Brevissima relazione della distruzione delle Indie
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Brevissima relazione della distruzione delle Indie

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Brevissima relazione della distruzione delle Indie

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La colonizzazione dell'America latina vista dalla parte degli Indios. Un'aspra condanna della violenza dei conquistadores, pronunciata da un missionario domenicano (1474-1566).

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852069932
Argomento
Historia

Introduzione

Ira e furore di Dio
Una mattina del 1513, a Cuba, dove gli spagnoli hanno messo piede da due anni soltanto, una squadra di soldati agli ordini del capitano Pánfilo de Narváez sosta nell’alveo di un fiume in secca. Gli uomini fanno colazione. Hanno sparsi tutto intorno grandi sassi e, qua e là, ancora certe pozze d’acqua che si stanno prosciugando. Prima di riprendere la marcia, gli spagnoli si danno ad affilare le loro spade sulle pietre del greto. E giungono verso sera in località Caonao, dove trovano un migliaio di indiani nudi, accovacciati ad attenderli in una piazzetta. Vogliono vedere i cavalli, quelle bestie straordinarie, mostruose e sconosciute, di cui si dice che si nutrano soltanto di ferro. Presi di meraviglia e di terrore, li stanno a osservare. Altri nativi si sono rifugiati, per la paura, in una grande casa di paglia che si affaccia sullo spiazzo. Mentre uno spagnolo distribuisce alla truppa il pesce, le galline e altre offerte di cibo ricevute dagli indiani, improvvisamente e inspiegabilmente (invasato dal demonio?) un soldato sfodera la spada appena affilata e cala un gran fendente su uno di quegli uomini nudi che stanno assorti a osservare, ammazzandolo d’un sol colpo. Avrà voluto provare il taglio della sua arma? Non passa un istante che i suoi compagni – saranno un centinaio –, colti da furia selvaggia, si precipitano a imitarlo: ed è la strage. Una volta massacrati tutti i nativi che trovano sulla piazza, gli spagnoli irrompono nella casa e fanno scempio delle cinquecento creature che vi sono rinchiuse: uomini, donne, vecchi, bambini. Il sangue scorre ruscellando fra i ciottoli della piazza. Mentre gli invasati, le spade in mano, danno la caccia ai superstiti che sono fuggiti a rifugiarsi fra le sterpaglie, il cappellano della spedizione, entrando nella casa di paglia a portare conforto agli agonizzanti, scorge uomini ancora vivi aggrappati ai travi del soffitto; e cerca di indurli a scendere. Un giovane robusto, di venticinque o trent’anni, si azzarda a farlo. Ma quando il prete, allarmato da nuove urla di morte che si odono venire dalla boscaglia, è già di nuovo fuori, uno spagnolo si avventa sull’indiano, sfodera in un baleno la scimitarra e gli squarcia un fianco. Il disgraziato, tenendosi i visceri tra le mani, fugge all’aperto e, correndo attraverso la piazzuola, cade tra le braccia del cappellano. Mentre grida e geme per l’atroce dolore, come se fosse sui carboni ardenti, il religioso gli parla della fede di Cristo e, un istante prima che spiri, lo battezza.
Il cappellano della truppa di Narváez si chiamava Bartolomé de Las Casas. Era sbarcato nelle Indie, sull’isola Spagnola (Haiti), nel 1502, all’età di ventisette o ventotto anni, con il proposito di farvi fortuna e allo stesso tempo – le due cose si potevano pur conciliare – di ottenervi qualche beneficio ecclesiastico. Aveva fatto i suoi studi a Siviglia, dove era nato e, quantunque buon latinista, possedeva un modesto bagaglio culturale. Sarebbe diventato prete – il primo a essere ordinato nel Nuovo Mondo – soltanto nel 1513, alla vigilia dell’eccidio di Caonao.
In quell’anno 1513 l’episodio di Caonao faceva ormai seguito, sul continente americano, a una lunga serie di atrocità e di massacri. Il Nuovo Mondo, il cui orizzonte includeva allora soltanto, per gli stranieri, le isole caraibiche e brevi tratti della costa, era già avviato – e con quale paurosa celerità – sul cammino della distruzione e del genocidio.
