Je sto vicino a te
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Je sto vicino a te

  1. 120 pagine
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«Napoli è ritmo. La sua musica è impossibile non sentirla, ancora oggi, passeggiando per le vie. Quando eravamo bambini noi – Pino, io e i nostri fratelli –, la musica riempiva i vicoli, si infilava sotto le porte, scandiva le giornate della gente. Ci era familiare quanto i colpi di martello dei fabbri del porto, quanto le sgasate dei motorini, le sgridate delle madri, i commenti degli uomini affacciati al balcone, in canottiera, in attesa che la tavola venisse apparecchiata. La domenica mattina i vicoli si riempivano dell'odore del sugo, che sobbolliva per ore. Qualcuno fischiava, qualcun altro martellava, altri ancora chiamavano figli o mariti, e in sottofondo si riconoscevano le voci genuine di Peppino Brio e Antonio Buonomo, grandi artisti e grandi napoletani. Alcune radio mandavano in onda tutto il giorno solo musica di quel genere, perché a Napoli non si ascoltava altro a parte i neomelodici. Solo, di tanto in tanto, era ammesso cambiare stazione e sintonizzarsi su Radio Uno o Radio Due, alla ricerca del giornale radio. A ripensarci ora, sembra siano trascorsi secoli.» A un anno dalla scomparsa di Pino Daniele, il fratello più giovane Nello – che lui chiamava Nelli' – apre il baule dei ricordi familiari e ne estrae ricordi, abbracci, litigate, sofferenze, chitarre, vecchie zie e soldati americani, pizze fritte, Mario Merola, gli ultras del Napoli, James Senese, papà e mamma, la bella 'mbriana, i concerti, i dischi d'oro e di platino, gli interventi a cuore aperto, Formia e, purtroppo, la telefonata di saluto fra i due fratelli che sarebbe poi risultata di addio. Una bellissima vicenda privata, una straordinaria vicenda pubblica e artistica.

Partendo da vico Candelora, minuscola stradina a una corsa di scugnizzo dal monastero di Santa Chiara, Pino Daniele ha creato nuovi spartiti nel già sontuoso libro della musica partenopea. Ha fuso l'umanità dei vicoli con le sonorità del blues, anima napoletana dentro anima nera, conquistandosi un posto fra i grandi della musica internazionale.

Je sto vicino a te è il racconto del Pino sconosciuto, figlio di un portuale e di una casalinga, fratello maggiore cresciuto in casa delle zie non sposate, poi a sua volta marito e padre affettuoso di cinque meravigliosi figli. Una storia eccezionale e strappacuore come una sua canzone.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852070013

Arrivi, distanze, partenze

In quegli anni è successa una cosa strana. Man mano che la musica diventava sempre più parte di me, mi allontanavo da Pino. Questa distanza si avverte anche nelle nostre canzoni: mentre io rimanevo fedele alla mia linea, lui ha fatto una svolta artistica, scostandosi dal sound delle sue prime produzioni. Sono nati dischi molto diversi, che hanno registrato record di vendite: è il caso di «Non calpestate i fiori del deserto», uscito nel 1995.
Per una decina d’anni buoni ci siamo un po’ persi, per tanti motivi.
Innanzitutto non volevo confondere il mio nome con il suo, farlo sentire «assediato» dal fratello minore che aveva intrapreso la sua stessa strada. Tant’è che tutta la gavetta me la sono fatta sotto la sigla «ND». Non è stata una rinuncia, ma una scelta precisa e meditata. Se Pino nemmeno si poneva il problema, io sì. Eccome. Finché si era trattato di andare a trovarlo a Formia, di accompagnarlo di qua e di là, di seguirlo in tour, giocavo e mi divertivo proprio come farebbe il fratello più piccolo. E Pino mi assecondava senza problemi, anzi. Poi, con l’inizio della mia carriera, è come se si fosse rotto qualcosa. Volevo sbrigarmela da solo, ne avevo bisogno, quindi ho cercato una dimensione tutta mia, che non ammetteva la presenza e neanche i consigli di nessuno. Non l’ho calcolato, è chiaro (altrimenti adesso non credo proverei tutto questo rammarico). Forse dovevo formarmi come persona e come artista proprio in solitudine. Forse temevo che, rimanendogli accanto come ero abituato a fare, mi sarei sentito sempre secondo, sempre troppo piccolo.
