Dall'India
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Dall'India

Annotazioni, diari, poesie, considerazioni e racconti

  1. 408 pagine
  2. Italian
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Dall'India

Annotazioni, diari, poesie, considerazioni e racconti

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Informazioni sul libro

"Mi è rimasta l'esperienza di un ritorno alle mitiche condizioni di fanciullezza dell'umanità e un profondo rispetto per lo spirito dell'Oriente."
Gli appunti di viaggio dell'autore di Siddharta e del Giuoco delle perle di vetro nel mistico paese descritto in tante sue opere.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852069598

Dall’India

DI FRONTE ALL’AFRICA

Bello è avere dimora,
dolce il riposo sotto il proprio tetto,
bambini, giardino e cane. Ma ecco,
appena dall’ultimo girovagare ti riprendi
già la distanza t’incalza con nuovi allettamenti.
Meglio soffrire la nostalgia
ed esser solo sotto impervie stelle
col proprio struggimento.
Possedere e sostare può solamente chi
abbia un cuore dal tranquillo battito,
mentre il viaggiatore reca fatiche e affanni
di una speranza sempre delusa.
Pure più lieve è ogni penoso errare,
più lieve della pace nella natia valle,
dove tra la fida cerchia di amici e di timori
solo il saggio costruisce la sua felicità.
Meglio è per me cercare e mai trovare,
non stringermi a vicinanze anguste e calde,
perché sulla terra anche nella felicità
sarò soltanto un ospite e mai un cittadino.

NOTTE SUL CANALE DI SUEZ

Da due ore la nave è molestata dalle zanzare; fa molto caldo, e l’atmosfera allegra del Mediterraneo è svanita con sorprendente rapidità. Molti, semplicemente, sono intimoriti dalla famigerata calura del Mar Rosso, ma i più fanno ritorno in patria da brevi vacanze e visite oppure se ne distaccano per la prima volta, e per tutti costoro la terra natale comincia a dissolversi soltanto ora e l’Oriente li sopraffà con il caldo, la sabbia, il sole che si alza troppo presto e le zanzare, l’Oriente che non amano sebbene sia la fonte dei loro guadagni, anzi proprio per questo. Solo nel ristorante di seconda classe un paio di giovani tedeschi si trattengono a bere, gli altri passeggeri sono quasi tutti in cabina. Il funzionario egiziano addetto alla quarantena, che accompagna la nave da Porto Said, passeggia su e giù immusonito.
Cerco di dormire. Mi sdraio sul letto nella mia minuscola cabina, sopra di me gira ronzando il ventilatore elettrico, nel piccolo oblò rotondo si incornicia nerazzurra la notte afosa, le piccole zanzare cantano stridenti. Da Genova non c’è stata a bordo una notte così tranquilla; nessun rumore, da ore, se non il lieve sferragliare di un treno proveniente dal Cairo, spuntato sul lungo argine deserto, passato spettralmente vicino e scomparso quasi per magia nel canneto del vasto paesaggio spoglio.
Ancor prima di riuscire ad appisolarmi l’improvviso ammutolimento delle macchine mi fa sobbalzare. Siamo fermi. Mi vesto e salgo in coperta. Tutt’attorno un silenzio indicibile, la luna calante spunta dal Sinai, pallide dune occhieggiano morte e opache nel fascio di luce di riflettori lontani, sull’infinita striatura nera dell’acqua baluginano accecanti riflessi velenosi, sotto una greve luna sbiadita tremolano centinaia di laghi, paludi, pozzanghere, stagni di giunchi, giallastri e svogliati nella triste piana. La nostra nave non avanza più, non un richiamo né un fischio, giace immobile in mezzo al deserto, stregata, ma piena di confortante realtà.
Sul ponte posteriore incontro un piccolo, elegante cinese di Shanghai. È appoggiato al parapetto e segue le scie dei riflettori con i suoi saggi occhi scuri, sorridendo amabilmente come sempre. Conosce a memoria tutto lo Shih-ching,1 ha superato tutti gli esami di Stato in Cina e adesso anche alcuni in Inghilterra, parla con delicatezza e cortesia del chiaro di luna sull’acqua in un inglese scorrevole e si complimenta con me per i bei paesaggi delta Germania e della Svizzera. Non gli capita mai di elogiare la Cina, ma quando tesse le lodi dell’Europa ha nella voce, pur con tutta la sua cortesia, un tono di superiorità, come un fratello maggiore che volesse mostrarsi gentile congratulandosi con il più piccolo per le sue forti braccia. Sappiamo tutti che proprio in questi giorni è ricominciata in Cina la grande rivoluzione2 che forse costerà la testa all’imperatore, e il nostro piccolo uomo garbato di Shanghai la sa certo molto più lunga di tutti noi e forse non a caso si trova in viaggio proprio ora. Ma è silenzioso e candido come una vetta montana nel sole e amabilmente trincerato dietro la sua serenità rifrange ogni domanda scomoda con una vincente solarità che ci confonde tutti e mi affascina.
Sulla riva appare una piccola macchia chiara. È un cane bianco, corre per un breve tratto lungo l’argine, allunga il collo magro guardando verso di noi. Ma non abbaia. Osserva per un po’ timido e silenzioso, annusa l’acqua torbida e trotterella via senza rumore, sempre seguendo la linea diritta della sponda.
Il cinese parla delle lingue europee, loda la praticità dell’inglese e la musicalità del francese, si rammarica di aver studiato pochissimo il tedesco e per nulla l’italiano. Sorride amabile e di buonumore e intanto segue con gli occhi umidi e saggi i movimenti delle luci di bordo.
Nel frattempo due grandi piroscafi ci scivolano accanto lentamente e con infinita cautela. La nostra nave è ormeggiata alla riva. Il grande canale è prezioso e fragile e viene trattato col riguardo dell’oro.
Un funzionario inglese di Ceylon si avvicina a noi. Restiamo a lungo in piedi a guardare l’acqua morta, la luna già comincia a calare nuovamente. Ho la sensazione di essere da anni lontano da casa. Nulla mi parla, nulla mi è vicino e caro, nulla mi consola all’infuori della nostra buona nave. Le poche assi, grappe e luci sono tutto ciò che posseggo, e mi inquieta non sentire più, non avvertire più, all’improvviso, dopo tanti giorni il pulsare amico delle macchine.
Il cinese parla con il funzionario inglese dei prezzi del caucciù e io sento in continuazione la parola rubber,3 che dieci giorni fa non conoscevo e che ora mi è diventata così familiare, la parola regina dell’Oriente. Si esprime in lingua piana, con grazia e cortesia, continuando a sorridere nella fioca luce elettrica, come un Buddha.
La luna ha descritto il suo piccolo arco, si abbassa e scompare dietro le grigie fasce detritiche, e con lei scompaiono le cento luci lampeggianti fredde e maligne di paludi e laghi, la notte è profonda e nera, tagliata nettamente dai coni di luce dei riflettori, inquietanti e silenziosi e infinitamente diritti come il pauroso canale.
1. Libro delle odi, uno dei più antichi documenti della letteratura cinese (800 a.C.). [N.d.T.]
2. La rivoluzione repubblicana abbatté la dinastia manciù sotto la guida di Sun Yat-sen.
3. Caucciù in inglese.

