Gli italiani in Africa Orientale - 3. La caduta dell'Impero
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Gli italiani in Africa Orientale - 3. La caduta dell'Impero

  1. 636 pagine
  2. Italian
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Gli italiani in Africa Orientale - 3. La caduta dell'Impero

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In questo terzo volume dell'avventura italiana in Africa, l'autore rievoca il crollo del colonialismo fascista nel maggio del 1941, narrandone gli aspetti militari, diplomatici e politici, e ricostruisce con efficacia i drammi, le miserie e le illusioni di quanti ne furono i protagonisti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852054969
Argomento
History
Categoria
World History
Parte prima

LA DIFFICILE COSTRUZIONE

I

Finita la guerra comincia la guerriglia

L’ulivo tra le baionette.

Conclusa la guerra d’Etiopia, spenta l’eco nelle piazze d’Italia degli «storici» annunci del duce, ma non ancora scongiurato il pericolo di un conflitto europeo, il regime intraprende due campagne di propaganda, l’una destinata agli italiani, l’altra agli stranieri, che hanno in definitiva gli stessi scopi, quello di ribadire le buone ragioni che hanno spinto il fascismo a promuovere la più grande spedizione coloniale di tutti i tempi e quello di annunciare che l’Italia, ormai entrata nel novero delle nazioni soddisfatte, non aspira che alla pace, ad una pace duratura e feconda di opere.
Ancora una volta è Mussolini, in prima persona, che si assume il compito di rassicurare l’opinione pubblica, e lo fa non lesinando le interviste e cogliendo ogni pretesto, nell’estate e nell’autunno 1936, così densi di ricorrenze e di cerimonie, per pronunciare brevi, brevissimi discorsi, qualche volta un solo slogan, un motto, una parola d’ordine. Ciò che gli preme, innanzitutto, è di rabbonire gli inglesi, attenuando le polemiche e fornendo via via a Londra precisazioni, promesse, rassicurazioni. Parlando con il giornalista inglese Ward Price, del «Daily Mail», Mussolini sostiene, ad esempio, che «l’Italia non ha alcuna aspirazione sull’Egitto», così come non ha alcun «interesse politico» nel Sudan e in Palestina.1 Conversando venti giorni dopo con il redattore diplomatico del «Daily Telegraph» è ancora più conciliante, persuasivo. Non soltanto esclude che l’Italia nutra l’ambizione di costituire in Etiopia «un esercito nero», ma assicura che «gli interessi della Gran Bretagna, per quello che riguarda le acque del Lago Tana, saranno strettamente rispettati». E per finire, Mussolini, il quale appare a Gordon-Lennox «di ottimo umore, felice e sicuro di sé», dichiara che le truppe italiane dislocate in Libia saranno richiamate in patria non appena le navi inglesi verranno ritirate dal Mediterraneo. E soggiunge: «Non soltanto un riavvicinamento anglo-italiano è desiderabile, ma è necessario; e per parte mia farò tutto quello che sta in mio potere per arrivarvi».2 Tutto questo, beninteso — e lo dirà il 1° novembre ai 250 mila milanesi convenuti nella piazza del Duomo — a condizione che «i cervelli ragionanti dell’Impero britannico» si rendano finalmente conto che, «se per gli altri il Mediterraneo è una strada, per noi Italiani è la vita. [...] Non c’è quindi che una soluzione: l’intesa schietta, rapida, completa sulla base del riconoscimento dei reciproci interessi».3
Tende la mano anche alla Francia, ma con maggior distacco e freddezza. «La Francia — fa osservare — ancora oggi tiene il dito puntato sugli ingialliti registri di Ginevra e dice: l’Impero del morto ex Leone di Giuda è ancora vivo. [...] È di tutta evidenza che sino a quando il Governo francese terrà, nei nostri confronti, un atteggiamento di attesa riservata, noi non potremo fare che altrettanto».4 Un particolare riguardo ha invece per gli Stati Uniti. Rispondendo alle domande di Knickerbocker, che lo intervista per la catena di stampa «Hearst», precisa che l’Abissinia non è chiusa all’iniziativa straniera. Al contrario, data la vastità del territorio etiopico, l’intervento del capitale americano sarebbe visto con speciale favore, tenuto anche conto che gli italiani ricordano con ammirazione «il grande spirito costruttore e pioniere che ha sempre ispirato il Popolo Americano».5
