Il giorno più lungo della Repubblica
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Il giorno più lungo della Repubblica

Un Paese ferito nelle lettere a casa Moro durante il sequestro

  1. 120 pagine
  2. Italian
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Il giorno più lungo della Repubblica

Un Paese ferito nelle lettere a casa Moro durante il sequestro

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Il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro (16 marzo - 9 maggio 1978) sono molto più di una pagina sanguinosa e terribile della nostra storia; molto più di un sequestro e di un omicidio. La violenza delle Brigate rosse colpisce un simbolo, un uomo che aveva intrecciato la propria biografia con il percorso e le stagioni dell'Italia repubblicana, dall'impegno nell'Assemblea costituente fino alla crisi degli anni Settanta. Commissioni d'inchiesta, storici, magistrati, giornalisti hanno cercato di comprendere cosa fosse realmente successo in quelle tragiche giornate di quasi quarant'anni fa, tutti alla ricerca di tracce di una verità che finora è sempre stata accompagnata da molti punti interrogativi.

Ma che cosa ha rappresentato quel tornante decisivo nella coscienza più profonda della società italiana?

Dal primo giorno del sequestro, la famiglia Moro viene letteralmente sommersa da un fiume di lettere: pensieri, disegni, foto, preghiere, piccoli grandi gesti di vicinanza e solidarietà. Una corrispondenza spontanea e abbozzata che spesso non ha neppure un indirizzo corretto o un destinatario adeguato. Scrivono italiani e italiane di ogni età e condizione: bambini delle scuole elementari e pensionati, operai e intellettuali, detenuti e funzionari dello Stato, politici più o meno affermati, nonché associazioni, sindacati, partiti che intendono partecipare a un funerale collettivo, quello della Repubblica e delle sue basi fondanti.

Questa imponente mole di lettere, messaggi, telegrammi torna oggi per la prima volta alla luce – riordinata e consultabile nel Fondo Aldo Moro presso l'Archivio Flamigni –, dopo essere rimasta sepolta per decenni dentro scatole di cartone o buste di plastica, amorevolmente custodite dalla moglie Eleonora e dai familiari dello statista.

Nel rivisitare la corrispondenza di casa Moro dal giorno del sequestro a quello del ritrovamento del cadavere e fino agli anni più recenti, Umberto Gentiloni Silveri seleziona e propone al lettore i passi dove è più evidente la distanza tra il sentimento comune di una condivisione diffusa e la violenza del progetto eversivo brigatista, e dove sono emotivamente più intensi i segni del rapporto tra la dimensione personale di chi scrive e i grandi scenari della storia che si muovono sullo sfondo. Ne scaturisce una lucida e partecipe analisi della più grande cesura del nostro passato, un viaggio a ritroso in un'Italia scomparsa, ma che, da allora, continua a interrogarci da vicino.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852076312
Argomento
Storia
V

Il funerale di una Repubblica?

