Cuore depravato
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Cuore depravato

  1. 408 pagine
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Cuore depravato

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Cambridge, Massachusetts. Kay Scarpetta riceve sul cellulare un messaggio che sembra arrivare dal numero di emergenza di sua nipote Lucy, con un link a un video girato da un apparecchio di sorveglianza che riprende la stessa Lucy e risale a quasi vent'anni prima. Ma come è possibile? La famosa anatomopatologa si ritrova così al centro di un vero e proprio incubo dai risvolti molto personali. Comincia a scoprire oscuri e terribili segreti che riguardano la nipote che lei tanto ama e che ha cresciuto come una figlia.

A questo primo video ne seguono altri, con chiare e pericolose implicazioni legali, che lasciano Kay in uno stato di isolamento, preoccupazione e confusione. Non sa cosa fare né con chi confidarsi, non può nemmeno rivolgersi al marito Benton Wesley, né a Pete Marino e ovviamente non a Lucy.

Il suo universo e quello di tutti coloro che lei ama viene messo a repentaglio da un piano diabolico, mentre lei stessa è alle prese con il caso della morte solo apparentemente accidentale della figlia di una ricca e famosa produttrice di Hollywood.

Con Cuore depravato Patricia Cornwell celebra i venticinque anni della sua straordinaria protagonista Kay Scarpetta, fenomeno internazionale senza precedenti, e ci offre una nuova e incredibile avventura dai toni oscuri e minacciosi.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852069826