Nel 1493, al ritorno di Colombo dal suo primo viaggio, i Re Cattolici si erano affrettati a sollecitare la sanzione pontificia dei loro diritti sulle terre scoperte e ancora da scoprire. Nelle bolle che ottennero da Alessandro VI, la sovranità territoriale era indubbiamente subordinata all’opera di evangelizzazione e di conversione delle nuove genti. Ma il documento papale, esibito e invocato poi sempre dai sovrani di Spagna – proprio in grazia delle sue premesse pie e umanitarie – quale giustificazione delle loro attività di scoperta e di conquista, non impedì che la penetrazione nelle terre d’America assumesse ben presto le forme di una brutale colonizzazione. Fin dai primi tempi l’impegno evangelizzatore fu disatteso, e conquistatori e coloni si abbandonarono allo sfruttamento spietato e alla devastazione delle contrade che la mano papale, in nome della sovranità pontificia sull’universo mondo, aveva graziosamente donato ai monarchi. Non si può negare che la metropoli – dagli stessi sovrani ai giuristi e ai teologi più illuminati – abbia incessantemente tentato di svolgere una funzione di freno alle esazioni e alle violenze che si commettevano nella colonia. Ma l’America era lontana, e i conquistatori e i coloni che la madrepatria minacciava, se avessero fatto scorrere troppo sangue, di sconfessare, non smisero per questo di uccidere, di torturare e distruggere. Questa stessa lontananza, del resto, permetteva alla metropoli di dimenticarsi d’avere, laggiù, uomini che massacravano; e che rinsanguavano in questo modo, dopo tutto, il sempre troppo esangue erario dello Stato. All’inizio c’era da finanziare la politica mediterranea di Ferdinando il Cattolico, poi quella europea dell’imperatore Carlo…
Tale stato di cose mostra per la prima volta, in questa congiuntura che vede il trapasso dall’età medievale a quella moderna, l’ambiguità che segnerà poi sempre, fino alla crisi della colonizzazione nel XX secolo, ogni rapporto fra metropoli e terre di conquista: se nella madrepatria si discute del male – e si deve ammettere che il dibattito sulla liceità delle guerre di conquista fu nella Spagna del XVI secolo di un vigore eccezionale, e ammirevole –, nella colonia lo si commette. E i frutti del male attraversano i mari…
Già Colombo aveva fatto ricorso alla forza per affermare la propria autorità nelle prime isole scoperte, e non aveva esitato a fare schiavi gli indiani che riteneva di mala natura o che rifiutavano il dono della sua civiltà. Ma fu soltanto dopo di lui che la violenza venne istituzionalizzata, e con questa lo sfruttamento spietato della mano d’opera indiana, soprattutto con il lavoro coatto nelle miniere. Nel 1503 la corona avvertì la necessità di regolamentare il rapporto tra coloni e nativi, e lo fece istituendo l’encomienda (“affidamento”). Gli indiani sarebbero stati ripartiti in gruppi più o meno grandi, riuniti in villaggi e affidati a un encomendero spagnolo; il quale avrebbe avuto cura della loro catechizzazione e del loro disinselvatichimento, provvedendo al tempo stesso ad assicurare – con diritto di vita e di morte sul suo gregge – ordine e giustizia. E il gregge, in cambio di tanti benefici, sarebbe stato sottoposto a regime di lavoro forzato nei campi e nelle miniere dell’affidatario. Il documento reale del 1503, come ha notato A. Saint-Lu, che inizia denunciando l’eccessiva libertà di fatto degli indiani, postula al contempo la loro piena libertà di diritto: aporie della colonizzazione? Le disposizioni furono applicate a pieno vantaggio dei coloni (e della corona, cui andava una cospicua percentuale dei profitti); e le comunità indiane – già in buona parte disgregate e distrutte dalle guerre di conquista, dalla deportazione e dalla schiavitù –, se non furono catechizzate, vennero in cambio ridotte a tali condizioni di esistenza che finirono assai presto, almeno nelle isole, per estinguersi e scomparire.
Questo genocidio per fame, logoramento e sevizie, sarà poi denunciato nel 1519 da un gruppo di domenicani, che da una diecina d’anni risiedevano alla Spagnola, in una lettera a M. de Chièvres, cancelliere di Carlo V: «… le genti che qui s’erano potute contare, cioè un milione e centomila anime, sono tutte distrutte e disfatte, e non ne restano oggi che dodicimila tra bambini e adulti, vecchi e giovani, sani e malati». Era ormai troppo tardi, per la sorte delle isole caraibiche. Ma non forse per quella delle nuove terre che si continuavano a scoprire sul continente, e che si indovinavano immense. E molte delle tardive denunce dei domenicani – talune riprodotte quasi alla lettera – sarebbero confluite in un successivo, tremendo memoriale d’accusa, redatto quando gli zoccoli dei cavalli dei conquistatori stavano ormai per calpestare l’intero suolo dell’America spagnola: la Brevissima relazione della distruzione delle Indie.
