I paradisi artificiali
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I paradisi artificiali

Charles Baudelaire, Giuseppe Montesano, Giuseppe Montesano, Milo De Angelis

  1. 208 pagine
  2. Italian
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I paradisi artificiali

Charles Baudelaire, Giuseppe Montesano, Giuseppe Montesano, Milo De Angelis

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Composti tra il 1850 e il 1860, questi saggi raccolgono le riflessioni di Baudelaire sul vino, l'hascisc e le altre droghe, intese come "mezzo per la moltiplicazione dell'individualità". Sono scritti diversi, fortemente influenzati dall'esperienza personale, ma anche elaborati sull'esempio dell'"ebbrezza" di Poe e delle Confessioni di un mangiatore d'oppio dell'inglese De Quincey. In un primo tempo, infatti, il grande poeta francese aveva pensato che lo stato di eccitazione provocato dall'hascisc fosse paragonabile all'invasamento lirico, ma ben presto si era accorto che le droghe provocano uno stato di fantasticheria che rimane fine a se stesso, senza avere effetti apprezzabili sulla creatività. Nell'esercitare il suo acume critico su questo controverso tema, il grande precursore del simbolismo sembra perciò alludere alla profonda autonomia espressiva della poesia, unico mezzo in grado di organizzare e dare forma credibile ai fantasmi edenici dell'uomo.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2014
ISBN
9788852055065