1

Regalai l’orsacchiotto vintage a Lucy quando aveva dieci anni e lei lo chiamò Mister Pickle. È appoggiato al guanciale di un letto stile branda militare, lenzuola d’ordinanza e angoli perfetti.
Mi guarda con la sua espressione cronicamente malinconica, la bocca una V rovesciata ricamata con il filo nero, invece io speravo si rallegrasse che l’avessi salvato e me ne fosse grato. È assurdo e irrazionale, visto che stiamo parlando di un peluche e io sono una donna di scienze, un medico, oltre che laureata in giurisprudenza, e dovrei avere una mente logica e freddamente clinica.
Provo un misto di emozioni confuse e di sorpresa alla vista inaspettata di Mister Pickle nel video che mi è appena arrivato sullo smartphone. Inquadratura fissa, da una telecamera angolata verso il basso, probabilmente installata in un controsoffitto. Vedo benissimo la stoffa liscia di cui è fatta la pianta dei piedi, il pelo morbido e olivastro, le pupille nere negli occhi di vetro ambrati, la targhetta gialla della marca Steiff nell’orecchio. Ricordo che era alto trenta centimetri e quindi un facile compagno per una trottola come mia nipote Lucy, che di fatto per me è come una figlia, l’unica.
Scovai quell’orsacchiotto molti anni fa su uno scaffale in mezzo a libri illustrati sull’architettura coloniale e manuali di giardinaggio che puzzavano di muffa a Carytown, il quartiere di negozi bohémien di Richmond, in Virginia. Indossava una specie di maglioncino fatto ai ferri, bianco e sudicio, che gli tolsi subito. Ricucii gli strappi che aveva qua e là con la precisione di un chirurgo plastico e lo lavai in acqua tiepida con il sapone antibatterico, per poi asciugarlo con il phon freddo. Decisi che era maschio e che stava meglio senza maglioncini o vestitini di sorta. Dissi a Lucy che doveva essere fiera del suo orsacchiotto nudo, che lei accolse con gioia.
“Se stai fermo immobile per troppo tempo, mia zia Kay ti strappa i vestiti di dosso, ti lava con la manichetta e poi ti taglia la pancia, te la ricuce e ti lascia nudo” lo ammonì allegramente.
Non la trovai spiritosa, anzi. Era piuttosto inquietante. Ma Lucy aveva dieci anni, all’epoca, e ora mi sembra di risentire la sua voce, la sua parlata velocissima, mentre mi allontano da una macchia di sangue in decomposizione, di un rosso che tende al marrone con i bordi più acquosi e giallastri, sul pavimento di marmo bianco. Il tanfo ammorba l’aria, la appesantisce, e le mosche sembrano una legione di demoni ronzanti mandati da Belzebù. La morte è brutta e avida. Assale i nostri sensi, mette in allarme le nostre cellule, ci avverte: “Attenti! State lontani! Scappate a gambe levate! I prossimi potreste essere voi!”.
Siamo programmati per trovare ripugnanti e disgustosi i cadaveri, per evitarli letteralmente come la peste, ma questo innato istinto di sopravvivenza prevede rare eccezioni, che sono indispensabili per la sicurezza e la salute della tribù: pochi eletti non provano raccapriccio di fronte alla morte e, anzi, ne sono attratti, affascinati, incuriositi. È buona cosa, dato che qualcuno deve essere in grado di avvisare e proteggere chi resta, di prendersi carico di queste dolorose spiacevolezze e capirne il come, il perché, il chi. Ci vuole qualcuno capace di disfarsi in maniera corretta dei resti in decomposizione prima che causino danni e propaghino infezioni.
A mio parere, queste persone hanno qualcosa di diverso dagli altri, nel bene e nel male. L’ho sempre pensato. Fatemi bere un paio di scotch e ammetterò di non essere “normale”, di non esserlo mai stata. Non temo la morte e non faccio caso ai suoi artefatti, se non per ciò che hanno da dirmi. Odori, fluidi, insetti, vermi, roditori e avvoltoi contribuiscono a gettare luce sulle verità che vado cercando, ed è importante che io riconosca e rispetti la vita che ha preceduto la biologia corrotta che è mio compito esaminare e raccogliere.
Tutto questo per dire che non mi tange ciò che alla maggior parte delle persone provoca sconcerto e ribrezzo, mentre sono estremamente suscettibile quando c’è di mezzo mia nipote Lucy. Le voglio troppo bene. Mi sento responsabile. Mi sento in colpa. Forse è questo il punto, penso, mentre riconosco la stanza color vaniglia nel video che poco fa mi è arrivato sul cellulare come un fulmine a ciel sereno. Sono io la figura di riferimento, l’adulta autorevole, la zia affettuosa che ha portato in quella stanza la sua unica nipote. Ho messo io Mister Pickle su quel letto.
L’orsacchiotto ha la stessa aria sconfortata di quando, all’inizio della mia carriera, l’ho recuperato da quel negozio polveroso di Richmond e l’ho amorevolmente ripulito. Mi rendo conto che non ricordo quando l’ho visto l’ultima volta né dove. Non so se Lucy l’abbia perso, regalato o chiuso dentro un armadio. La mia attenzione si sposta verso un accesso di tosse in una stanza lontana da quella nella quale mi trovo io, in questa magnifica villa in cui è morta una donna ricca.
«Gesù! Chi cazzo sei? Typhoid Mary?» L’investigatore Pete Marino della polizia di Cambridge, Massachusetts, scherza con i colleghi come normalmente succede tra poliziotti.
L’agente della polizia di Stato di cui non so il nome dice di aver preso un cosiddetto “raffreddore estivo”, ma a me viene il dubbio che abbia la pertosse.