Fatto sta che nel nostro rapporto, che era sempre stato schietto e sincero, cominciai a camminare come sulle uova. Lui mi ha sempre cercato, tentava anche di attenuare la tensione fra noi spronandomi e scherzando, ma io venivo regolarmente colto da una strana timidezza, da una sorta di pudore che mi suggeriva di stare da un’altra parte. Diventava un problema pure telefonargli, dubitando di me stesso e di lui: lo stavo facendo per amore fraterno oppure per cercare una vicinanza di cui Pino non aveva bisogno e nemmeno avvertiva il desiderio?
Adesso so che, se non volevo confrontarmi con Pino l’artista, potevo farlo con Pino il fratello. Mi sarebbe servito, per la verità, nel mondo di volponi in cui ero finito. Lui sarebbe stato generoso come sempre, mi avrebbe dato una mano e mi avrebbe consigliato per il meglio. Paternamente, come sapeva fare. Allora però soffrivo la sua grandezza, non solo musicale, ma anche umana. Pino aveva una personalità talmente forte che incuteva rispetto in tutti. In lui si vedeva prima Pino Daniele, il talento irraggiungibile, poi Pinotto, l’amico buono, il ragazzo in carne. Forse solo nostro padre lo trattava da Pino, rimproverandolo con toni spesso molto accesi. Naturalmente, in qualche occasione, gli chiedeva aiuto perché aveva bisogno, e dal suo punto di vista era giusto che il figlio si facesse carico di dare una mano. Gli diceva espressamente: «Perché sei mio figlio, e i’ sto in difficoltà!». A volte chiedeva troppo, e la sua reputazione di giocatore non gli facilitava il compito. Eppure mio fratello, in più di una circostanza, ha fatto fronte senza fiatare.
Quando ripenso a quel periodo, mi vengono in mente tutte le cose che Pino e io ci siamo persi, la vicinanza, le confidenze, le risate, le chiacchiere e anche, perché no, il parlare da adulti del nostro lavoro.
Questo mio bisogno di lontananza è stato un errore, forse dovuto in parte alla differenza di età: quando sei così tanto più piccolo di tuo fratello, e lui diventa un artista così grande, trovare il modo di interagire da pari non è semplice. Con gli altri miei fratelli, Carmine e Salvatore, non ricorrevo a tutte quelle cautele. Con Pino, mi sentivo intrappolato nel ruolo del fratello minore e mi sembrava che l’unica via d’uscita fosse allontanarmi, crescere da solo e poi fare ritorno.
Quando abbiamo avuto modo di chiarirci, più avanti, mi fu subito chiaro che quello era stato un problema solo mio. Ho scoperto che Pino sapeva tutto di me, ma davvero tutto. Conosceva ogni mio difetto e anche i pregi. Tra questi, il fatto che non gli avessi mai chiesto niente. Niente di simile a «Pino damme chesto e damme chello» è mai uscito dalla mia bocca. Avrebbe voluto anzi che gli rompessi un po’ più le scatole! È stato bellissimo scoprire che, nonostante la mia chiusura, lui aveva capito tutto: il mio carattere, ciò che sono, i miei sentimenti più profondi.
In quel periodo, inoltre, avvenne un altro grosso cambiamento che non contribuì ad aiutare il nostro rapporto: il trasferimento di Pino a Roma. Io ho rivoluzionato la mia vita più di una volta, ma anche lui non ha scherzato! Finito il matrimonio con Dorina, sposò Fabiola e, con lei, si spostò nella Capitale.