Già otto anni prima una voce s’era levata nell’inferno delle Indie, patetica e minacciante, a predicare e ammonire. Questa voce nel deserto era ancora quella di un domenicano. Nel 1511 fra Antonio Montesinos, in un sermone rimasto famoso, dopo avere parlato accoratamente, davanti a un pubblico di coloni che si faceva via via più fosco e più ostile, delle impossibili condizioni di vita degli indiani nelle isole, accusava all’improvviso, con frasi di paura, i suoi sbigottiti uditori, minacciandoli di eterna perdizione: «Questa voce vi dice che siete tutti in peccato mortale, che in esso vivete e che in esso morirete per la crudeltà e la tirannia che usate contro queste genti innocenti. Dite, con quale diritto e con quale giustizia tenete in sì crudele e orribile servitù questi indiani? Con quale autorità avete condotto sì detestabili guerre contro queste genti che vivevano mansuete e pacifiche nelle loro terre, in queste terre dove in numero infinito li avete annientati con morti e scempi di cui mai s’era udito prima? Come potete tenerli così oppressi e fiaccati, senza nutrirli né curarli nelle loro malattie, sì che per le eccessive fatiche vi muoiono tra le mani, o per meglio dire li uccidete, onde cavarne oro da accumulare un giorno dopo l’altro? … Tenete per certo che a cagione del modo in cui vivete non potrete salvarvi più di quanto lo possano fare i mori e i turchi che ignorano o rifiutano la fede di Gesù Cristo». C’è da pensare che tra i coloni che udivano il sermone, quella domenica a Santo Domingo, vi fosse l’encomendero Bartolomé de Las Casas, allora trentasettenne. Anche la voce del predicatore Montesinos filtrerà poi in più punti della sua Brevissima relazione.
Le reiterate proteste dei domenicani, levate fra l’ostilità sempre più chiusa e irritata dei coloni, non facevano che aggravare la situazione. Fu allora che i frati si determinarono a rivolgersi alla metropoli, dove il vecchio re Ferdinando stava vivendo i suoi ultimi anni. Le nuove leggi coloniali del 1512-13 sembrano dovere qualcosa a quel loro intervento. Ma col mantenere il principio del lavoro forzato – pur raccomandando un migliore trattamento dei nativi, con periodi di interruzione perché potessero lavorare i propri campi, e con l’ordine di ispezioni periodiche da parte di funzionari statali – in realtà finivano per sanzionare il sistema vigente. E l’istituzione del famigerato requerimiento (“intimazione”), che entrò nell’uso in quegli stessi anni, veniva a sua volta a battezzare di legalità la violenza e il sopruso. Si disponeva che i capitani di ogni impresa di conquista dessero lettura agli indiani, prima di attaccarli – ma in quale lingua? –, di un elaboratissimo documento con il quale – dopo aver loro notificato che le terre dov’erano nati appartenevano a certi re di Spagna, i quali le avevano avute in dono da un certo Papa che le aveva avute direttamente dall’unico vero Dio – li si poneva di fronte all’alternativa di consentire d’essere soggetti a quei sovrani oppure di venire distrutti e fatti schiavi. L’istituto del requerimiento non valse ovviamente a far cessare gli scempi. Ma giovò – il che è ancora più grave – ad ammantare di legalità la sopraffazione e a tranquillizzare le coscienze degli spagnoli. Al di qua e al di là dell’oceano.
Fino al 1514 Las Casas fu encomendero: prima alla Spagnola, poi a Cuba. Pare che fosse più umano di molti altri; ma come tutti gli altri – lo confesserà egli stesso, già avanti negli anni – aveva fama di essere avido e di non risparmiare i «suoi indiani».
Dunque Las Casas non nacque Las Casas. Lo divenne. E la Pasqua del 1514 fu per lui un primo momento di svolta. La sua via di Damasco? È difficile a dirsi. Quanto sia andato maturando in lui durante quei dodici anni nell’inferno delle isole – inferno che descriverà poi con ossessionata minuzia nella Brevissima relazione, e più diffusamente nella monumentale Storia delle Indi e – non è dato saperlo.
