In Italia, ad aspettarmi, c’era Heather Parisi. L’avevo conosciuta in Italia quando avevo diciassette anni, a un pranzo a casa di amici per festeggiare il Giorno del Ringraziamento, e poi avevo lavorato al suo fianco a Palma de Maiorca, con il coreografo Franco Miseria. Fu anche grazie a lei, che mi propose di raggiungerla a Roma per partecipare a una nuova trasmissione, che ebbi il coraggio di lasciare gli Stati Uniti. E tutto quello che, all’indomani della fine del tour di Whitney Houston, significavano per me.
Quello che poi successe quando ci vedemmo non l’avrei mai potuto immaginare: arrivai da lei per pranzo, bussai alla sua porta, e da quella casa non uscii più.
Tra di noi fu un amore bellissimo, travolgente, che mi fece mettere da parte ciò che mi era appena successo negli Stati Uniti. Un amore che mi aiutò a ripartire, a prendermi cura di me stesso, ritrovando la voglia di ballare, e di sorridere. Di iniziare a creare!
Una storia d’amore (l’unica di cui parlerò in questo libro, perché questo rapporto mi aiutò a mettere a fuoco il mio lato creativo) che decisi di vivere privatamente, rifiutandomi di posare con lei per le copertine delle riviste. Un po’ perché non amavo espormi personalmente, timido com’ero, un po’ perché avevo sempre apprezzato la meritocrazia, che in America premiava sempre. Non volevo che la gente pensasse a me come il giovane che Heather Parisi, allora sulla cresta dell’onda, spingeva come suo protetto. (Va detto: ho sempre disprezzato il sistema italiano di raccomandazioni, e nella mia carriera non ne ho mai accettata una. Anzi, i segnalati sono sempre stati i primi che ho mandato via, alle selezioni.)
Amavo tutto di lei. In particolare la sua creatività. Era un’accanita divoratrice di libri, TV, film e riviste, da cui ritagliava i pezzi che la interessavano di più per usarli poi come spunti. Un’abitudine che ritrovai anche in Madonna e che in seguito avrei fatto anche mia. Quando pensava a una coreografia lo faceva come se stesse costruendo un film. C’era sempre una storia, una spinta narrativa nei suoi pezzi.
«Quando uno balla solo con il corpo non sta raccontando nulla» mi disse una volta, «sta solamente esibendosi. Se invece è la mente a ballare insieme al corpo, tutto diventa più importante, più emozionante, ed è in grado di arrivare dritto al pubblico.»
Avrei sentito qualcosa di simile anni dopo, lavorando insieme a Michael Jackson. «I tuoi occhi devono raccontare più del tuo corpo quando balli» mi disse lui, «devi comunicare un segreto, con gli occhi.»
Ballando al fianco di Heather, il mito della danza italiana, ritrovai insomma la passione, quella voglia di sperimentare, di scoprire, di guardare avanti che mi aveva sempre caratterizzato. Con lei ho costruito di nascosto, a casa, le prime mie coreografie. Lei le portava in sala prove e le spacciava per sue... ma solo perché ero io a dirle di fare così. Mi chiese perfino di diventare coreografo, ma io rifiutai. Non volevo scorciatoie, volevo salire per la via più faticosa, la stessa che avevo imparato a conoscere dai miei primi passi in questo mondo.
Ma il destino, che in quegli anni mi aveva riportato in Italia, aveva in serbo per me una brutta, bruttissima sorpresa.
Per la prima volta avrei scoperto che la vita a volte impone delle pause, mette in stop tutto quello che stai facendo e ti costringe a guardarti allo specchio: chi sei, chi sono le persone che ti vogliono bene, in quale direzione stai andando. E in un attimo scopri che dietro, in fondo, non hai niente di sicuro, che tutto può svanire da un momento all’altro, e che l’esistenza è un ripartire ogni volta da zero. È spesso faticoso, ma è l’unico modo per poter andare avanti.