Se a Formia trascorreva il suo tempo fra la casa e lo studio, in una sorta di intimità «diffusa» che gli permetteva di sentirsi davvero libero, se stesso in ogni momento, la vita romana era completamente diversa. Pino aveva accanto a sé una donna che amava e dalla quale era riamato, ma era passato dal paesino dove tutti lo conoscevano e si erano abituati a lui al ritmo caotico della grande città. È stato un bel salto. Era un po’ turbato da tutto questo, come credo sarebbe stato normale per chiunque. Le sue ragioni profonde, però, le posso solo immaginare: con il cambiamento della geografia familiare, infatti, abbiamo avuto meno occasioni di frequentarci. Ci siamo visti quando accompagnavo a casa sua nostra madre, ma senza avere a disposizione momenti solo per noi, come accadeva negli studi Bagaria.
Ho avuto modo invece di osservare con i miei occhi cosa non cambiava e non sarebbe cambiato mai: il suo amore per la famiglia, per i figli. Quelli avuti da Dorina, Cristina e Alessandro, e quelli avuti da Fabiola, Sara, Sofia e Francesco. Forse è proprio l’aver sofferto la distanza con nostro padre ad averlo reso un papà così premuroso e dolce. Era garbato – nei gesti e nelle parole – perché voleva insegnare loro la delicatezza, il valore del prendersi cura l’uno dell’altro. Era capace di stare accanto ai suoi ragazzi con l’esempio, oltre che con consigli e suggerimenti. Parlo anche dei ritmi che si imponeva, che rispecchiavano la sua ben definita lista delle priorità: prima la famiglia, poi la musica e il lavoro. L’ho sentito spesso decantare l’importanza del senso del dovere, del guadagnarsi le cose con impegno e sacrificio, indipendentemente dalle possibilità offerte dalla famiglia. Ai figli ripeteva che la vera ricchezza non è certo da ricercarsi nel conto in banca. La frase esatta credo fosse: «C’è chi è ricco anche senza soldi. È ricco dentro, nell’anima».
Questi per la verità sono stati insegnamenti che sento di aver ricevuto anch’io da Pino e che ho provato a fare miei e a trasmettere a mia figlia, Martina.
È nata nel 1997, dal mio matrimonio con Antonella. Io, purtroppo, in quel momento non ero presente. Ero fuori per lavoro. Non appena l’ho saputo, mi sono precipitato a Napoli con il primo volo, per condividere con lei la gioia di quell’evento.
Allora ero in piena ascesa. Avevo impegni di lavoro frequentissimi, tanti fuori Napoli. Antonella e io ne parlammo a lungo e insieme decidemmo che lei e Martina si sarebbero trasferite momentaneamente in Calabria, dove vivevano la madre e la sorella di Antonella, che avrebbero saputo starle accanto e darle tutto l’aiuto di cui una giovane neomamma ha bisogno.
Non essere stato vicino a mia moglie e a mia figlia in quel periodo (e negli anni a venire) è una delle cose che mi rimprovero. D’altra parte, si trattava di scegliere tra due futuri possibili per Martina: ho scelto quello che credevo mi avrebbe permesso di offrirle di più. Allora non credo di aver sbagliato; piuttosto, gli errori sono venuti dopo. Quando, privo della cornice familiare nella quale ero più o meno sempre vissuto, mi sono perso.
Tra la fine degli anni Novanta e il 2002 il mio lavoro è stato molto intenso.
Dopo il successo dei miei primi due album (il secondo, «Dimmi che è vero», uscì nel 2001), musicalmente mi sono un po’ rilassato. Arrivò anche per me il momento di collaborare con artisti importanti e salii sul palco con grandi del calibro di Solomon Burke e Billy Preston. Incontrai Solomon al premio Recanati: ero in estasi, avrei suonato con il genio insuperato del soul! Sono salito con la mia chitarra durante la sua esibizione e ho fatto Si potrebbe amare. Lui ha detto: «Good, good» e mi ha regalato una rosa.