Pur blandendo e rassicurando, pur insistendo in maniera quasi ossessiva sul disperato bisogno dell’Italia di raggiungere una pace duratura per «completare l’opera intrapresa»,6 Mussolini, anche in questa occasione, non rinuncia al suo consueto schema di alternare le minacce alle lusinghe. «Se si tentasse di carpirci i frutti di una vittoria pagata con tanti sacrifici — annuncia ad esempio al giornalista francese Léo Gerville-Réache —, ci si troverebbe in piedi, pronti ad ogni resistenza».7 Parlando il 30 agosto ad Avellino, alla chiusura delle grandi manovre, Mussolini tiene a precisare che la campagna d’Africa, anziché aver indebolito le forze armate italiane, le ha rese più efficienti: «Possiamo sempre, nel corso di poche ore e con un semplice ordine, mobilitare otto milioni di uomini, blocco formidabile, che quattordici anni di regime fascista hanno portato alle alte temperature necessarie del sacrificio e dell’eroismo».8 Ma è a Bologna, il 24 ottobre, nel discorso che poi verrà detto dell’Ulivo e le baionette, rivolto a tutto il mondo, che il duce perfeziona il suo disegno di blandizie e di ricatti. Dopo aver lanciato un messaggio di pace e aver innalzato idealmente un grande ramo d’ulivo, Mussolini si affretta però ad avvertire: «Attenzione! Questo ulivo spunta da un’immensa foresta: è la foresta di otto milioni di baionette, bene affilate e impugnate da giovani intrepidi cuori!».9
Mentre l’Europa e il resto del mondo reagiscono a questa nuova campagna del fascismo con ostilità oppure con indifferenza, gli italiani ne traggono invece motivi per accrescere la loro fiducia nel regime e per alimentare la propria fierezza. «Era perfettamente naturale — ha fatto osservare Ciro Poggiali — che l’opinione pubblica si adagiasse, dopo il trionfo, in un ottimismo placido, radioso di speranze».10 Eppure, a rileggere i discorsi dell’estate-autunno 1936, pronunciati da Mussolini, non affiora alcun elemento che giustifichi il dilagante ottimismo. Semmai emergono le prove dell’improntitudine del duce, dell’estrema disinvoltura con la quale tenta di nascondere agli italiani le più amare verità. Mentre, infatti, plaude alla pace e la invoca, tace sul fatto che l’Italia è già impegnata militarmente in Spagna. Mentre assicura che l’Etiopia è interamente pacificata,11 evita di precisare che quasi due terzi dell’impero sono ancora da occupare. Quanto alla situazione economica, si limita ad ammettere che il bilancio dell’agricoltura non è stato «brillante»,12 fingendo di ignorare che il paese è sull’orlo della bancarotta.13
Né ha un minimo di attendibilità la credenza, così diffusa nel dopoguerra, di un Mussolini ingannato dai suoi più vicini collaboratori, tenuto all’oscuro di tutto. Il ministro degli Scambi e Valute, Guarneri, ad esempio, non perde occasione per ricordargli che l’«impero sta ingoiando l’Italia», che il costo dell’impresa africana è ormai insopportabile: «Duce, vi dico una verità che al vostro orecchio potrà suonare come una bestemmia: quale ministro delle Valute, se non avessi da curare l’impero, sarei quasi un signore!».14 E la riprova che Mussolini è perfettamente al corrente della situazione è il suo tentativo di imporre un freno alle spese militari. Scrivendo il 28 luglio 1938 al sottosegretario alla Guerra Baistrocchi, gli segnala, con un linguaggio particolarmente rude, che «il ministro delle Finanze ha nuovamente insistito perché l’Amministrazione della Guerra non dia ordinazioni di sorta, all’infuori degli stanziamenti ordinari e straordinari regolarmente assegnati al bilancio. Io insisto, a mia volta, perché se la doglianza del Miro delle Finanze è legittima, l’inconveniente abbia termine».15 Ma ormai è tardi per imporre giri di vite. Gli impegni militari assunti dal fascismo in Etiopia e in Spagna16 sono ormai ingentissimi ed irreversibili. Al punto che quando, il 5 agosto, Baistrocchi risponde al ministro delle Finanze Thaon di Revel, anziché accedere alla sua richiesta di contenere le spese militari, gli segnala che gli stanziamenti fatti sono insufficienti e che occorrerà aumentare di 500 milioni il bilancio ordinario e di 1.200 milioni quello straordinario.17
