Ebbene, io Ulisse l’ho conosciuto davvero. La domenica se ne andava su e giù per via Caracciolo fino a quando non si sfasteriava, ovvero, stanco e annoiato decideva fosse arrivato il momento di ritornare a casa. Non usciva mai da solo, e poiché una volta era sparito per un tempo che era sembrato infinito, aveva sempre qualcuno che lo teneva per il guinzaglio. Sai com’è, il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Tutto questo perché l’Ulisse che ho conosciuto io non era un uomo ma un cane. E non un cane qualsiasi, ma quello del mio insegnante di italiano del ginnasio, il professor Gargiulo.
Lui nutriva un amore spassionato per la mitologia.
“Cosa sono i miti?” era solito esclamare con fare solenne. “I miti sono delle favole, forse le più belle favole che siano state mai scritte.” E poi proseguiva con la solita solfa: “Sentite, le storie che ci raccontiamo oggi risalgono spesso ai miti greci. Prendiamo per esempio Giulietta e Romeo. Ebbene, nei miti greci Giulietta si chiamava Tisbe, mentre Romeo si chiamava Piramo. Stessa storia, stesso grande amore, stessa tragica fine”.
Insomma, secondo il professor Gargiulo pure William Shakespeare copiava.
Ora, anche voi siete stati ragazzini, quindi potete immaginare cosa rappresentasse per me e i miei compagni incontrare il nostro professore durante le passeggiatine domenicali. Noi seguivamo un percorso preciso, facevamo un calcolo scientifico dei tempi pur di evitarlo. L’obiettivo era trovarci al momento giusto in corrispondenza del capannello di ragazzine che ci interessavano, così da poter lanciare qualche occhiata furtiva e rubare un timido sorriso da ricordare fino all’incontro della domenica successiva. Ovviamente, nel momento in cui incrociavamo il professor Gargiulo tutti i nostri sogni di gloria svanivano in un secondo.
«Buongiorno professore» biascicavamo in coro al suo cospetto.
«Buongiorno ragazzi, avete visto che bella giornata?» rispondeva lui.
«Veramente bella» ribatteva Vincenzino, il meno timido tra noi compagni. «Arriveder...»
«Eh, quello, Ulisse, senza la passeggiata sul lungomare non può stare» proseguiva il professore interrompendo immediatamente il nostro tentativo di fuga. «Ma non è colpa sua, è il richiamo della bella Partenope ad attirarlo qui.»
Ora, perché si sappia, Partenope è stata la prima cantante napoletana che la storia rammenti, anche se, a voler essere sinceri, non è proprio questo il motivo per il quale viene ricordata.
Partenope era una Sirena.
Tutti sono convinti che le Sirene siano delle creature metà donne e metà pesce, dalla bellezza ineguagliabile. In realtà, alcuni dicono fossero delle creature mostruose, avevano la testa di donna e un corpo a forma di uccello, ma una voce così celestiale da incantare chiunque udisse il loro canto. Ascoltare la loro voce, però, per quanto piacevole potesse sembrare, era da considerarsi una vera sventura. I marinai che disgraziatamente attraversavano il tratto di mare in prossimità del loro isolotto, udito quel canto ingannevole, andavano incontro a morte certa.
Partenope abitava con le sue sorelle, Aglape, Molpè, Leucosia e Ligea, su un’isola situata tra la rupe di Scilla e l’isola di Circe. Dove si trovasse di preciso questa benedetta isola delle Sirene non si è mai saputo. Secondo alcuni, infatti, sarebbe stata Capri, secondo altri invece Procida, Ischia, Lampedusa, Nisida. Secondo altri, le Sirene abitavano Li Galli, il piccolo arcipelago al largo di Positano. Per altri ancora, l’isolotto non si trovava nemmeno in Italia, ma era un’isola della Norvegia, Sjernarøy.
Come dire, ogni popolo ha la sua Sirena.
Un giorno le Sirene videro arrivare la nave di Ulisse e intonarono i loro canti seduttivi con l’intento di farla finire sugli scogli. Per fortuna, però, prima di riprendere il suo viaggio verso Itaca, Ulisse era stato messo in guardia dalla maga Circe: “Ulisse, statti accorto alle Sirene” aveva detto più o meno così, “mi raccomando, guardati bene dall’ascoltare il loro canto, altrimenti non arrivi più a Itaca”.
Ora, apro una parentesi.
Vi siete chiesti perché Ulisse nell’Odissea non riesce mai a trovare la strada di casa? Era una questione di pancia. Nell’antichità non esisteva la televisione, ovviamente, e per trascorrere la serata i greci, dopo cena, convocavano un buon narratore, possibilmente cieco, uno come Omero tanto per intenderci, e in cambio di una buona cenetta gli facevano raccontare una storia. Omero aveva tutto l’interesse a prolungare la sua il più possibile, e un po’ come per le telenovele, era solito interrompere il racconto sul più bello e rimandarlo al giorno successivo. Come a dire: “Io più lo faccio girare a questo qui, più dura la storia e più inviti a cena rimedio”.
Ecco, chiudo la parentesi.
Pur essendo consapevole del pericolo, Ulisse era curioso di udire il tanto famigerato canto e, come tutti sanno, con uno stratagemma riuscì a restarne indenne. A quel punto le Sirene, ferite nell’orgoglio per non essere riuscite a far schiantare la sua nave sugli scogli, decisero di farla finita e si suicidarono. Il corpo di una di loro, quello di Partenope, fu trasportato dalle onde sulla terraferma, e per la precisione sull’isolotto di Megaride; dalle sue fertili spoglie nacque una città molto bella a cui venne dato il nome della Sirena considerata la Grande Madre della Campania felix.
Questa, però, non è l’unica storia sull’origine di Napoli. Santa Lucia è stata, con ogni probabilità, il primo insediamento greco consolidatosi in Campania. Nel IX secolo a.C. una ciurma di Achei (o di marinai anatolici, fa lo stesso) si lasciò sedurre dalla felice configurazione della costa e decise di sbarcare sulla spiaggia del Chiatamone per fondare una città: Partenope. C’è una storia, infatti, secondo la quale Partenope non era una Sirena, ma una principessa greca, per giunta vergine, che guidata da una colomba giunse sul monte Echia, un piccolo promontorio che dominava l’isolotto di Megaride, dove oggi sorge Castel dell’Ovo, e lì decise di fondare la città che prese il suo nome. La zona offriva tutto quello che un colonizzatore greco avrebbe potuto desiderare: un porticciolo riparato, all’interno di un golfo dalle acque tranquille, un’isola, quella di Megaride, abbastanza vicina da poter essere usata come sentinella a mare, il monte Echia a fare da acropoli e, per finire, un ampio vallone alle spalle (l’attuale via Chiaia) che la proteggeva da eventuali attacchi da terra.
Io sono nato a pochi metri dallo scoglio di Partenope. Durante le notti d’estate, quando faceva troppo caldo per dormire, le donne dei bassi radunavano tutti i bambini e li portavano in riva al mare per raccontare loro storie e leggende. La preferita da noi ragazzini era quella che iniziava più o meno così: “C’era una volta una Sirena...”. Ora, sarà stato il caldo o la suggestione del racconto mista al continuo frangersi delle onde sugli scogli, ma a un certo punto a noi sembrava quasi di vederla, la Sirena, e anche di sentire il suo canto. Forse è per questo che mi piace credere che Partenope fosse una Sirena e non una principessa, come mi piace pensare che non sia mort...