Con me hanno suonato tanti dei musicisti che hanno avuto a che fare con Pino, ma non solo. Ho lavorato con il grandissimo batterista Alfredo Golino, con James Senese, Enzo Gragnaniello, Francesco Baccini…
Da allora in poi i giornali non scrissero più «Nello Daniele, il fratello di Pino», ma «Nello Daniele, il chitarrista napoletano». Dopo anni, stavano «accumincianno a capi’» chi ero. E non c’era nulla di cui mi sentissi più fiero.
Peccato che nel frattempo sul fronte personale le cose non andassero così bene. Ero troppo spesso lontano da tutti i miei cari – Antonella e Martina, ma anche mia madre, i miei fratelli e sorelle, Pino stesso –, quindi, particolarmente grato agli amici con i quali in quel momento condividevo concerti, serate o semplicemente una pizza. Uno di loro era Federico Vacalebre, critico musicale del «Mattino di Napoli» che aveva seguito Pino fin dal suo esordio. Ci conoscemmo a Milano, nel periodo del mio debutto discografico, e ci frequentammo a lungo. Un altro animo gentile che mi rimase accanto allora è Antonio Pirozzi, detto «’O russo», uno dei ragazzi che aveva lavorato con me al bar Nilo.
Ci sono momenti in cui gli amici, però, non bastano. A meno che non si assumano l’onere di farci un po’ da padri. L’unica persona che avrebbe potuto comportarsi così con me era Pino, ma, quando ci provava, lo respingevo.
Lo sentivo poco in quel periodo di fermento, qualche volta per telefono. A volte mi chiamava lui per mettermi in guardia, come se qualche malelingua gli avesse riferito qualcosa che non gli piaceva e che non voleva dirmi chiaramente. Si inerpicava in espressioni il più possibile generiche, poi mi raccomandava sempre di essere coerente con me stesso: «Nu’ te fa fottere da ’e sciacalle!» chiosava.
Non capivo fino in fondo a cosa alludesse. Immaginavo che qualcuno gli avesse parlato male di me. Avevo paura che potesse pensare che mi ero montato la testa ma non il coraggio di chiederglielo apertamente, quindi annuivo, sorridevo e riattaccavo, pensando e ripensando al nostro dialogo. I giudizi di Pino per me erano importanti, ci tenevo a sapere la sua opinione, ma al tempo stesso li temevo: mi mettevano ansia, mi inducevano a dubitare delle mie azioni. Li sfuggivo. Lui se ne accorgeva benissimo e mi diceva: «Tu scappe sempe, eh! Scappe sempe…».
Era vero. Scappavo. Ho cominciato a commettere una serie di errori, più che altro imprudenze, ingenuità. Mi sono comprato la macchina grossa, per dirne una. Invece di raggiungere mia moglie e mia figlia in Calabria a ogni occasione, passavo la notte fuori per locali, divertendomi con gli amici. Il senso di colpa non mi dava tregua, ma non abbastanza da farmi cambiare direzione.
Ho dilapidato una quantità enorme di soldi.
In parte, l’ho fatto per cercare di soffocare la paura. Avevo il terrore che tutto finisse da un momento all’altro: fine della mia carriera musicale, fine dei dischi, fine dei soldi. L’ho anche cantato questo sentimento, in Che ne sai. Temevo di ripiombare di nuovo nella miseria e, per esorcizzare quella paura, spendevo, come per dimostrare a me stesso che finalmente ce l’avevo fatta: ero benestante, avevo davanti un futuro roseo, il successo non sarebbe finito, anzi…
Pino mi suggeriva di non sprecare i soldi in oggetti che non durano, ma di investire per il bene della mia famiglia, ma non capivo. Pensavo, tra me e me: “Tu hai vissuto a modo tuo… Pur’io aggia campa’ a modo mio!”. So che quelle erano debolezze, ma allora mi sembravano necessità, sfizi che era giusto mi concedessi.
In quel momento non potevo capire quanto sarebbe stato saggio comportarmi come lui. Lo vedevo vicinissimo alla famiglia, meticoloso sul lavoro, rigoroso nello studio. Era parsimonioso, non si era mai concesso neanche mezzo piacere vano. Io non ero più un ragazzino, avevo superato la trentina, ma mi comportavo in modo molto più superficiale. Ero distante dagli affetti più cari, ma mascheravo la mia solitudine da libertà e mi vivevo il mio successo senza troppo pensare alle conseguenze.