UN MANGIATORE D’OPPIO

I
PRECAUZIONI ORATORIE

«O giusto, sottile e potente oppio! Tu che al cuore del povero come del ricco, per le ferite che non si cicatrizzeranno mai e per le angosce che inducono lo spirito alla ribellione, porti un balsamo che lenisce; eloquente oppio! tu che con la tua potenza retorica disarmi le risoluzioni della collera e che, per una notte, restituisci all’uomo colpevole le speranze della giovinezza e le sue antiche mani non contaminate dal sangue; tu che all’uomo orgoglioso dai un oblio passeggero
Des torts redressés et des insultes non vengées;20
tu che citi i falsi testimoni al tribunale dei sogni, per il trionfo dell’innocenza immolata, tu che confondi lo spergiuro, che annulli le sentenze dei giudici ingiusti; – tu costruisci sul seno delle tenebre, con i materiali immaginari del cervello e con un’arte più profonda di quella di Fidia e di Prassitele, città e templi che superano in splendore Babilonia e Ecatompilo; e dal caos di un sonno pieno di sogni evochi alla luce del sole i volti delle bellezze da lungo tempo sepolte e le fisionomie familiari e benedette, pulite dagli oltraggi della tomba. Tu solo dai all’uomo questi tesori e possiedi le chiavi del paradiso, o giusto, sottile e potente oppio!» – Ma prima che l’autore abbia trovato l’audacia di levare, in onore del suo caro oppio, questo grido violento come la riconoscenza dell’amore, quante astuzie, quante precauzioni oratorie! È l’eterno preambolo di quelli che devono fare confessioni compromettenti, quasi decisi però a compiacersene:
«Grazie all’impegno che vi ho messo, ho fiducia che queste memorie non saranno semplicemente interessanti ma anche, in considerevole misura, utili e istruttive. È proprio in questa speranza che le ho messe per iscritto, e questo mi scuserà di avere infranto il delicato e onorevole riserbo che impedisce alla maggior parte di noi di fare una pubblica esibizione dei propri errori e delle proprie infermità. Niente, è vero, è più adatto a indignare la sensibilità inglese dello spettacolo di un essere umano che impone alla nostra attenzione le sue cicatrici e le sue ulcere morali e che strappa il pudico velo con cui il tempo o l’indulgenza per la fragilità umana aveva permesso di rivestirle.»
Infatti, egli aggiunge, generalmente il crimine e la miseria si ritirano lontano dallo sguardo pubblico e persino nel cimitero si scostano dalla popolazione comune, come se abdicassero umilmente a ogni diritto di dimestichezza con la grande famiglia umana. Ma nel caso del Mangiatore d’oppio non c’è crimine: c’è soltanto debolezza, e una debolezza per di più così facile da scusare! Egli lo proverà in una bibliografia preliminare; inoltre il beneficio che traggono gli altri dagli appunti di un’esperienza comperata a così caro prezzo, può largamente compensare la violenza fatta al pudore morale e creare un’eccezione legittima.
In questa presentazione destinata al lettore troviamo qualche notizia sul popolo misterioso dei mangiatori d’oppio, questa nazione contemplativa perduta in mezzo alla nazione attiva. Sono più numerosi di quello che si crede. Sono professori, sono filosofi, un Lord che occupa la più alta posizione sociale, un sottosegretario di Stato; se casi così numerosi, scelti nelle classi alte della società, sono venuti senza essere stati cercati alla conoscenza di un solo individuo, quale spaventosa statistica si potrebbe compilare sulla popolazione totale dell’Inghilterra! Tre farmacisti di Londra, pur essendo situati in quartieri periferici, affermano (nel 1821) che il numero degli amatori d’oppio è immenso e che la difficoltà di distinguere le persone che se ne servono per una specie di cura da quelli che vogliono procurarsene per uno scopo colpevole è per loro fonte di imbarazzo quotidiano. Ma l’oppio è sceso a visitare i limbi21 della società, e a Manchester, nel pomeriggio del sabato, i banchi dei droghieri sono coperti di pillole preparate in previsione delle domande della sera. Per gli operai delle manifatture l’oppio è una voluttà economica, in quanto il ribasso dei salari può fare della birra e degli alcoolici un’orgia costosa. Ma non crediate che quando il salario aumenterà di nuovo l’operaio inglese abbandoni l’oppio per ritornare alle grossolane gioie dell’alcool. La fascinazione è operata; la volontà è domata; il ricordo del godimento eserciterà la sua eterna tirannia.
Se nature grossolane e abbrutite da un lavoro quotidiano senza fascino possono trovare nell’oppio vaste consolazioni, quale ne sarà dunque l’effetto su uno spirito sottile e letterato, su un’immaginazione ardente e colta, soprattutto se essa è stata prematuramente arata dal fertilizzante dolore, – su un cervello segnato dalla fantasticheria fatale, touched with pensiveness, per servirmi della sorprendente espressione del mio autore? Questo è il tema del meraviglioso libro che dispiegherò come una tappezzeria fantastica sotto gli occhi del lettore. Senza dubbio abbrevierò molto; De Quincey è essenzialmente digressivo; l’espressione humourist può essergli applicata più che a ogni altro; in un passo egli paragona il suo pensiero a un tirso,22 semplice bastone che prende tutta la sua fisionomia e tutto il suo fascino dal fogliame complicato che lo avvolge. Perché il lettore non perda nulla dei quadri commoventi che compongono la sostanza del libro, essendo poco lo spazio di cui dispongo, sarò costretto, con mio grande rammarico, a sopprimere molte divagazioni divertentissime, molte dissertazioni squisite che non riguardano direttamente l’oppio ma hanno come scopo semplicemente quello di illustrare il carattere del mangiatore d’oppio. Il libro comunque è abbastanza vigoroso per farsi indovinare anche sotto questo involucro succinto, anche allo stato di semplice estratto.
L’opera (Confessions of an English opium-eater, being an extract from the life of a scholar)23 è diviso in due parti: la prima, Confessioni; l’altra, il suo complemento, Suspiria de profundis. Ciascuna comporta varie suddivisioni: ne ometterò alcune, che sono come dei corollari o delle appendici. La divisione della prima parte è perfettamente semplice e logica, in quanto nasce dall’argomento stesso: Confessioni preliminari; Voluttà dell’oppio; Torture dell’oppio. Le Confessioni preliminari, sulle quali dovrò indugiare un po’ a lungo, hanno un loro scopo facile da indovinare. Occorre che il personaggio sia conosciuto, che si faccia amare, apprezzare dal lettore. L’autore, che mira a interessare vigorosamente l’attenzione con un argomento apparentemente monotono come la descrizione di un’ebbrezza, tiene vivamente a dimostrare fino a che punto egli sia scusabile; vuole creare per la sua persona una simpatia da cui trarrà vantaggio tutta l’opera. Infine, e questo è molto importante, il racconto di certi incidenti, forse in se stessi banali ma gravi e seri per la sensibilità di chi li ha subiti, diventa, per così dire, la chiave delle sensazioni e delle visioni straordinarie che più tardi assedieranno il suo cervello. Più di un vecchio, curvo su un tavolo di caffè, rivede se stesso vivo in una cerchia scomparsa; la sua ebbrezza è costituita dalla gioventù scomparsa. Così gli avvenimenti raccontati nelle Confessions usurperanno una parte importante nelle visioni posteriori. Risusciteranno come quei sogni che sono soltanto i ricordi deformati o trasfigurati delle ossessioni di una giornata faticosa.