«Illustre signora Eleonora Moro, Io e Daniela ti scriviamo perché per venire al funerale dell’illustre Aldo Moro dovevamo prendere il treno, perché abitiamo nel Veneto, ma la mia mamma e anche la mamma di Daniela erano occupate a lavorare in casa e fuori casa e noi due non sapevamo da che parte fosse la stazione ferroviaria. Ma ti volevamo dire che quando ieri facevamo il tema Riflessioni sulla morte di Moro io e la mia amica per poco non scoppiavamo in lacrime a solo guardare il Presidente nel giornale.» La lettera è datata 10 maggio, il giorno dopo il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, quando sulla vicenda viene assegnato un tema in classe.
In quelle ore drammatiche molti altri messaggi vengono scritti e spediti a casa Moro: «Mia cara signora, ho appena appreso la brutta notizia riguardo a suo marito. Vorrei poterle dire che sono veramente caduto nel più profondo dolore. Sono un ragazzo di 16 anni ed ho seguito tutte le notizie, da quando suo marito non è più con lei. Comprendo il suo dolore, ma con queste mie righe vorrei dirle che c’è ancora rimasto qualcosa di umano, che nel mondo prima o poi non ci saranno più questi orrori che ogni giorno ci perseguitano. Mia cara Eleonora, vorrei essere vicino a lei per consolarla, ed invece mi limito a scrivere». La volontà di partecipare, il desiderio di esprimere la propria vicinanza è la reazione immediata di una comunità lacerata e afflitta da interrogativi sulle possibili conseguenze del delitto che gettano molti in uno stato di confusione e sconforto, dopo le paure accumulate nei precedenti 55 giorni.
Il 9 maggio 1978 si apre il tempo del lutto e del dolore. Il flusso di lettere verso casa Moro cresce d’intensità e assume i contenuti di una manifestazione collettiva di partecipazione all’evento traumatico e inaspettato, anche se temuto. Chi scrive mette in risalto il finale terribile della vicenda, richiama le angosce della lunga attesa, cerca le parole più convincenti per stringersi attorno alla famiglia colpita dall’ultimo atto della violenza terrorista. Uno spaccato di una società smarrita, alla disperata ricerca di un senso da dare agli avvenimenti che la scuotono. E la scrittura, nelle forme più diverse, è un tentativo di riannodare sentimenti e appartenenze, anche al di là del significato proprio delle parole che finiscono sulla carta. Una goccia nell’oceano di quelle terribili ore di angoscia, un piccolo gesto individuale che si collega a tanti altri, simili e diversi al tempo stesso.
Le lettere sono scritte da una pluralità di autori che si rivolgono alla vedova di un uomo politico simbolo di un’intera fase della storia nazionale e possibile sigillo di un percorso che dalle macerie della guerra si spinge fino allo scorcio conclusivo degli anni Settanta. Ecco il peso e il significato più profondo delle missive che si muovono verso casa Moro, che costituiscono la narrazione dell’itinerario di un Paese che il 9 maggio si sveglia incredulo e smarrito, perché vede messa in discussione una parte fondamentale del suo bagaglio di valori e obiettivi condivisi, e si sente piegato e sconfitto dai ricatti della violenza. In quelle settimane di primavera del 1978 da più parti si fa appello alla mobilitazione popolare: le piazze piene di bandiere di colori diversi, la scelta di non chiudersi nell’isolamento, la condivisione di un percorso comune, difficile ma praticabile, alla fine del quale si potrà festeggiare – insieme – la sconfitta del terrorismo. La politica di tutti contro la violenza di pochi, la difesa di un tracciato collettivo come principale antidoto alla cultura della rivoluzione, dello strappo necessario e rigenerante. E come avviene talvolta nei momenti più difficili, nei tornanti decisivi di una storia che coinvolge tutte e tutti, la risposta si manifesta nei modi più diversi: spontanea o organizzata, dall’alto o dal basso, formando però un unico disegno in cui i vari segmenti della società ritrovano il senso della comunità nazionale. E allora chi avverte il bisogno di partecipare, chi vuole dire a se stesso e agli altri che si sente parte di quella tragedia, può prendere in mano una penna e cercare di far giungere un messaggio nelle mani della signora Moro. Forse è proprio questa ricchezza, la complessa e vivace reazione di quei giorni, che si è smarrita con l’andare del tempo e di fronte ai duri responsi della realtà.
Simili reazioni spontanee hann caratterizzato la partecipazione diffusa dopo la strage di Capaci (23 maggio 1992): biglietti, disegni, lettere e poesie che bambini, uomini e donne hanno iniziato ad appendere, dopo la morte di Falcone, sul tronco del grande ficus di fronte alla casa del magistrato, «l’albero Falcone».