La verità è che avevo perso il polso della situazione.
È l’esperienza a renderci uomini, mostrandoci la direzione giusta più di tante parole. Lo so bene. Ma quando rifletto su quel periodo della mia vita rimpiango le scelte giuste che avrei potuto fare e che non ho fatto. Avrei dovuto seguire le raccomandazioni di chi aveva più esperienza di me, ma ho preferito non ascoltare.
Mi consola la certezza di non aver mai disonorato il nome che porto. Ho fatto male a me stesso, innanzitutto. E alla fine quello che più temevo è avvenuto.
I soldi finirono, il lavoro diminuì, e con esso il successo.
Raggiunsi mia moglie e mia figlia in Calabria. A Napoli tornavo ogni tanto. Mi fermavo a Licola, nella villetta acquistata insieme ad Antonella, dove avevamo vissuto i primi tempi e avevo lo studio.
Fu un momento difficile, ma positivo: avevo ritrovato intatti gli affetti familiari, Antonella era incinta della nostra seconda figlia. Purtroppo, però, dopo accadde una di quelle cose che non dovrebbero succedere. Mai.
Ero a casa di mia madre. Antonella mi telefonò alle sei del mattino: stava partendo per andare in ospedale a partorire. Mi misi immediatamente in macchina. Trovai i nostri parenti ad aspettarmi nel parcheggio dell’ospedale. Volevano rassicurarmi: «Antonella sta bene, è in reparto» mi spiegarono. «Ma…» non sapevano come fare a dirmelo «la bambina non ce l’ha fatta.»
Mi girò la testa, poi pensai a mia moglie. Mi preoccupai per lei, per la sua salute. Non mi concentrai sulla bambina. Dovevo vedere Antonella. Mi precipitai nella sua stanza e la trovai priva di forze, il viso segnato dalle lacrime che aveva versato per tutto il tempo.
Mi chinai su di lei per abbracciarla. Avevo bisogno di toccarla, di sentire che era viva, anche se in quella stanza non c’era nulla che parlasse di vita. Quando le nostre dita si intrecciarono, avvertii un gelo spaventoso. Il gelo della disperazione, dello sconforto, del vuoto.
La perdita della nostra bambina è stata un lutto insopportabile per tutta la famiglia, Martina compresa, che aveva sempre desiderato una sorellina. La chiamammo Marika, come avevamo deciso prima che nascesse, e la seppellimmo nel cimitero del paese.
Da quel giorno rimanere in Calabria divenne impossibile. Lì eravamo stati bene per molti anni, Martina era cresciuta in un ambiente sano e accogliente, ma era giunto il momento di andare via.
Nel 2004 ci trasferimmo in Toscana, a Siena, dove si era spostata buona parte della famiglia di mia moglie. Più avanti abbiamo portato con noi anche Marika, che oggi riposa nel cimitero vicino a casa.
La nascita della nostra bambina senza vita ha creato nella mia famiglia una vera e propria frattura. Io e Antonella ci siamo chiusi in lunghi silenzi devastanti, alla ricerca ciascuno per conto proprio di quella consolazione che insieme non riuscivamo a trovare. Senza volerlo, ci siamo allontanati.
Io sono stato spesso fuori casa, di nuovo. Il lavoro mi dava la possibilità di scostarmi per qualche attimo dal pensiero fisso della nostra bambina e io ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Je sto vicino a te
  4. Un mondo nuovo
  5. Napoli secondo noi
  6. Quando Pino era «Pinotto»
  7. Pino in bianco e nero
  8. Da cosa nasce cosa
  9. Male al cuore
  10. Cambio pelle
  11. Arrivi, distanze, partenze
  12. Scusate il ritardo
  13. Tutto come allora
  14. Daniele canta Daniele
  15. Musicoterapia
  16. Una foto sul comodino
  17. Chitarre allo specchio
  18. Copyright