Certe piccolissime paure
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Certe piccolissime paure

Storie segrete di quotidiana ansietà

  1. 196 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
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Certe piccolissime paure

Storie segrete di quotidiana ansietà

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Ci sono persone nelle quali il buio, un luogo angusto, una strada da attraversare, un passaggio in ascensore possono scatenare smarrimenti incontrollabili, piccole fobie di cui tutti abbiamo sentito parlare. Più difficile credere che ci sia chi cade in preda al panico di fronte a una tessera magnetica, a una farfalla o addirittura a un piatto di spaghetti. Ma è proprio quanto accade ai protagonisti delle storie narrate in questo volume, che Gianna Schelotto ha raccolto nel corso degli anni a margine del suo lavoro di psicoterapeuta e che costituiscono un nutrito esempio di quali espedienti la psiche umana metta in atto per far defluire un'ansia ormai prossima a livelli di guardia.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852056444

Il magnetismo dell’onorevole

Sergio Gandini, deputato di prima legislatura, non amava girare da solo nelle enormi sale di Montecitorio. Quel palazzo smisurato aveva ampi saloni, scalinate fastose, corridoi interminabili e forse era la vastità degli ambienti, oltre alla loro austera imponenza, a incutergli un senso di perenne disagio. Si muoveva con relativa tranquillità solo nelle sale più frequentate: l’aula, il famoso transatlantico e naturalmente il ristorante, la posta e la banca.
Forse erano i suoi cromosomi proletari a trasmettergli un’esagerata deferenza per quei luoghi o più semplicemente era il suo carattere poco incline al lusso e alle apparenze.
Per andare alla seduta della commissione di cui era membro doveva attraversare il corridoio dei presidenti, così chiamato perché lungo una interminabile parete era decorato dai ritratti di tutti coloro che avevano presieduto la Camera, dalla Costituente in poi. La sfilata di fotografie e l’illuminazione scarsa accrescevano l’inquietudine sotterranea che ormai gli era abituale. Quella mattina era in ritardo: i colleghi evidentemente l’avevano preceduto perché il lungo andito era completamente deserto. I presidenti dai loro quadri lo guardavano con severa degnazione. L’onorevole Gandini si sentiva lievitare dentro un’ansia che lui stesso giudicava ridicola. Affrettò il passo e finalmente sbucò in un’altra sala più illuminata e meno silenziosa. Dal suo tavolo disadorno il commesso alzò gli occhi: «Buon giorno, onorevole» disse. «Ho un messaggio per lei.» Gandini si fermò con sollievo, la voce dell’uomo era arrivata in tempo per allentare la sua stupida tensione. Aspettò che l’altro trovasse il bigliettino giallo dove di solito si annotavano le chiamate. Era una comunicazione della sua banca, che l’invitava a presentarsi al più presto agli sportelli. Qualche giorno prima aveva tentato di ritirare dei soldi con il Bancomat, ma la macchina gli aveva «mangiato» la carta e sul piccolo schermo era comparso l’invito a rivolgersi alla sua banca. Era certamente per questo che l’avevano convocato.
Il funzionario incaricato glielo confermò: «La sua carta si è smagnetizzata, onorevole» spiegò. «Se ha la pazienza di aspettare gliela sostituiamo.» Decise di liberarsi subito di quella seccatura. Aspettò una decina di minuti durante i quali, ricordò in seguito, cominciò a serpeggiare in lui una subdola ossessione. Si domandò – e gli sembrava di scherzare con se stesso – dove poteva essere finito il magnetismo che si era staccato dalla sua carta di credito. Non c’erano dubbi in proposito: poiché teneva la carta nel portafoglio, quel fluido da calamita gli si era appiccicato addosso e si era trasformato in chissà che strana energia. Forse era diventato proprio l’inquietudine che ora lo tormentava senza nessun motivo. Quando gli restituirono la tessera l’inserì nell’apposita custodia e si rese conto che di carte, magnetiche e non, ne aveva una decina. La tessera dell’Alitalia, quella dell’autostrada, la carta di credito e tutte le altre erano ordinatamente disposte ciascuna nel suo scomparto. Nel guardare quella parata multicolore fu assalito da un altro inquietante pensiero: e se si smagnetizzassero tutte insieme che cosa mi succederebbe?