Le lettere ci permettono una lettura in filigrana di un Paese, dei suoi tratti costitutivi, delle costanti e dei tanti buchi neri, delle assenze, che appaiono nel confronto dialettico tra presente e passato. E ci restituiscono l’immagine di un’Italia che non c’è più, o che ha comunque modificato alcuni suoi elementi di base: l’inclusione in strutture collettive, la stratificazione di appartenenze e condivisioni, la forza coinvolgente di una narrazione comune, di un sentirsi parte di qualcosa che è in grado di travalicare confini e perimetri stabiliti. Come molti studiosi hanno sostenuto, da quel momento tutto diventa più difficile e nulla sarà più come prima.
Le lettere a casa Moro rappresentano allora un lascito, l’eredità incerta di una stagione che è molto più lontana di quanto non ci dicano gli anni intercorsi dallo scorcio finale di quel decennio e dall’impatto di quella Renault rossa parcheggiata nel centro di Roma. Leggerle e collocarle nel loro contesto significa riavvolgere il nastro della storia nazionale. Dietro ai toni colloquiali, alle frasi confidenziali, s’intravede un profondo sentimento di comunanza, che chiama in causa le radici stesse della democrazia repubblicana. «Alla signora dell’onorevole Moro. Sono una cittadina italiana residente a Tripoli. Ho appreso la notizia per radio,» scrive una donna il 9 maggio «è stato terribile e disumano. Tutti le vogliamo bene, tutti siamo vicino a lei in questo momento di grande dolore per la perdita di un uomo che ha fatto tanto, e ha dato tanto. Il suo sacrificio è vivo in tutti noi, come la speranza di poter vedere un’Italia unita, forte, senza spargere altro innocente sangue.» Ed è presente anche nell’ingenua e sgrammaticata testimonianza di un’emigrata: «Dal America un’Italiana: Rispettabile famiglia, vi ricorderò sempre nelle preghiere, sarà il modo di mantenersi ancora uniti a Italia!».
Le condoglianze assumono un duplice significato: al gesto di attenzione e solidarietà verso una donna rimasta sola si associano gli interrogativi sulla propria condizione, su un’identità collettiva che è messa all’angolo, sotto il ricatto di una violenza che ha appena varcato la soglia del possibile. «Gentilissima signora Moro, sono una missionaria italiana in un piccolissimo e sperduto villaggio dell’Africa, ma la radio ha dato la notizia. Mai in tutti gli anni della mia vita passati in terra straniera mi sono sentita tanto orgogliosa di essere italiana e democristiana. Prego il Signore perché conceda a Lei e ai suoi figli la rassegnazione della fede e a Lui la gloria dei Giusti.» In poche ore arrivano messaggi dagli angoli più disparati d’Italia e del mondo, da parte di persone che nella tragedia ritrovano ragioni e sentimenti di appartenenza. Una pseudoassociazione con sede a Brooklyn invia un piccolo dattiloscritto, un volantino con immagini e preghiere, intitolato «Italiani sparsi nel mondo lontani dalla Patria Italia in cerca di lavoro»; in copertina la signora Moro, con tanto di foto, diventa «Eleonora Madre d’Italia». Ci sono i gruppi familiari di emigranti che si uniscono firmando collettivamente messaggi di cordoglio. La prima generazione rappresenta l’insieme: «Io genitore Giuseppe con la mia famiglia lontano, qui circa 14 persone risiedono negli Stati Uniti d’America, a Cleveland, Ohio. È nostro dovere partecipare al vostro dolorosissimo compianto della straziante scomparsa del gran personaggio». A parte l’italiano a dir poco zoppicante, il messaggio è un ponte tra mondi lontani, una strategia di ritorno e di avvicinamento alle radici di una comunità dalla quale ci si è allontanati senza però voler perdere i tratti comuni.
Una tragedia è anche un’occasione per provare sentimenti di appartenenza e condivisione. E gli esempi potrebbero continuare con lo stesso segno: condoglianze come pretesto immediato per una partecipazione collettiva a un dolore che travalica i limiti del perimetro familiare. Una signora da Torino, con un barlume di ottimismo, non si perde d’animo: «L’Italia è in ginocchio umiliata e affranta. Ma noi ci rialzeremo più coscienti e uniti da questo dolore. Nessuna parola può alleviare la sofferenza che tutti viviamo. Solo la parola di vita ci conforta. E le forze del male non prevarranno». In molte lettere è evidente il tentativo di costruire un parallelismo tra situazioni e contesti alquanto diversi: «Mi permetto di chiamarla cara, perché mi sento unita a Lei nel tristissimo momento del tremendo dolore che Lei in