Quella mattina avevo appuntamento con mio padre. Negli anni avevamo recuperato un rapporto, e a unirci – oltre all’affetto – era l’amore per le belle automobili. Mi aveva infatti chiesto di vederci perché voleva mostrarmi una Jaguar degli anni Settanta che aveva trovato per me, e che teneva nel suo autosalone.
Poco prima di uscire, però, mi telefonò la sua segretaria. Mi disse che mio padre non era andato al lavoro e che voleva lo raggiungessi a casa.
Subito la cosa mi suonò strana. Mio padre andava sempre al lavoro. Doveva essere successo qualcosa.
Quando arrivai davanti alla sua abitazione, vidi mio zio e mia nonna che piangevano. La nonna mi gridò: «È morto! È morto!».
Mi fermai, il respiro bloccato nel petto.
Aveva avuto un infarto ed era morto nel letto, mi raccontarono accompagnandomi nella sua stanza.
Fu lì che lo vidi, con ancora indosso il suo orologio e la sua catenina, che non si toglieva mai.
Mio padre era morto, realizzai, e con lui era morta anche una parte di me. Era morto il Luca figlio di mio padre. Ed era qualcosa a cui non si poteva porre rimedio. Il tempo risolve tutto, tranne la morte.
Pensai che era stata una fortuna che fossi tornato in Italia proprio in quel periodo.
Appena una settimana prima di quel giorno mio padre si era aperto con me, lasciandomi scoprire, per la prima volta, il suo cuore. Si era reso conto di aver commesso tanti errori, e me lo aveva voluto confidare.
Non era, mio padre, quello che si definisce proprio “una brava persona”. Si era arricchito e viveva ormai nel lusso, con la Ferrari nel garage, il solarium con i lettini abbronzanti, una casa al mare. Aveva abbandonato senza rimorsi, e lasciandoci senza un soldo, me, mia sorella e mia madre, e tante delle insicurezze che ho ancora oggi derivano dal suo comportamento nei miei riguardi. «Ti do cento lire se riesci a dire le “esse” bene!» mi diceva e io, piuttosto che parlare, rimanevo in silenzio, chiuso nel mio angolino. La verità era che mio padre si vergognava di me, lo sentivo. Ero il figlio strano, quello che ballava invece di giocare a pallone o di ambire come lui a diventare pilota.
Ma finalmente eravamo maturati entrambi. Io ero riuscito a fare almeno un po’ pace con quel genitore assente, ma che restava sempre e comunque mio padre.
Un padre che ora non c’era più. Un padre a cui avrei voluto dimostrare che si può dire “Ti voglio bene” e sopravvivere.
La cosa più faticosa fu comunicarlo a mia madre.
Dopo qualche minuto in cui rimasi accanto al corpo di mio padre, uscii dalla stanza per telefonare al Vini e oli che avevamo sotto casa, perché noi, nel nostro vecchio appartamento, non avevamo il telefono.
La signora che gestiva il negozio andò di sopra a chiamare mia madre, e quando lei rispose le sole cose che riuscii a dirle furono: «Purtroppo papà è morto...». Poi andai a prenderla per permetterle di dare all’uomo che aveva sposato, al padre dei suoi figli, un ultimo saluto. Ma fu faticoso, e straziante, significava portarla nella casa dove suo marito si era rifatto una vita con un’altra donna, quella donna con cui mio padre l’aveva tradita per anni senza neanche curarsi di non farle trovare prove compromettenti come macchie di rossetto o altro.
Quando arrivammo a casa di mio padre, tutti si voltarono verso di noi, in silenzio, finché ci avvicinammo al letto.
Fu mia madre a farmi notare che mio padre non indossava più la sua collanina, né l’orologio.
Mi guardai attorno, scrutando una per una le persone che stavano lì. Poi, a voce alta, chiesi: «Ma nessuno ha chiamato l’ambulanza? Non si chiama qualcuno quando un uomo ha un infarto?!».
All’improvviso tutto mi sembrava strano.