La giornata che avanzava per fortuna occupò i suoi pensieri. Si divise tra l’aula e la sala di lettura, partecipò a una interminabile riunione, fece le rituali telefonate al ministero per le pratiche in sospeso dei suoi elettori e scrisse un’interrogazione per sapere dal ministro come mai un certo appalto non era stato ancora assegnato. L’ora di cena lo colse di sorpresa, prima che potesse riprender fiato. L’aspettava un altro impegno di lavoro. Ancora uno. Gandini era estenuato, eppure per nulla al mondo avrebbe rinunciato a quella cena. Doveva incontrare il provveditore agli studi della sua provincia, quello stesso professor Potenza che negli anni dei suoi furori giovanili aveva entusiasticamente contestato dalle pubbliche piazze. Proprio lui aveva inventato lo slogan che gli studenti urlavano in tutti i cortei: «Barone Potenza, rasenti l’indecenza». Che vergogna! E pensare che a quei tempi era stato orgoglioso della grande popolarità ottenuta dal verso di ribellione non precisamente alato. Certo che la vita si prende delle belle rivincite, pensava Gandini.
Già il giorno precedente gli aveva fatto uno stranissimo effetto sentire così mellifluo e remissivo al telefono l’uomo che, pur da avversario, aveva sempre considerato un personaggio potentissmo.
Mentre sedeva nel raffinato ristorante con l’anziano professore, l’onorevole provava suo malgrado un sottile compiacimento. «Se mi vedessero i miei ex compagni di università» si diceva. Poi ricordava che quel signore col quale stava amabilmente chiacchierando si era rifiutato per mesi di riceverlo. Lui e altri rappresentanti degli studenti avevano bivaccato in permanenza o quasi nella sua segreteria mentre un’impiegata stizzosa, ogni mattina, come celebrando un rito sui generis, fingeva di chiamare la polizia.
Il professor Potenza era venuto per fargli presenti alcuni problemi della sua provincia e per suggerire alcuni emendamenti a una legge che si stava attualmente discutendo alla Camera. Gandini non approvava nessuna delle sue proposte, ma si guardava bene dal lasciarglielo capire.
Al momento di pagare il conto ci fu un vivace duetto tra lui e il suo ospite. «Non posso permetterglielo, caro professore!» dichiarò l’onorevole con ferma cortesia, e con studiata noncuranza porse la sua carta di credito al cameriere.
Subito, scandita e netta come un segnale d’emergenza, dentro gli risuonò la domanda: «E se si fosse smagnetizzata?».
Ma quel pensiero fu sopraffatto da altre riflessioni meno balorde: ormai poteva permettersi un ristorante chic senza problemi. Lui che quando era costretto a portare qualcuno a cena passava tutta la serata nell’ansia che il conto fosse troppo alto. Ma questo accadeva prima che fosse eletto al parlamento. Che conforto ora potersi permettere di cenare tranquillamente in un locale esclusivo a dispetto dei prezzi esosi! Nell’uscire dal ristorante Gandini si accorse che a un tavolo d’angolo, circondato dalla sua vasta corte, sedeva un popolarisssimo uomo di governo. «Ciao ministro» salutò con qualche ostentazione. «Ué, carissimo…» rispose l’altro, trasferendo nel suo pigro sorriso la stessa flaccida condiscendenza che emanava da tutta la sua persona. Potenza fu visibilmente colpito dalla plateale cordialità che l’influente personaggio accordava al suo ex contestatore. Gandini se ne accorse e gongolò.
«Ha preso casa a Roma?» s’informò il provveditore mentre camminavano nella fresca brezza della sera. «No, sono in hotel. Costa di più ma almeno non ho seccature. E poi la vita dei politici è così stressante che voglio almeno concedermi tutto il confort possibile.»