Anche se questi documenti vedono soltanto oggi la luce, qualcosa filtra tuttavia anche nell’estate 1936 tra le fitte maglie della censura. Sono le proteste dei legionari imbarcati per l’Etiopia, che finiscono invece per trovarsi in terra di Spagna. Sono i racconti di alcuni reduci dall’Abissinia, che demoliscono la leggenda della guerra-lampo e della completa pacificazione dell’impero. Sono notizie che dovrebbero far meditare, che dovrebbero incrinare il diffuso ottimismo. Ma gli italiani, ancora per tutto il 1936, non credono che a Mussolini, ascoltano acriticamente i suoi slogan, anche se taluni non hanno senso alcuno, come quello che dice: «la marcia su Addis Abeba è la logica storica conseguenza della marcia su Roma»,18 o quello, preso in prestito da Blanqui, che sentenzia: «Chi ha del ferro ha del pane».19 Il paese è ancora immerso in un clima di irrazionale esaltazione. I reduci dall’Africa che hanno il privilegio di sfilare davanti al duce in piazza Venezia guardano il loro idolo e restano con il respiro mozzato: «Il passo di parata diventa un meccanico gioco di leve muscolari: il cervello non lavora più per esso, poiché polarizzato su MUSSOLINI. Si passa davanti a Lui come una sola macchina d’acciaio. L’‘attenti a sinistra’ è uno scatto di nervi verso il Suo sorriso ed il Suo saluto che elettrizza e rincuora».20
Ancora per tutto il 1936 l’aria è satura di messaggi di gente famosa, che tributa a Mussolini o alla patria elogi ed onori senza precedenti. «Ti ho ammirato e ti ammiro in ogni tuo atto e in ogni tua parola — scrive D’Annunzio, il 26 settembre, dal Vittoriale —. Ti sei mostrato e ti mostri sempre pari al destino che tu medesimo rendi invitto e immoto come una legge come un decreto, non come un novo ordine, ma come un ordine eterno».21 Meditando, a sua volta, sul destino di Roma, l’accademico d’Italia Francesco Coppola scrive: «Oggi finalmente, di fronte a una Europa a cui da quasi due secoli la ideologia illuministica, a mano a mano degenerata in parlamentarismo, in socialismo, in comunismo, in pacifismo, in ginevrismo, ha progressivamente tolto il senso della sua storia e della sua civiltà, [...] ancora una volta in Italia risorge col Fascismo lo spirito romano, lo spirito classico, a restaurare l’ordine ideale e reale, l’armonia tra la morale e la necessità, tra l’idea e il fatto, tra la coscienza e la volontà, tra la dottrina e la storia, nella virile intelligenza della vita, nella virile accettazione della lotta, della disciplina, del sacrifizio, per la grandezza della Patria e per la salvezza della civiltà. Così la Rivoluzione italiana, consacrata oggi dalla duplice vittoria, diventa fatto di valore universale. È, ancora una volta, il ritorno di Roma».22
I ricercati messaggi degli uomini illustri si incrociano con quelli dozzinali dei parolieri, dei cantastorie, dei poeti dialettali, che in Italia, da sempre, sono legioni. Spronato dalle marziali note del fecondissimo Blanc, Vittorio Emanuele Bravetta così descrive la nuova Etiopia:
La nostra gente
or non emigra più
per soffrir!
Il fecondo lavor
dei coloni
tutta l’Etiopia farà
fiorir.
Il negarit
non rimbomba più.
Viva il Re Imperator!
Guerra a chiunque vuol
usurparci il suol
che romano è già! 23
In un poemetto dal titolo «Gloria all’Italia», Rosario Di Vita ringrazia tutti gli artefici della vittoria africana, da Graziani a Fr...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gli italiani in Africa Orientale - La caduta dell’Impero
  4. Avvertenza
  5. Abbreviazioni
  6. Parte prima. La difficile costruzione
  7. Parte seconda. La guerra
  8. Copyright