«Senti, pivello, stammi lontano e vedi di non attaccarmi niente. Non ho nessuna voglia di beccarmi la tisi o cosa cazzo hai» ribatte Marino, con il suo solito tatto.
«Non ho niente di contagioso, tranquillo.» Altro accesso di tosse.
«Gesù! Mettiti almeno la mano davanti alla bocca!»
«Come faccio, con i guanti?»
«Togliti i guanti.»
«Non ci penso nemmeno: mica voglio seminare ovunque il mio DNA
«Ah, perché secondo te tossendo non lasci DNA in giro?»
Smetto di ascoltare Marino e il suo collega della polizia di Stato e torno a guardare il display del mio smartphone. Passano i secondi e non succede niente: non entra nessuno e Mister Pickle resta fermo immobile sul letto ingeneroso e scomodo di Lucy. Sembra che le lenzuola bianche e la coperta militare beige siano state dipinte con lo spray sullo stretto materasso della branda, insieme al guanciale sottile e piatto. Non mi piacciono le lenzuola tiratissime, le evito quando posso.
Nel mio letto ho un materasso Posturepedic e adopero lenzuola in cotone naturale ad alto numero di fili e piumini d’oca. È un lusso, lo so, ma il letto è il luogo dove alla fine della giornata riposo, faccio l’amore e sogno, o meglio ancora dormo senza sognare. Non mi va di sentirmi costretta fra lenzuola tirate che mi avvolgono come una mummia e mi bloccano la circolazione. Sono abituata ai dormitori, alle foresterie militari, alle caserme e ai motel da pochi soldi, ho dormito un sacco di volte in luoghi inospitali e in letti scomodi, ma non per mia libera scelta. Lucy, invece, è di un’altra pasta. Se è vero che da un po’ di tempo a questa parte non fa più una vita spartana, di certo dà meno importanza di me a certi comfort.
Dormirebbe anche in un sacco a pelo in mezzo a un bosco o nel deserto e non batterebbe ciglio, purché avesse armi, tecnologia e adeguate protezioni contro il nemico, qualsiasi esso sia in quel dato momento. Deve sempre avere il controllo sull’ambiente che la circonda ed è anche da questo che deduco che la telecamera nel dormitorio era nascosta e Lucy ne ignorava l’esistenza.
“Non ne sapeva nulla. Nel modo più assoluto.”
Calcolo che le riprese risalgano a sedici, massimo diciannove anni fa e siano state fatte con apparecchiature di sorveglianza ambientale ad alta risoluzione, sofisticatissime per l’epoca. Sistema multicam a elevato numero di megapixel. Piattaforma aperta ad alta flessibilità. Tutto computerizzato. Software intuitivo. Facilmente occultabile. Accessibile da remoto. Ricerca e sviluppo sono senza dubbio del terzo millennio, ma non è un falso, un anacronismo. Non mi stupisce.
Mia nipote si muove da sempre in ambienti tecnologici d’avanguardia e nella seconda metà degli anni Novanta conosceva sicuramente già i nuovi sviluppi nelle apparecchiature di spionaggio, prima di molti altri. Questo però non significa che sia stata lei a installare quei dispositivi di videosorveglianza nella stanza del dormitorio che le era stata assegnata per lo stage all’FBI, quando non era ancora laureata ed era già riservata e attenta alla privacy come è adesso.
Nel mio dialogo interiore risuonano parole come “spionaggio” e “intercettazioni ambientali” perché sono certa che la clip che sto guardando è stata registrata all’insaputa di mia nipote. E senza la sua autorizzazione, che è importante. Sono convinta che non sia stata Lucy a mandarmi questo video, sebbene risulti inviato dal suo numero di cellulare ICE (In Caso di Emergenza). E questo è ancora più importante, oltre a essere un problema. Perché quasi nessuno ha quel numero. Si contano sulle dita di una mano le persone che hanno il numero del cellulare usato da mia nipote per le emergenze. Controllo con attenzione i dettagli della registrazione. Ho fatto partire il video dieci secondi fa. Undici. Quattordici. Sedici. Osservo immagini filmate da diverse angolazioni.
Se non fosse stato per Mister Pickle, forse non avrei neanche riconosciuto la camera di Lucy, con le veneziane bianche abbassate e le lamelle inclinate al contrario come una pelliccia accarezzata in contropelo. Lucy le tiene spesso così, e a me fa venire il nervoso. Ho smesso di dirle che è come indossare la biancheria alla rovescia, perché tanto è inutile. Sostiene che orientando le lamelle come fa lei è impossibile vedere dentro da fuori. Teme lo stalking e protegge la propria privacy in maniera ossessiva. Non è una che si lasci spiare o riprendere impunemente.
“Si fidava. Non aveva neanche preso in considerazione questa eventualità.”
Passano i secondi e nella stanza del dormitorio continua a non succedere niente. È vuota e silenziosa.
Le pareti di blocchetti in calcestruzzo e il pavimento di mattonelle sono bianchi, i mobili dozzinali, anonimi e pratici, truciolato con rivestimento simil-acero. Mi scatenano ricordi dolorosissimi, vanno a solleticare un angolo della memoria che tengo sigillato, occultato sotto una colata di cemento come miseri resti. Quella sul display del mio smartphone potrebbe essere la stanza di un ospedale psichiatrico, l’alloggio di un ufficiale in visita a una base militare o magari un pied-à-terre particolarmente scialbo, ma io la riconosco. Riconoscerei ovunque quell’orsacchiotto sconsolato.
Mister Pickle seguiva Lucy ovunque andasse e mentre lo guardo in faccia ritorno con la mente a quei giorni perduti degli anni Novanta, quando dirigevo l’Istituto di medicina legale della Virginia, prima donna a ottenere quell’incarico, e mi occupavo di Lucy perché mia sorella Dorothy era troppo egoista per prendersi cura di sua figlia. Con la scusa di una breve visita, me l’aveva scaricata a tempo indeterminato, in un momento che per me non avrebbe potuto essere più difficile.