II
CONFESSIONI PRELIMINARI

No, non fu per la ricerca di una voluttà colpevole e oziosa che egli cominciò a fare uso dell’oppio, ma semplicemente per attenuare le torture dello stomaco nate da una crudele abitudine alla fame. Queste angosce della fame risalgono alla sua prima giovinezza: all’età di ventotto anni il male e il rimedio fanno la prima apparizione nella sua vita, dopo un periodo abbastanza lungo di gioia, di sicurezza e di benessere. In quali circostanze si siano prodotte queste angosce fatali, è ciò che vedremo.
Il futuro mangiatore d’oppio aveva sette anni quando suo padre morì, affidandolo a tutori che gli fecero compiere la sua prima educazione in parecchie scuole. Ben presto si distinse per le sue attitudini letterarie, in particolare per una prematura conoscenza della lingua greca. A tredici anni scriveva in greco; a quindici poteva non solo comporre versi greci in metri lirici, ma anche conversare in greco abbondantemente e senza titubanze, facoltà che egli doveva a un’abitudine quotidiana di improvvisare in greco una traduzione dei giornali inglesi. Per la necessità di trovare nella memoria e nell’immaginazione una quantità di perifrasi per esprimere in una lingua morta idee e immagini assolutamente moderne si era creato un dizionario sempre pronto, ben altrimenti complesso ed esteso di quello che deriva dalla banale pazienza di esercitazioni puramente letterarie. «Quel ragazzo – diceva un suo maestro indicandolo a un estraneo – potrebbe arringare una folla ateniese molto meglio di quanto faremmo io o lei di fronte a una folla inglese.» Disgraziatamente il nostro precoce ellenista fu sottratto a questo eccellente maestro; e, dopo essere passato per le mani di un rozzo pedagogo sempre timoroso che il ragazzo si facesse emendatore della sua ignoranza, venne affidato alle cure di un buono e solido professore, il quale però peccava anche lui per difetto di eleganza e non ricordava per nulla l’ardente e smagliante erudizione del primo. Brutta cosa che un ragazzo possa giudicare i suoi maestri e porsi al di sopra di loro. Si traduceva Sofocle e, prima che iniziasse la lezione, lo zelante professore, l’archididascalus, si preparava con una grammatica e un lessico alla lettura dei cori, espurgando in anticipo la sua lezione da tutte le incertezze e da tutte le difficoltà. Intanto il giovane (aveva ora diciassette anni) bruciava dal desiderio di andare all’università e invano tormentava a questo scopo i suoi tutori. Uno di loro, uomo buono e ragionevole, viveva molto lontano. Degli altri tre, due avevano rimesso tutta la loro autorità nelle mani del quarto; e costui ci viene dipinto come il bugiardo più cocciuto del mondo, il più innamorato della propria volontà. Il nostro avventuroso giovanotto prende una grossa decisione: fuggirà dalla scuola. Scrive a un’affascinante ed eccellente signora, senza dubbio un’amica di famiglia, che l’ha tenuto bambino sulle ginocchia, per chiederle cinque ghinee. Ben presto giunge una risposta piena di grazia materna, con il doppio della somma richiesta. La sua borsa di scolaro conteneva ancora due ghinee, e dodici ghinee rappresentano una fortuna infinita per un ragazzo che non conosce le necessità quotidiane della vita. Ora non si tratta più che di effettuare la fuga. Il brano che segue è uno di quelli che non posso rassegnarmi a riassumere. È bene d’altra parte che il lettore possa ogni tanto gustare direttamente lo stile penetrante e femmineo dell’autore.
«Il dottor Johnson24 fa un’osservazione molto giusta (e piena di sentimento, il che purtroppo non si può dire di tutte le sue osservazioni), e cioè che non compiamo mai consapevolmente per l’ultima volta senza provare tristezza ciò che siamo abituati da lungo tempo a fare. Sentii profondamente questa verità quando decisi di lasciare un luogo che non amavo e in cui non ero stato felice. La sera precedente al giorno in cui dovevo fuggire per sempre, udii con tristezza risuonare nella vecchia e alta sala della scuola la preghiera vespertina; infatti la udivo per l’ultima volta; scesa la notte, quando venne fatto l’appello e il mio nome, come al solito, venne chiamato per primo, mi feci avanti e passando davanti al direttore, che era presente, lo salutai; lo guardavo curiosamente in viso e pensavo dentro di me: è vecchio e malato, e non lo rivedrò più in questo mondo! Avevo ragione, perché non l’ho più rivisto e non lo rivedrò mai più. Egli mi guardò benevolo, con un sorriso buono; ricambiò il mio saluto, o meglio il mio addio, e ci lasciammo, senza che ne avesse sospetto, per sempre. Non potevo provare un profondo rispetto per la sua intelligenza, ma si era sempre mostrato buono con me, mi aveva concesso molti favori, e soffrivo al pensiero della mortificazione che stavo per infliggergli.
