ma soltanto la formazione di clientele tenute insieme da affinità etniche e da interessi par...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gli italiani in Africa Orientale – Nostalgia delle colonie
  4. Avvertenza
  5. Abbreviazioni
  6. Parte prima. La fine di un’epoca
  7. Parte seconda. L’Italia ritorna in Africa
  8. Parte terza. Tre comunità in estinzione
  9. Copyright