La vita di Gandini era davvero cambiata radicalmente. Nei primi mesi si era detto che sarebbe rimasto in albergo solo finché non avesse trovato una casa. Poi cominciò a scartare una dopo l’altra tutte le proposte che gli facevano. Non gli andava di dividere un appartamento con altri colleghi e di tutte le case che gli avevano mostrato non gliene era piaciuta nessuna. In realtà, e faceva fatica ad ammetterlo persino con se stesso, le trovava tutte troppo modeste. Si era abituato al clima lussuoso e un po’ decadente del suo centralissimo hotel. Quando rientrava alla sera, a qualsiasi ora, il portiere lo salutava con deferente cordialità: «Buona sera onorevole!». I clienti che si erano attardati tra i vistosi specchi policromi dell’atrio, alzavano gli occhi curiosi su di lui. E questo gli dava un confortante senso di sicurezza. Sapeva perfettamente di star godendo di privilegi che non aveva creduto possibili nemmeno nei suoi sogni più audaci. Naturalmente si era conquistato con l’impegno e con l’intelligenza tutto quello che aveva. Era moltissimo, ma se l’era meritato.
Arrivò in albergo relativamente presto. Non c’era molto da dire con il provveditore e per una sera poteva andarsene a letto prima del solito. Appena fu in camera telefonò a Elvira preparandosi mentalmente a sentire la quotidiana dose di lamentele. «La solita giornataccia?» gli domandò invece lei con apparente sollecitudine.
«Più o meno. Sai chi avevo a cena stasera?» E cominciò a descrivere l’incontro con Potenza con esagerata dovizia di particolari. Sapeva che con quel diluvio di inezie voleva riempire il tempo della telefonata, rassicurare la sua compagna e forse impedirle di dirgli cose sgradevoli. Elvira stette al gioco e si finse interessata e divertita. Ma lui la conosceva bene e gli sembrava che dal ricevitore gli arrivassero ondate di gelo. Si salutarono con le parole di rito: «Buona notte, amore, buona notte».
L’onorevole sospirò perplesso. Elvira non capiva, e forse non era obbiettivamente comprensibile, che le sue giornate romane fossero una specie di vuoto delirio. È impossibile spiegare la malsana inerzia che ci assale in quel palazzo, pensò, così com’è difficile per chi è al di fuori credere che si possano passare ore stravaccati su un divano senza trovare la forza di raggiungere i telefoni e chiamare casa.
Era questo l’aspetto della sua vita di parlamentare che lo sconcertava di più. Era diventato un pendolare. Ma non solo perché ogni settimana doveva vivere tre giorni a Roma e tre nella sua città. Il pendolarismo era diventato anche uno stato d’animo che alterava subdolamente la sua visione del mondo. A Roma assumevano un’enorme importanza persone e fatti che alla fine della settimana, quando rientrava a casa, scoloravano di colpo, soppiantati da ben diverse tensioni interne. Anche Elvira, che pure era la persona più importante della sua vita, nelle vischiose giornate romane usciva, per così dire, dal campo visivo e il pensiero di lei impallidiva: a volte gli accadeva perfino di non telefonarle semplicemente perché ne aveva dimenticata l’esistenza. Come poteva spiegare queste cose alla sua compagna senza spaventarla o ferirla? Con lei bisognava andare coi piedi di piombo. Elvira gli voleva molto bene ma non aveva perso il senso critico nei suoi confronti. Dei due era lui il più innamorato, o almeno quello più bisognoso di conferme continue.
Elvira era una donna bellissima e quando l’aveva conosciuta, affascinante e inaccessibile, aveva acceso in lui una passione divorante che per mesi lo aveva fatto sentire come un malato, frenetico, ansioso, perennemente inquieto. Lei era sposata e all’inizio non gli aveva dato nessun segno di disponibilità. Poi, pur continuando a dirgli di no, aveva lasciato il marito, un industriale ricchissimo. Questa era stata la fase più bruciante del loro rapporto. Gandini osava sperare che l’avesse fatto per lui, anche se aveva abbracciato con ardore la sua causa politica, ma non riusciva a capire perché dal momento che era libera continuasse a negarsi. Certo Elvira sapeva come tenere acceso il desiderio di un uomo. Ancora oggi, dopo quasi quattro anni di relazione finalmente ufficializzata, insisteva per conservare il suo appartamento e di tanto in tanto decideva di trascorrervi qualche giorno, gettandolo nell’incertezza e nel sospetto.