questo momento terribile sta provando. Ho perso mio marito un mese fa per malattia e la mia sofferenza è immensa, la sua sofferenza insostenibile, perché è stata opera di delinquenti, perché queste persone non si possono chiamare esseri umani, perché di umano non hanno niente». E sulla stessa lunghezza d’onda è il tentativo di trovare motivazioni convergenti nella socializzazione del dolore: «Carissima signora Eleonora permettetemi di chiamarvi per nome, sono un’insegnante di un liceo di Napoli, ho l’età di Agnese (forse) anch’io non ho più da sette anni il mio adorato papà e sento il desiderio di starvi vicino». La ricerca di un’interlocuzione diventa una forma di aiuto, e la lettera si carica di significati e aspettative fino a diventare uno strumento utile, capace – nelle intenzioni di chi scrive – di alleviare dolori e sofferenze: «Non so se questa mia le arriverà» scrive una donna il 10 maggio «ma non posso fare a meno di tentare. So che non ci sono parole in questi momenti, ma forse sentire vicino una gran massa di gente può essere importante». La «gran massa di gente» si compone spontaneamente, in modo informale e diffuso, diventando un potenziale interlocutore o, comunque, uno spettatore interessato a ciò che avviene a partire da quella tragica mattina del 9 maggio 1978.
Una questione dirimente è quella relativa alla ricchezza e unicità del Carteggio di solidarietà in quanto espressione di un punto di vista originale, che risalta ancor più se messo a confronto con le esequie ufficiali di Aldo Moro. È come se si approfondisse un solco tra il funerale in forma privata secondo la volontà della famiglia, in aperta polemica con le fallaci strategie del fronte della fermezza, e il mare aperto della partecipazione diffusa e popolare. Adesso, però, nel flusso spontaneo e disordinato delle lettere va scomparendo la questione della trattativa mancata, delle responsabilità di chi avrebbe potuto fare qualcosa di diverso. Dal giorno del ritrovamento del corpo di Moro, l’attenzione si sposta sul tessuto che unisce una comunità, sui rischi che venga irrimediabilmente lacerato e sulle possibilità di mantenerlo in vita, nonostante tutto, magari cercando di proteggerlo e rafforzarlo.
È come se si intuisse oscuramente e confusamente il nascere di un profondo conflitto, ancora latente, ma che maturerà negli anni e nei decenni successivi.
A ben guardare, inizia qui quella clamorosa divaricazione tra il Palazzo e il Paese, tra le forme codificate della politica e le dinamiche di una partecipazione che prende nuove strade, spesso in conflitto più o meno consapevole con le forme costituite. Per molti storici che hanno studiato il percorso della Repubblica si tratta di un crinale decisivo, un punto di non ritorno. La discontinuità con il passato si conferma e si consolida nel tempo, e si manifesta in nuove forme: l’incomunicabilità tra persone, la crisi degli organismi di partecipazione (i partiti), il prevalere di logiche e comportamenti individualistici in senso deteriore getteranno le basi di quella che superficialmente si chiama «antipolitica», mentre il peso delle fratture generazionali metterà in discussione la struttura del welfare all’italiana.
Persino la mobilitazione del mondo della scuola, che tanto peso ha nell’economia del Carteggio di solidarietà (pacchi di temi, lettere di accompagnamento di insegnanti, disegni e pensieri che giungono da ogni regione della Penisola tra marzo e maggio 1978), appare oggi come il segno di un tempo lontano, di un passato sbiadito e ridimensionato dall’entità dei cambiamenti. Quella scuola centrale e decisiva nel processo di formazione individuale, canale privilegiato del passaggio di testimone tra le generazioni, fonte di socializzazione e diffusione dei saperi, viene investita dalle discontinuità e dalle rotture di un tempo nuovo, nel quale le forme di organizzazione e di rappresentanza di pezzi della società cominciano a scricchiolare pericolosamente.
La stessa religiosità diffusa e immediata che permea molte lettere e messaggi – la trascrizione di preghiere, le immagini sacre, i piccoli ex voto inseriti nelle buste – porta il segno di un tempo andato, quello dell’Italia cattolica, devota e pronta a condividere la propria fede. Il sacrificio di un uomo diventa il simbolo di una possibile redenzione, un passaggio stretto che ha nella fede il punto di forza, l’unico appiglio di speranza da proporre e condividere.
Mondi remoti, spazzati via o drasticamente ridimensionati dalla radicalità dei processi di secolarizzazione che modificano nel profondo il tessuto della società italiana. Certo, non succede tutto all’improvviso alla fine degli anni Settanta, ma quella stagione è uno spartiacque decisivo.