Vi è spesso qualcosa di enigmatico – al di là delle nebbie che velano quattro secoli di storia – intorno ai suoi gesti, intorno ai suoi movimenti, intorno a certe sue decisioni. Non diserterà poi improvvisamente, intorno al 1544, l’impresa di un’«ambasciata spirituale» di soli religiosi che avrebbe dovuto, partendo dalla Costa Pacifica del continente americano, avviarsi alla scoperta di nuovi popoli cui recare la buona novella? Eppure si trattava di un progetto per il quale si era battuto; e la corte lo aveva ormai ratificato. E perché, altrettanto improvvisamente e inspiegabilmente, darà alle stampe, nel volgere di un solo anno – il 1552 –, senza chiedere una licenza che avrebbe certamente ottenuto, tutta una serie di scritti composti da tempo – tra i quali la Brevissima relazione –, facendo imprimere sul loro frontespizio, a seguito del proprio nome, l’inesplicabile variante nobiliare «o Casaus»? E perché, ancora, nel 1559, ormai vecchio, lascerà depositato il manoscritto incompleto della sua Storia delle Indie presso il convento di San Gregorio, a Valladolid, disponendo che non venga divulgato fino a quarant’anni dopo? Cautela? Attesa escatologica? Del resto lo stesso nome di Bartolomé de Las Casas è una firma senza volto. L’unico ritratto che ce ne è rimasto, ufficiale, è un falso.
Ma affidiamoci al suo racconto. In quella Pasqua del 1514 decide di officiare la messa e di predicare davanti ai coloni di Cuba. Mentre si dispone a preparare il sermone, gli cadono sotto gli occhi certi versetti del capitolo 34 dell’Ecclesiaste; e legge: «Un sacrificio iniquo è un’offerta macchiata. Dio non gradisce i doni degli empi. Chi offre un sacrificio con i beni dei poveri è come se sacrificasse un figlio al cospetto del padre. Il pane del povero è la sua vita: chi glielo toglie è un assassino…». Decide allora all’improvviso di rinunciare alla sua ricca encomienda cubana e, quando sale sul pulpito, le parole che rivolge agli stupefatti spagnoli hanno la stessa durezza di quelle di Montesinos. Condanna l’istituzione dell’affidamento e ingiunge ai coloni di rinunciare immediatamente, sotto pena di eterna dannazione, agli indiani che sono stati loro assegnati. Il che, in quegli anni, era come ordinare la distruzione, d’un sol colpo e fino alle fondamenta, del sistema sul quale si reggeva ormai l’intero mondo coloniale. E convinto, anche grazie all’esperienza tratta dai tentativi sempre frustrati dei domenicani, dell’impossibilità di mutare le cose restando nella colonia, poco dopo parte per la Spagna.
Vi risiederà, con due soli viaggi di ritorno nelle terre d’America, sino alla fine della sua lunga esistenza, non cessando mai di operare presso la corona e il Consiglio delle Indie per una riforma sempre più radicale del rapporto metropoli/colonia. I suoi resoconti diretti, i suoi memoriali e i suoi piani saranno di volta in volta presentati al vecchio re Ferdinando – che muore nel 1515, l’anno stesso del suo arrivo a corte –, al reggente cardinale Cisneros, a Carlo di Gand – il futuro re e imperatore –, ai suoi cancellieri Sauvage e Gattinara; e infine quando Carlo, distratto dalla politica europea e prossimo ormai all’abdicazione, gli sarà sempre più lontano, al principe Filippo, suo figlio ed erede al trono.
Avanza dapprima vari progetti di razionalizzazione dell’encomienda, vuoi attraverso la costituzione di comunità di coloni alla guida spirituale ed economica dei nativi, vuoi attraverso la formazione di associazioni di contadini spagnoli e di indiani sul modello della «famiglia rustica» utopizzata pochi anni prima da Tommaso Moro. Ciò che caratterizza questa prima fase della sua attività riformatrice è la volontà di salvare, per così dire, capra e cavoli. La razionalizzazione del sistema coloniale, se favorirà l’evangelizzazione degli indiani e li salverà dall’estinzione cui l’attuale assetto non può che condurli, garantirà allo stesso tempo più alti redditi alla corona reale. Ma via via si fa strada nella sua mente un progetto di colonizzazione pacifica, in cui avranno sempre minor parte la forza e le armi e sempre maggiore la mitezza e la persuasione. E comincia a sognare un’amministrazione delle Indie e un’attività di scoperta affidate a soli religiosi. Nel 1522 un esperimento in questa direzione, intrapreso personalmente da Las Casas a Cumaná, sulla costa del Venezuela, si conclude con un disastro. Quando egli giunge nella concessione, che ha ottenuto a fatica dal re, insieme con settanta contadini spagnoli per costituirvi una comunità religiosa e meticcia, gli indiani del litorale, esasperati dalle continue incursioni dei coloni delle isole, sono in rivolta; spedizioni punitive li stanno ormai falcidiando e i suoi contadini si trasformano presto in predatori feroci. Las Casas abbandona il luogo e si ritira nel convento domenicano della Spagnola.