Quella mia prima estate a Richmond, la città era in stato di assedio: un serial killer strangolava le sue vittime nel loro letto. Era un’escalation di terrore e di sadismo e noi non riuscivamo a prenderlo, brancolavamo nel buio. Io ero appena arrivata, e politici e giornalisti tuonavano contro di me, dandomi della disadattata, della spocchiosa. Ero una donna algida. Non ero normale, perché è normale che una donna sezioni cadaveri? Dicevano che ero maleducata, che mi mancava lo stile del Sud, di chi discendeva da Jamestown o dalla Mayflower. Io, originaria di Miami, una città liberal e multietnica, e cattolica, ero finita nella ex capitale della Confederazione, il luogo con il tasso di omicidi pro capite più alto di tutti gli Stati Uniti.
Nessuno mi ha mai dato una spiegazione convincente dei motivi per cui Richmond era al primo posto in quella macabra classifica, e non ho mai capito perché le forze dell’ordine se ne facessero un vanto. Peraltro, non trovavo un senso neppure nelle rievocazioni storiche della Guerra di secessione: perché celebrare una sconfitta? Ma imparai presto a non esprimere queste mie perplessità e a rispondere che non seguivo il baseball quando mi veniva chiesto se fossi una yankee. In genere, il mio interlocutore a quel punto lasciava perdere.
La soddisfazione di essere la prima donna a capo di un Istituto di medicina legale nella storia degli Stati Uniti si spense velocemente. La Virginia di Thomas Jefferson sembrava un vecchio e cocciuto teatro di guerra, più che un avamposto di illuminata civiltà, e la verità mi apparve chiara nel giro di pochissimo tempo. Il mio predecessore era un bigotto misogino ed etilista, morto improvvisamente lasciando un’eredità a dir poco spaventosa. Nessun anatomopatologo di fama ed esperienza aveva voluto prendere il suo posto e così alle autorità – ovviamente di sesso maschile – era venuta un’idea brillante: perché non reclutare una donna?
Le donne sono brave a mettere ordine nel caos. Perché non cercare un’anatomopatologa adeguatamente titolata, anche se giovane e senza l’esperienza necessaria per dirigere un ente statale? Con il tempo, si farà. Se poi è una perfezionista superpreparata, infaticabile e meticolosa, un’italiana nata poverissima che vuole dimostrare al mondo il proprio valore, divorziata e senza figli, meglio ancora.
Senza figli fino a un certo punto. Finché non accadde l’imprevedibile e mi arrivò sulla porta di casa Lucy Farinelli, l’unica figlia della mia unica sorella. Aveva dieci anni, ne sapeva più di me in fatto di informatica e di meccanica, ma non era capace di relazionarsi con il prossimo. Dire che era una ragazzina difficile è come dire che i fulmini sono pericolosi: un dato di fatto, scontato e assoluto.
Mia nipote è una persona problematica, lo è sempre stata e sempre lo sarà. Incurabile e indomabile. Ma da piccola era peggio. Geniale, bellissima, arrabbiata, fiera, impavida, incapace di rimorso, intoccabile, ipersensibile e insaziabile. Nulla di quello che facevo era abbastanza per lei. Eppure ci provavo. Ci provavo in tutti i modi. Ho sempre pensato che sarei stata una pessima madre. Su che basi avrei potuto affermare il contrario?
Credevo che un orsacchiotto di peluche potesse regalare un po’ di gioia a una bambina trascurata e farla sentire amata e, mentre osservo Mister Pickle sul letto della stanza di Lucy a Quantico in un video di cui fino a un minuto fa ignoravo l’esistenza, all’iniziale scarica di tensione a basso voltaggio segue una calma generalizzata. La linea ora è piatta. Mi concentro. Mi impongo di pensare in maniera lucida, obiettiva, scientifica. Il video che sta scorrendo sul mio smartphone è autentico. È indispensabile che io non lo metta in dubbio. Non sono immagini ritoccate con Photoshop o fabbricate artificialmente in qualche modo. So benissimo che cosa sto vedendo.
“Accademia dell’FBI, dormitorio Washington, Stanza 411.”
Cerco di fare mente locale e calcolare in che periodo Lucy è stata lì, all’inizio per uno stage e poi come cadetta, prima di venire brutalmente licenziata e passare nell’ATF. Dopo l’esperienza nell’ATF, Lucy si è messa in proprio e ha lavorato come agente operativo speciale compiendo missioni di cui preferisco non sapere nulla. Quindi ha fondato una società di informatica forense a New York. Dopo un po’, ha piantato lì anche quella.
Adesso, questo venerdì mattina di metà agosto, Lucy ha trentacinque anni, è un’imprenditrice di grande successo e grande ricchezza e collabora con il Cambridge Forensic Center (CFC) che io dirigo, mettendomi generosamente a disposizione i suoi numerosi talenti. Continuo a guardare il video sul mio telefono e mi sento al contempo in due posti diversi, nel passato e nel presente, che sono però strettamente collegati fra loro, un continuum.
Tutto ciò che ho fatto finora, ogni mia azione e ogni mia scelta, mi hanno lentamente e inesorabilmente portato, per piccoli incrementi progressivi, ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. CUORE DEPRAVATO
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43
  47. 44
  48. 45
  49. 46
  50. 47
  51. 48
  52. UNA SETTIMANA DOPO
  53. Copyright