Inizia il declino irreversibile di un mondo, di un assetto politico e istituzionale, di un rapporto tra cittadini e istituzioni, della rappresentatività inclusiva delle forme assunte dalla politica e dalla democrazia postbellica. Non è poi tanto paradossale che la voce più lucida e autorevole, che meglio di altre mette a fuoco l’esaurimento di un’intera fase, di una parabola di crescita, sviluppo, diffusione di benessere e ricchezza, sia proprio quella di Aldo Moro in vari passaggi delle dense pagine da lui scritte durante la prigionia. Con lungimiranza e puntualità, Moro vede i limiti, le incongruenze, le difficoltà strutturali di un cammino che è diventato difficile, affannoso, spesso irto di ostacoli insormontabili. La sua denuncia chiama in causa molti, e nel contesto della tragedia che lo colpisce rimane inascoltato il suo richiamo a responsabilità individuali e collettive, lasciando in eredità prospettive complesse quanto incerte. Con analogie e differenze, punti di contatto e divaricazione, un simile tormento lacera il segretario del Partito comunista italiano Enrico Berlinguer. Un cammino difficile per una comunità nazionale minacciata su due fronti: da un lato, i colpi di un feroce attacco terroristico senza precedenti; dall’altro, la crisi (o almeno i primi sintomi di difficoltà) dei suoi punti di riferimento, dei cardini che ne avevano garantito la tenuta e la credibilità.
Il crinale tra la fine degli anni Settanta e il decennio successivo è un passaggio chiave, una svolta irreversibile. In questa chiave interpretativa, storici e studiosi di diversa ispirazione hanno letto la cerimonia funebre per Aldo Moro in San Giovanni in Laterano quasi fosse un «funerale della Repubblica» celebrato fuori dai confini nazionali, in territorio vaticano. Un estremo saluto, quello del 13 maggio 1978, che chiude un’epoca, un’intera fase del lungo dopoguerra italiano.
Tra gli altri ne ha scritto Piero Craveri, più di vent’anni fa. Nella basilica sono «disordinatamente stipati pressoché tutti i notabili della Repubblica», e la figura centrale del pontefice
faceva da singolare contrasto con l’immagine anonima del pubblico illustre che occupava la navata della Chiesa. Poteva ben dirsi che lì, in un momento così drammatico e significativo, la Repubblica era scomparsa, senza più immagine e parola, e il suo posto era interamente occupato dal rito solenne della Chiesa di Roma.
Un funerale senza feretro, con la famiglia che si ritrae a protezione dei propri spazi di dolore: basti il richiamo alla scena finale del film Buongiorno, notte di Marco Bellocchio (2003), con lo stridente contrasto nelle espressioni dei volti dei protagonisti inquadrati durante l’omelia di Paolo VI. Le parole che il vecchio pontefice rivolge in tono colloquiale sono un invito a chi osserva la conclusione inaspettata della vicenda: «Fa’ che noi tutti raccogliamo nel puro sudario della sua nobile memoria l’eredità superstite della sua retta coscienza … della sua dedizione alla redenzione civile e spirituale della diletta Nazione».
In quei giorni, in tanti scrissero che la Repubblica non sarebbe più stata la stessa. Giuseppe Saragat usò parole inequivocabili:
Accanto al cadavere di Moro c’è anche quello della prima Repubblica.
Gli fa eco Eugenio Scalfari, in un dialogo dai toni preoccupati, figlio della cesura di quelle giornate e dei timori che la situazione potesse precipitare:
Quello che Saragat teme può diventare realtà solo se tutti insieme non affronteremo l’opera di rifondare la prima Repubblica. Al di fuori di questo obiettivo non c’è che l’avventura della guerra civile.
La penna di Luigi Pintor, dalle colonne del «manifesto», va dritto al cuore del problema spalancato dall’epilogo dell’affaire Moro:
Ora questa società e questo Stato non possono più restare come erano e sono, neanche se lo volessero: se non cambieranno in meglio periranno.
E a questo punto le strade si dividono, tra chi pensa che molto possa e debba cambiare e chi invece, tutto sommato, privilegia la chiave della continuità come se si potesse assorbire il colpo e prosegui...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il giorno più lungo della Repubblica
  4. Prologo
  5. I. Scrivere per partecipare
  6. II. Un Paese tra speranze e tempeste
  7. III. Hanno rapito Moro!
  8. IV. Cinquantacinque giorni e una lunga notte
  9. V. Il funerale di una Repubblica?
  10. Nota archivistica e bibliografica
  11. Ringraziamenti
  12. Copyright