Dopo un lungo periodo di noviziato e di reclusione, durante il quale si dedica ad approfondire le sue conoscenze giuridiche e teologiche e inizia la stesura della Storia delle Indie, l’ex colono esce dalle mura del monastero con una nuova autorità: ora è Don Fray Bartolomé, dell’ordine domenicano. E intorno al 1540 la sua perseveranza riporterà un successo che farà rumore. Insieme con altri religiosi missionari, dopo un paziente e protratto lavorio diplomatico presso le autorità spagnole locali e i cacicchi indiani, ottiene in Guatemala la conversione pacifica di una «tierra de guerra», di una regione cioè non ancora piegata dalle armi al giogo coloniale. La contrada, ora «tierra de paz», assumerà il nome, confermato ufficialmente più tardi dal principe Filippo, di Vera Paz. Las Casas fa ritorno in Spagna, a Madrid, con l’intento ormai di ottenere dall’imperatore la soppressione definitiva dell’encomienda, l’abolizione della tratta di schiavi indiani e la fine delle guerre di conquista. In questo spirito redige, nel 1542, la Brevissima relazione, che dedicherà al principe Filippo, costituendolo a intermediario fra sé e l’imperatore. La promulgazione delle «Leyes Nuevas» delle Indie (1542-43) da parte di Carlo sembra coronare infine molti suoi sforzi: vi si decreta la soppressione, per estinzione, dell’encomienda; gli indiani verranno via via, con la morte degli affidatari cui appartengono, incorporati direttamente, quali sudditi, alla corona di Spagna.
Nel 1545 fra Bartolomé torna a varcare l’oceano: è nominato vescovo di Chiapas, in Messico, al confine con il Guatemala e presso il territorio di Vera Paz. Ma ritrova le Americhe in rivolta contro le nuove leggi. E gli spagnoli della sua diocesi sono fin dall’inizio ostili al vescovo che ritengono responsabile della loro rovina. La reazione di Las Casas è dura: esige dai coloni la liberazione degli indiani e nega i sacramenti a quanti rifiutano di rilasciarli e di risarcirli dei danni che hanno subìto durante il periodo dell’affidamento. Attaccato con violenza – pare anche fisicamente –, lascia la diocesi di Chiapas dopo neppure due anni. È quasi una fuga; è di nuovo la disfatta. E nel frattempo, il 20 ottobre 1545, l’imperatore firma a Malines un decreto che sospende la più impopolare delle nuove leggi: proprio quella che condannava a morte l’encomienda.
Nel 1546 Las Casas ritorna, ormai definitivamente, in Spagna. Soggiornerà dapprima a Valladolid, nel convento di San Gregorio; poi per qualche tempo a Siviglia – dove nel 1552 pubblica le sue più importanti requisitorie, fra cui la Brevissima relazione ; e infine a Madrid. Sino alla morte, avvenuta nel 1566, non cesserà di fungere da mediatore – riceve una vastissima corrispondenza – tra quanti, nelle Indie, continuano a battersi per migliorare lo statuto dei nativi e gli apparati burocratici dello Stato.
Nel corso degli ultimi anni di vita le sue posizioni si fanno sempre più radicali. Lo abbiamo già visto, vescovo di Chiapas – lontano ormai da ogni tentativo di conciliare la salvezza degli indiani con gli interessi della corona –, arroccarsi in posizioni di intransigenza. Ora dichiara, senza mezzi termini, che «dagli inizi fino a oggi mai nessuna guerra degli spagnoli contro gli indiani ha avuto alcun principio di giustizia»; afferma il fondamento, nel diritto naturale, di ogni popol...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Introduzione
  4. BREVISSIMA RELAZIONE DELLA DISTRUZIONE DELLE INDIE
  5. Prologo del vescovo fra Bartolomé de Las Casas
  6. Brevissima Relazione della Distruzione delle Indie
  7. Dell’isola Spagnola
  8. Dei regni che v’erano all’isola Spagnola
  9. Delle isole di San Juan e della Giamaica
  10. Dell’isola di Cuba
  11. Della Terra Ferma
  12. Della provincia di Nicaragua
  13. Della scoperta della Nuova Spagna
  14. Della Nuova Spagna
  15. Della provincia e regno di Guatemala
  16. Della Nuova Spagna, di Pánuco e di Jalisco
  17. Del regno di Yucatan
  18. Della provincia di Santa Marta
  19. Della provincia di Cartagena
  20. Della costa delle perle e di Paria e dell’isola della Trinità
  21. Del fiume Yuyapari
  22. Del regno di Venezuela
  23. Della provincia della Terra Ferma dalla parte che si chiama la Florida
  24. Del Río de la Plata
  25. Dei grandi regni e delle grandi province del Perù
  26. Del Nuovo Regno di Granada
  27. Copyright