Giunse il mattino in cui mi dovevo lanciare nel mare del mondo, mattino da cui gran parte della mia vita seguente ha preso colore. Abitavo nella casa del direttore e fin dal mio arrivo avevo ottenuto il privilegio di una camera particolare, che mi serviva sia da stanza da letto sia da studio. Alle tre e mezzo mi alzai e contemplai con profonda ammirazione le vecchie torri di…, ammantate dai primi bagliori, che cominciavano a imporporarsi dello splendore radioso di una mattina di giugno senza nubi. Ero fermo e irremovibile nel mio proposito, e turbato tuttavia da una vaga impressione di inquietudine e di imprecisi pericoli; e se avessi potuto prevedere la tempesta, la vera grandine di sofferenza che doveva ben presto abbattersi su di me, a ragione sarei stato ben altrimenti agitato. La pace profonda del mattino faceva con questo mio turbamento un patetico contrasto e quasi gli serviva da medicina. Il silenzio era più profondo che a mezzanotte; e per me il silenzio di una mattina d’estate è più toccante di ogni altro silenzio, perché la luce, sebbene ampia e forte come quella di mezzogiorno nelle altre stagioni dell’anno, sembra diversa dal giorno perfetto, soprattutto perché l’uomo non è ancora uscito; e così la pace della natura e delle innocenti creature di Dio pare profonda e sicura, fino a quando la presenza dell’uomo, con il suo spirito inquieto e instabile, viene a turbarne la santità. Mi vestii, presi il cappello e i guanti e indugiai un po’ nella mia stanza. Da un anno e mezzo questa stanza era stata la cittadella del mio pensiero; lì avevo letto e studiato durante le lunghe ore della notte; e benché, a dire il vero, nell’ultima parte di questo periodo io che ero fatto per l’amore e per i dolci affetti, avessi perduto la gaiezza e la felicità nella lotta febbrile sostenuta contro il mio tutore, d’altra parte tuttavia un ragazzo come me, innamorato dei libri e dedito alle ricerche dello spirito, non poteva non avervi goduto alcune ore deliziose, anche in mezzo al suo scoraggiamento. Piangevo, guardando intorno a me la poltrona, il caminetto, la scrivania e altri oggetti familiari che ero troppo sicuro di non potere più rivedere. Da quel giorno al momento in cui traccio queste righe sono trascorsi diciotto anni; eppure, anche in questo istante, vedo distintamente, come se fosse successo ieri, il contorno e l’espressione dell’oggetto sul quale fissavo uno sguardo d’addio: era un ritratto della seducente…,a appeso sopra il caminetto: gli occhi e la bocca erano così belli e tutta la fisionomia così radiosa di bontà e di divina serenità, che mille volte avevo lasciato cadere la penna o il libro per chiedere conforto alla sua immagine, come un devoto al suo santo patrono. Mentre mi smarrivo in quella contemplazione, la voce profonda dell’orologio proclamò che erano le quattro. Mi alzai fino al ritratto, lo baciai; poi uscii piano e chiusi la porta per sempre!
Le occasioni di ridere e di versare lacrime si intrecciano e si mischiano così bene in questa vita, che non posso ricordare senza un sorriso un incidente verificatosi allora, che per poco non impedì l’esecuzione immediata del mio piano. Avevo un baule di un peso enorme; oltre i miei abiti, conteneva quasi tutta la mia biblioteca. La difficoltà consisteva nel farlo trasportare da un vetturale. La mia stanza era situata a un’altezza aerea, e la cosa peggiore, era che la scala d’accesso a quell’angolo dell’edificio sboccava in un corridoio che passava davanti alla porta della camera del direttore. Ero adorato da tutti i domestici; sapendo che ognuno di loro si sarebbe affrettato a farmi un favore segreto, confidai le mie difficoltà a un cameriere del direttore. Egli giurò che avrebbe fatto qualunque cosa desiderassi e, giunto il momento, salì le scale per portare via il baule. Temevo che l’impresa fosse superiore alle forze di un solo uomo; ma quel groom era un pezzo di giovanotto dotato
