Fu giornata cupa e di premonizioni. Nel tratto a piedi fra l’università e il nostro ristorante preferito – uno stanzone tiepido in via San Vitale, gestito da un amabile, grosso uomo romagnolo –, l’antivigilia di San Valentino del 1974, Francesco Arcangeli si fermò come ipnotizzato davanti allo spaccato di una casa in ristrutturazione. Nella cornice di consunti mattoni bolognesi, si vedevano stanze ripassate mille volte con i colori più diversi: azzurri dilavati, gialli sporchicci, grigi intonacati di fumo.
Arcangeli, che sosteneva di capire la tristezza ma di provare sospetto per la malinconia, mi apparve abissalmente malinconico: fu un pensiero che formulai con assoluta consapevolezza. «Giuseppe Maria Crespi...» disse. «Quanta vitaccia...» A tavola, mi chiese se avevo paura della morte. Con la stupida baldanza dei ventenni risposi di no, che non me ne importava nulla.
«Sai, io comincio a pensarci.» Fu obiezione strana, che proveniva da quel punto barricato del suo cuore in cui entravano a fatica anche gli amici più intimi. E si verificarono poi altre due anomalie. Per mille pranzi che abbiamo fatto insieme, sono riuscito a pagare il conto due volte soltanto. La prima, a causa della presenza di estranei. La seconda cadde in quel giorno. Non oppose resistenza. E quando, poco dopo, lo accompagnai in macchina all’ospedale Sant’Orsola, per una visita a Cesare Gnudi ricoverato per i primi problemi di cuore, con mia grande sorpresa, salutandomi, mi abbracciò e mi baciò.
È difficile dire... Ma io sono certo che quando staccai la cornetta del telefono, all’alba del 14 febbraio 1974, il messaggio del diavolo era pienamente atteso. «È morto Arcangeli.» Nel tratto in macchina verso il solito Sant’Orsola (luogo d’appuntamento delle ore luttuose: ogni bolognese mi capirà), vicino a un parco, pensai ai grigi e ai verdi di cui aveva parlato quaranta ore prima, ricordando una sua gita domenicale. Poi lo vidi arrivare, su una barella e coperto da un lenzuolo. Era piccolo. Quell’uomo che a me appariva gigantesco, e giusto, e protettivo, e tormentoso come un ciclone; quell’essere che sprigionava intorno a sé turbini di energia, di odio, di amore, di tenerezza, di irritazione e di coraggio; quel monolite radioattivo che aveva travolto le nostre esistenze, adesso era lì, piccolo e spento. Capii in quel momento che molte persone mi avrebbero ancora insegnato qualcosa della vita. Ma di maestri; di stramaledetti padri, con il mostruoso carico di baccagliamenti e di possessi che portano con sé, io non ne avevo più. Non ne avrei avuti mai più.
Sette anni prima, in un giorno di primavera, ero seduto in istituto, e studiavo con moderata diligenza le lettere di Van Gogh, per una tesi di laurea che non appagava i miei desideri per la storia dell’arte che avevo sognato. Entrò una specie di Maigret che, passandomi alle spalle, buttò l’occhio sulle pagine del mio libro.
«È il nuovo professore» sussurrò un amico. E lui, il professore, poco dopo tornò e sedette sulla panca accanto a me. Dal borsone pieno di fotografie che brandiva come una cassaforte, estrasse un bianco e nero. «Chi è il pittore e quand’è stato eseguito il quadro!?» Farfugliai che il pittore era facile, perché si leggeva una firma abbastanza riconoscibile: Pissarro. Poi cercai di pensare, con la testa affogata nella marmellata. Dissi: «Qui c’è un numero, 86, ma mi sembra tardi. Sembra ancora Courbet!». E, rinfrancandomi, feci un lungo, verosimilmente velleitario ragionamento sulla pittura occidentale, ragionamento che si restringeva, a spirale, sulla particolarissima giornata di quel pittore francese. Arcangeli mi scrutava come persona degna di qualche interesse. Poi sorrise. E disse: «Un ragionamento ambizioso». A quel punto, io avevo già cambiato tesi di laurea e vita.