Solo da quando era venuto a Roma la continua tensione che lei gli procurava si era andata via via allentando.
Si mise a letto e la richiamò. «Questa sera non mi hai nemmeno sgridato!» si lamentò scherzosamente. Chiacchierarono un po’, ma Gandini avvertiva il peso di una conversazione senza argomenti e senza calore. Non riuscì a ottenere dal loro chiacchiericcio quel che aveva sperato: un viatico per la notte che lo liberasse dall’ansia sottile ma fastidiosa che l’aveva afflitto per tutto il giorno. Non guardò nemmeno i giornali, tentò di dormire subito.
L’ultima cosa che intravide mentre spegneva la luce fu la sua giacca ordinatamente disposta sul portabiti. Ho fatto bene a comprarla, pensò, è proprio bella. Ma col buio gli si presentò anche l’immagine delle tessere magnetiche nella tasca interna della giacca nuova. Si voltò dall’altra parte, spostò il cuscino, respinse le coperte e attese il sonno. Il pensiero di tutti quei cartoncini colorati gli stava invadendo la mente e forse, a giudicare da come si era messo a battere, anche il cuore. «Sto diventando pazzo» si disse spaventato. Gli sembrava che nella sua giacca si fosse attivato un campo di forze invisibili e ostili che lo investivano subdolamente. Si sentiva come immerso in una specie di nebbia che gli toglieva il respiro. Era scosso da un violento tremito e una paura cupa, oppressiva, si stava impossessando di lui. Spostò di nuovo il cuscino e si tirò le coperte sulla testa come un improbabile scudo: cercava di rannicchiarsi tutto, immaginando che facendosi piccolo avrebbe offerto meno punti d’attacco al nemico invisibile. Tentò di mantenere un minimo di razionalità. Non poteva certo arrendersi a quell’incredibile sensazione. Ma l’angoscia non si placava. Decise di accendere la luce e provò a distrarsi scorrendo i giornali che aveva tenuto sotto il braccio tutto il giorno senza trovare il tempo di darvi un’occhiata. Fu inutile, l’ansia si era un po’ attenuata, ma non riusciva a concentrarsi. Cercò persino di leggere il fondo di un irriducibile avversario politico per prendere una sana arrabbiatura e dirottare la sua tensione.
Dove va a finire il magnetismo delle tessere? Non fa certamente bene tenersele addosso per giornate intere. Riusciva a leggere solo questo su tutti i giornali che prendeva in mano, non perché vi fosse scritto, ma perché ormai la sua mente era diventata una lente malefica che distorceva ogni cosa. Alla fine, pur rendendosi conto di essere ridicolo, andò a sfilare il portatessere dalla giacca e lo portò in bagno. Lo depose sulla mensola e chiuse accuratamente la porta. Questo gli consentì finalmente di dormire.
La mattina dopo, rivedendo le sue tessere sulla mensola del bagno, sorrise. «Ho mangiato troppo ieri sera» si disse, e non ci pensò più.
Nel pomeriggio si trovò di nuovo ad attraversare da solo il corridoio dei presidenti e mentre cercava di percorrere velocemente quel nido di brutti pensieri, sentì nel petto un allarmante senso di oppressione. Un altro avrebbe pensato: l’infarto. Ma lui non ebbe dubbi, erano le tessere magnetiche a fargli del male. Era così dilaniato dalla tensione che decise di non tentare nemmeno di resisterle. Si arrese senza condizioni. Raggiunse il commesso e, cercando di mascherare l’ansia che lo divorava, domandò: «Non avrebbe per caso una borsina di carta?». L’altro frugò inutilmente nei cassetti, poi scotendo la testa con disappunto gli mostrò un sacchetto di plastica bianco tutto sgualcito. «Ho solo questo onorevole,» si scusò «ma non credo…»
«Non si preoccupi» fece Gandini afferrandolo fulmineamente. «Va benissimo.» Prese la borsa e cercò di spianarne le grinze. Poi, mentre si allontanava, trasse dalla tasca interna della giacca il portatessere e lo buttò nel sacchetto.