Da quel momento la casa di nostro padre ci venne chiusa per sempre, impedendoci di avere anche un solo ricordo concreto di lui. Una camicia, una coppa vinta con le corse automobilistiche, un calzino... No, non avemmo niente: solo i debiti che aveva lasciato. Un totale di due miliardi di lire.
Io e mia sorella accettammo l’eredità con beneficio d’inventario. Ma, nel tentativo di scoprire quanti debiti avesse effettivamente nostro padre e se fossimo in grado di sanarli, salvando così il suo buon nome, mettemmo inconsapevolmente mano all’eredità, aprendo il suo autosalone e muovendo alcune macchine, tra cui la Jaguar che lui aveva trovato per me. Venimmo fotografati e incriminati per frode – non potevamo nel frattempo toccare quei beni, scoprimmo – e ci beccammo una condanna a sette anni, che non scontammo mai solo grazie al fatto che avevamo la fedina penale pulita.
Ma i nostri nemici erano sempre in agguato. E quel giorno io, mia sorella e mia madre ci ritrovammo con la pistola puntata addosso dagli strozzini, con cui mio padre aveva ancora dei conti aperti.
Fu un periodo terribile della mia vita, in cui davvero mi sembrò di essere sprofondato all’inferno.
Buttai tutto all’aria, compreso il rapporto con Heather. All’improvviso ero diventato troppo assente per lei.
Ero devastato. Di nuovo al punto zero. La mia famiglia aveva perso la casa, io avevo perso tutto quello che ero riuscito a mettere da parte col mio lavoro, ma avevo anche smarrito, di nuovo, la passione.
Smisi di ballare, e per la prima volta cominciai a ingrassare. Alla fine decisi che sarei partito. Non sapevo per quale destinazione. Dovevo partire e basta.
Presi l’auto e andai nel Sud Italia, a Parigi, in Spagna, dove riuscivo ancora a respirare atmosfere genuine. Vere.
Poi decisi che era giunto il momento di tornare a trovare i miei amici a Los Angeles e portai in vacanza con me mia sorella Eleonora e il suo compagno Franco.
In quei mesi il rapporto fra me e mia sorella si era rafforzato enormemente. Non era più l’adolescente inquieta e un po’ assente che saltava le lezioni di ballo a Studio Uno. Era una donna, e il dolore per la scomparsa di mio padre e per tutto quello che ne era venuto ci aveva avvicinato molto. Per la prima volta in vita mia vidi mia sorella applicarsi seriamente in qualcosa che non fosse solo divertimento. Da quel giorno ho cominciato a volerle veramente bene e a fidarmi di lei.
Una volta arrivati contattai Jill Hillier, che avevo conosciuto grazie a Michelle Assaf, a cui Jill aveva fatto da assistente anni prima, quando studiavo a New York. Scelsi di andare a trovare lei, perché era una delle persone con cui, di più, avevo sperimentato quanto potesse essere bello fare danza e sognare: il suo entusiasmo era contagioso. Esattamente quello di cui avevo bisogno.
Eleonora e Franco erano eccitatissimi da tutto ciò che vedevano, lì a Los Angeles, e io ero orgoglioso di poterli portare in giro con la mia patente americana, di riuscire a parlare bene inglese, di potergli fare da chaperon per tutti i luoghi in cui avevo vissuto e in cui ero diventato “grande”.
Quel viaggio mi stava facendo bene, me ne accorsi subito. Le ombre degli ultimi tempi si stavano dissipando, ma allo stesso tempo sentivo che il mio futuro doveva essere ancora lì, negli Stati Uniti, e non in Italia.
Ma questo era di nuovo un problema. Perché, proprio come quando ero arrivato là la prima volta, a diciassette anni, avevo solo un visto turistico, che non era sufficiente per lavorare. Ero di nuovo un clandestino!
Ma era meglio non pensarci troppo. Dovevo godermi il viaggio e basta. Al resto avrei pensato dopo.
Un giorno decisi di andare in macchina fino a Las Vegas. E invitai anche Jill con noi.
Chi è stato in California lo sa. Appena usciti da Los Angeles, parte una strada dritta dritta, lunghissima, che arriva ...