In Francesco Arcangeli, la cultura – immensa cultura – si identificava puntualmente e totalmente proprio con la vita. «L’arte nasce dall’arte» aveva detto Roberto Longhi. «No. L’arte nasce dalla vita»: su questo punto, l’allievo bolognese non aveva ceduto di un millimetro, a costo di affrontare una rottura con il suo venerato, temuto, maestro. E lei, la vita, ambiva a essere delibazione vertiginosa e totale di tutto ciò che passa sotto il filtro dei sensi e dell’intelletto, ma in prima istanza significava dialogo; con tutti; perché in tutti è accesa la fiammella di umanità che porta a esprimersi, cioè a creare l’arte, e a capire che cos’è l’arte.
La prova definitiva venne proprio dal giorno dei funerali. Un collega romano più anziano di me era stupefatto alla vista delle migliaia di persone che gremivano piazza Maggiore come per un comizio politico. Amore pesante, indistinto, da tagliarsi con il coltello. I taxisti che portavano in giro Arcangeli, di giorno e di notte, erano schierati in silenzio come una guardia d’onore. In un angolo remoto, il nostro oste di via San Vitale guardava il selciato. Si avvicinò proprio a me, per farmi le condoglianze: «Era una degna persona».
Ma le conferme sono tante, e conosco decine di amici o estranei ognuno dei quali avrebbe il suo episodio da raccontare.
Nel luglio del ’69, incontrai casualmente Arcangeli sulla porta dell’università, alle sette di sera. Era un caldo infame. Arcangeli disse che, nell’estate del ’28 (il «tempo memorabile» cui allude nell’avvio – memorabile – della sua monografia su Morandi), aveva scoperto l’unica difesa possibile a Bologna: la valletta fuori Porta D’Azeglio, che convoglia in città un po’ d’aria dalle colline. Nella trattoria che ci ospitò, sapevano a stento che, in quella notte, l’uomo sarebbe sbarcato sulla luna. Di certo non prevedevano che avrebbero seguito l’evento con grida di partecipazione. Fino alle sette del giorno seguente. Dopo una notte insonne – «vertiginosa» – di dialogo e di umanità.
Quando lasciai Arcangeli davanti alla sua meravigliosa casa di Strada Maggiore, in una mattina chiara e già brulicante di accenti petroniani, mormorò: «Vorrebbero tornare antropocentrici. Ma si sbagliano...».
Nella primavera precedente, 1968, si era vissuti forzosamente di «politica»: le virgolette significano che, nel caso di Arcangeli, «politica» va intesa nel senso più ampio del termine. Il mio maestro si definiva anarchico-riformista, e votava per Pietro Nenni. Quei capetti prepotenti e militarizzati gli stavano pesantemente antipatici. Tutti, meno quelli intelligenti, naturalmente. Io facevo da tramite, per discussioni furibonde in cui qualsiasi mente pratica avrebbe visto l’impossibilità di una vittoria rivoluzionaria, discussioni che coinvolgevano immancabilmente Sebastián Matta, come esempio di una possibile, ancorché abortita (nel senso «eversivo» del termine), arte terzomondista. Non rivelo un segreto di Stato se ricordo che Stefano Bonaga e il mitico Bifo adoravano quel professore così intelligente e così anomalo, e gli avevano creato intorno (loro, leader del Movimento) una specie di cortina di protezione. In assemblea o nell’università, lui poteva dire quello che voleva; poteva anche provocare (ho assistito a scene che, con altri protagonisti, si sarebbero risolte in tragedia); perché lui era lui.
E perché quello era ancora un mondo di umanisti. Per l’arte; ma, devo proprio insistere, per l’arte-vita, il pensiero di Arcangeli era romantico e fondamentalmente espressionista: ciò che costituiva il margine di interno, ma gigantesco rinnovamento rispetto a Roberto Longhi. L’idea «naturalista», cui gli ottusi limitano la sua sapienza ed esegesi critica, quella sì aveva origini longhiane, ma era solo la placenta su cui si innestavano le chiavi «moderne» (nel senso della critica militante, oltre che in quello della storia dell’arte) degli altri due termini, romantico e espressionista. Sui quali, mi avvedo, sono ancor oggi necessarie robustissime precisazioni semantiche; tanto pervicace è l’incapacità di comprendere, o la volontà di non comprendere.