Per tutta la mattina girò per sale e corridoi reggendo l’informe borsa come una massaia al mercato. Si sentiva ridicolo ma almeno quel maledetto magnetismo era lontano dal suo corpo e dagli organi vitali come il cuore e i polmoni.
Solo nel pomeriggio riuscì ad andare in albergo e a sostituire il sacchetto con una vera, elegante cartella. Aveva anche pensato di lasciare le maledette tessere all’hotel, ma di alcune non poteva fare a meno. Dall’interno del palazzo si poteva telefonare solo con le speciali carte parlamentari e lì dentro si rimaneva dodici ore al giorno, a volte anche di più.
«Non è poi un gran male girare con una borsa» si consolava. «Finalmente smetterò di perdere fogli e documenti.»
Quella settimana gli era sembrata particolarmente lunga e faticosa. Quando finalmente prese l’aereo per tornare a casa si ripromise di dedicare il weekend solo a se stesso e a Elvira.
Ma lei non era dell’umore giusto e litigarono per un motivo veramente assurdo. Gandini portava un bellissimo e costosissimo blazer di cachemire al quale non aveva saputo resistere. «Quanto l’hai pagato?» domandò Elvira in tono da inquisitore. «Quanto un monolocale al Pantheon» tentò di scherzare lui. Ma Elvira lo costrinse a dirle la cifra esatta e del prezzo astronomico fece un casus belli. «Ti sei montato la testa» gridava inferocita. «Proprio tu che mi hai insegnato a disprezzare i cosiddetti valori borghesi!»
«Ma perché il meglio della vita dovremmo lasciarlo solo a lorsignori? Ora posso permettermelo anch’io finalmente» tentò di difendersi Gandini con scarsissima convinzione.
«È che sei diventato uno di loro» constatò lei con amarezza e aggiunse perfidamente: «Se è per questo che ti sei battuto…».
L’onorevole non resse quella bassa insinuazione e intuì che lei stava indirettamente rimproverandogli di esser diventato come l’ex marito. Così riemersero le antiche gelosie o forse più semplicemente lui era stato toccato in un punto debole. S’infuriò e sciorinò a sua volta tutte le cose cattive che qualche volta, di sfuggita, gli era capitato di pensare. «Sei semplicemente gelosa. Fai la moralista solo perché l’invidia ti divora.» Era troppo. Elvira afferrò la borsetta e uscì sbattendo la porta. Non la rivide e nemmeno la cercò.
Il martedì mattina ripartì per Roma più teso e scontento che mai. Alle tessere non aveva più avuto modo di pensare, ormai le teneva nella borsa, a distanza di sicurezza. Ma l’espediente smise di funzionare molto presto. Gandini cominciò ad avvertire una specie di formicolio alla gamba destra, proprio dove camminando la borsa lo sfiorava. Era solo un leggerissimo fastidio, una sorta di indolenzimento dovuto forse alle troppe ore trascorse seduto. Ma qualcosa dentro di lui si mise in allarme: le tessere, quelle maledette tessere mi hanno magnetizzato l’articolazione del ginocchio. La mano che stringeva il manico della borsa cominciò a sudare. Strano, pensò, suda solo il palmo della destra. Sentiva il resto del corpo gelato e secco. Dovette sedersi e respirare fondo. Decise di «perdere» la borsa. Non gli importava niente, proprio niente dei documenti e delle importantissime relazioni che conteneva. Doveva solo liberarsene, allontanare al p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Certe Piccolissime Paure
  4. La palummella: cominciamo da me
  5. Gambe ribelli
  6. Bestioline
  7. Spaghetti e malumore
  8. La strada di casa
  9. Se mangio non guardarmi
  10. Il successo ha preso il volo
  11. L’ascensore
  12. La donna di pietra
  13. Il treno
  14. Uccelli
  15. Contatore del gas
  16. Le piccole cose
  17. L’ombelico
  18. Luccio Malagiggio
  19. Parolacce in chiesa
  20. Farfalla
  21. Vogliono mangiarmi!
  22. Il magnetismo dell’onorevole
  23. Le strade strette
  24. Vetrina
  25. Gita scolastica
  26. Paura, amica mia
  27. Copyright