D’épaules atlastiques, faites pour supporter
le poids des plus puissantes monarchies,25
e aveva una schiena vasta come le pianure di Salisbury. Si ostinò dunque a trasportare il baule da solo, mentre io aspettavo pieno di ansia in fondo al primo piano. Per un po’ lo sentii scendere con passo sicuro e lento; ma disgraziatamente, a causa della sua preoccupazione, nell’avvicinarsi al punto pericoloso, a pochi passi dal corridoio il piede gli scivolò e il pesante carico, cadendogli dalle spalle, prese a ogni gradino una tale velocità di discesa che, giunto in fondo, rotolò, o meglio balzò difilato, col fracasso di venti demoni, contro la porta della camera da letto dell’archididascalus. Il mio primo pensiero fu che tutto era perduto e che l’unica possibilità di battere in ritirata consisteva nel sacrificare il mio bagaglio. Ma un attimo di riflessione mi convinse ad attendere la fine dell’avventura. Il groom era in preda a un orribile spavento, per sé e per me; ma, a dispetto di tutto questo, il senso del comico si era, in quel disgraziato contrattempo, così irresistibilmente impadronito del suo spirito, che scoppiò in una risata: una risata prolungata, assordante, a tutto spiano, che avrebbe svegliato i Sette Dormienti. Ai suoni di quell’allegra fanfara, che squillava addirittura all’orecchio dell’autorità oltraggiata, non potei fare a meno di unire la mia, non tanto per l’infelice balordaggine del baule, quanto per l’effetto nervoso manifestatosi nel groom. Ci aspettavamo entrambi, naturalmente, di vedere il dottore balzare fuori dalla stanza: in generale, se udiva muoversi un topo, saltava fuori dalla sua nicchia come un mastino. Fatto singolare, questa volta, quando i nostri scoppi di risa cessarono, nessun rumore si fece udire nella stanza, nemmeno un fruscio. Il dottore era afflitto da una dolorosa infermità che talvolta lo teneva sveglio ma che forse, quando riusciva ad assopirsi, lo faceva dormire più profondamente. Incoraggiato da questo silenzio, il groom si ricaricò il fardello sulle spalle e compì il resto della discesa senza incidenti. Io attesi finché vidi il baule sistemato su un carrettino e avviato verso una vettura. Allora, senza altra guida che quella della Provvidenza, partii a piedi, portando sotto il braccio un pacchetto con alcuni oggetti di toilette, in una tasca un poeta inglese prediletto e nell’altra un piccolo volume in 12° che conteneva, credo, nove tragedie di Euripide.»
Il nostro studente aveva vagheggiato l’idea di dirigersi verso il Westmoreland; ma un incidente che non ci spiega mutò il suo itinerario e lo gettò nel Galles del Nord. Dopo avere errato per qualche tempo nel Denbighshire, nel Merionethshire e nel Caernarvonshire, prese alloggio in una casetta molto pulita, a B…; ma ne fu ben presto scacciato in seguito a un incidente in cui il suo orgoglio giovanile si vide urtato nel più comico dei modi. La sua padrona di casa aveva prestato servizio presso un vescovo, sia come governante sia come bambinaia. L’enorme superbia del clero inglese s’insinua generalmente non solo nei figli dei dignitari ma persino nei loro servitori. In una cittadina come B… avere vissuto nella famiglia di un vescovo bastava evidentemente a conferire una specie di distinzione; sicché la buona signora aveva continuamente sulle labbra frasi come: «Mylord faceva questo, mylord faceva quest’altro; mylord era un uomo indispensabile al Parlamento, indispensabile a Oxford…». Forse ebbe l’impressione che il giovane non ascoltasse con sufficiente riverenza i suoi discorsi. Un giorno era andata a presentare i suoi ossequi al vescovo e alla sua famiglia, e questi l’aveva interrogata sulle sue piccole faccende. Saputo che essa aveva affittato il suo appartamento, il degno prelato si fece premura di raccomandarle di essere molto guardinga nella scelta dei locatari. «Betty – le disse – ricordatevi bene che questo paese è situato sulla strada maestra che conduce alla capitale, per cui è probabile che serva da tappa a una quantità di truffatori irlandesi che fuggono i ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione di Giuseppe Montesano
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. I PARADISI ARTIFICIALI
  7. Del vino e dell’hascisc
  8. I paradisi artificiali
  9. Il poema dell’hascisc
  10. Un mangiatore d’oppio
  11. Note al testo
  12. Postfazione di Jean-Paul Sartre
  13. Copyright