Se per Romanticismo si intende la melassa sentimentalistica diffusa da un certo Ottocento, nessuno l’ha avversata più di Arcangeli, che a quest’uopo si è visto costretto a rovesciare, genialmente, l’interpretazione tradizionale dell’Impressionismo. Romanticismo era, per Arcangeli, il senso dell’illimite, con la desolazione che le perdute illusioni umanistiche portavano con sé. Romanticismo erano Turner e Friedrich, ma anche Jackson Pollock, coetaneo ed esempio di vita: per ben due volte, il professore mi confidò che il libro-testamento della sua vita avrebbe dovuto scriverlo, più ancora che su Giorgio Morandi, sul pittore americano, emblema morale di un’intera generazione. Quanto all’Espressionismo, si identificava ben poco con l’omonimo movimento tedesco. Espressionismo significava, per Arcangeli, visione non classica, anticlassica, disperata e «realistica», nel senso di una obiettiva assenza di perfezione che decide – ab origine – il destino dell’uomo e delle cose.
Ma procediamo con ordine (perché l’ordine, nella produzione di Arcangeli, c’è, e si compone in un sontuoso affresco che ha, per crudeltà del destino, un solo buco nero, la mancata presenza, nelle proporzioni dovute, proprio del protagonista risolutivo: Jackson Pollock). So benissimo che la sua visione primeva e appunto «espressionistica» di Wiligelmo ha suscitato fra i medievisti – adusi alla rassicurante idea di uno scultore che comincia a ritessere la sintassi del linguaggio «classico» – infinite discussioni e colossali rifiuti. Ma è curioso come il tempo aiuti la verità e l’intelligenza. Arcangeli conosceva benissimo la scultura romanica, soprattutto padana, francese e tedesca (con fondamentali debiti, in questo senso, verso Ennio Morlotti, col quale partiva per misteriosi e sofisticati viaggi in valli ignorate da tutti), e non mancava certo di prospettiva storica. Ma chi, oggi, negherebbe che Wiligelmo, nel suo contesto, è un unicum, che spinge infinitamente avanti la tematica di un uomo che sbozzola sanguinosamente la propria fisicità, al cospetto di un Dio arcigno e inflessibile? Dove mai porta la sua grandezza, se non verso le idee che hanno sostanziato l’arte dei secoli successivi?
Si presti attenzione: le scelte «locali» di Arcangeli (riassunte definitivamente nel testo Natura ed espressione nell’arte bolognese-emiliana, 1970, ammirato non solo da un fenomenologo come Anceschi, ma dagli «antropologi» di scuola anglosassone) si appuntarono su artisti che poi sono stati riconosciuti come fari del loro tempo, e tutto, dunque, meno che «provinciali». Amico Aspertini (formatosi a Roma) è la più precoce e scatenata alternativa al classicismo raffaellesco. Ludovico Carracci è la voce grave e plumblea di un «naturalismo riformato» (avvolto da pesanti, forse perversi aliti di Controriforma), che diventerà la chiave dell’arte sacra in tutto il Seicento. E quanto a Giuseppe Maria Crespi, non c’è storiografo che non lo veda come punta del cuneo che apre i varchi verso la pittura di genere settecentesca, ma soprattutto verso una meditazione luministica e realistica che ne fa l’erede più acuto di Rembrandt, e il padre nobile del migliore Ottocento. Tutti costoro erano bolognesi. Fu colpa del bolognese Arcangeli, se scrisse di loro prima e meglio degli altri?
Infatti, quando, con gli albori della pittura contemporanea, il suo occhio critico si allargò all’arte internazionale, i risultati apparvero, se possibile, ancora più sconvolgenti. Le precisazioni sulla nascita del Romanticismo, con l’identificazione di una temperie anglo-tedesca che anticipa di ben vent’anni le conclamate ap...