SERA SUL MAR ROSSO

Dai deserti roventi
vibra un vento tossico,
oscuro attende il mare appena increspato,
cento precipitosi gabbiani ci accompagnano
attraverso l’inferno spalancato.
Lampi lacerano fiaccamente gli orli del cielo,
non conosce pioggia benefica questo paese dannato.
Ma lassù, luminosa e chiara, c’è
una nuvola quieta, sola;
Dio l’ha messa là per noi,
perché abbrevi sconforto
e solitudine in questo nostro mondo.
Mai potrò scordare il deserto sconfinato
e l’inferno tormentoso
che trovai nel luogo più infocato della terra;
ma lassù, la nuvola ridente
sarà un segnale per l’afa greve
che nel meriggio della vita sento approssimarsi.

ARRIVO A CEYLON

Palme svettanti sulla spiaggia,
mare lucente e nella barca nudi rematori,
sacro antichissimo paese,
eternamente assediato dalla vampa del giovane sole!
Montagne azzurre si perdono nella caligine e nel sogno,
le vette accecano, appena intraviste controluce.
Vivida mi accoglie la spiaggia:
alberi strani si levano rigidi nell’aria,
case ondeggiano colorate nell’incendio del sole,
voci umane chiamano da vicoli cangianti.
Riconoscente il mio sguardo si rifugia tra la folla –
dolce scambio dopo la traversata senza fine!
E il mio cuore si stringe per la gioia,
batte come innamorato nella beata ebbrezza del viaggiare.

LE NICOBARE

Per molti lunghi giorni non avevamo visto terra, tutt’attorno nient’altro che l’eterno specchio nerazzurro dell’Oceano Indiano, i banchi di pesci volanti che schizzavano in slanci argentei e rosati, e il cielo rovente senza caligine, senza nubi, e di notte la vastità sconfinata dello spazio stellato, rilucente di un intenso azzurro cupo. Poi era comparsa Colombo, bianchi frangenti sibilanti e, dietro, terra rossa: rosse strade di polvere turbinante, case multicolori dai contorni tremolanti nella vampa del sole, singalesi belli e scuri dallo sguardo triste nei magri volti principeschi e nei nobili occhi da cerbiatti, e poi un vasto mondo di palme fruscianti, frullio variopinto di uccelli e farfalle, azzurri monti lontani, vertiginosi, di fantastica bellezza. Era comparsa ed era svanita come un bel sogno inverosimile, quella Ceylon colorata, irreale e favolosa nell’abbagliante ricchezza cromatica della sua apparizione. Queste impressioni violente e un po’ teatrali erano improvvisamente riaffondate e sparite, avanzavano di nuovo sul mare sconfinato, giorno dopo giorno, notte dopo notte.
Quando non si sedeva a tavola o si stava in compagnia alla sera, c’era su tutti i volti un’aria triste e abbattuta, quell’espressione sfiorita di stanca apatia tipica di coloro che viaggiano molto, unita alla spossatezza e al languore nervoso che gravano sui bianchi ai tropici. Silenziosi e composti stavano tutti sdraiati nelle loro poltrone di coperta, i piedi nelle scarpe bianche puntati contro la murata, inglesi e americani con le loro mogli, i commercianti e i geologi tedeschi, le signore mezzosangue di Manila. Tutti se ne stavano lì in silenzio, corretti, e nessuno si lamentava; ma i volti erano sinistramente spenti, solo dei bambini, portoghesi, si rincorrevano vispi. Alcuni giovani tedeschi, guidati da un vecchio capitano australiano, trascorrevano intere mezze giornate nel salone da fumo, ed era colpa loro se già prima di Penang a bordo non c’era più birra tedesca, se l’erano ingurgitata tutta; il rumore dei loro dadi d’avorio risuonava per ore misterioso e discreto attraverso i boccaporti come il tramestio di un’attività sconosciuta. Di là, in seconda classe, dove si era meno protetti dal sole e si stava seduti più stretti, si vedevano solo facce stanche e ostili fissare vuote e annoiate l’eterna vastità desolata del mare. Solo quando il giovane medico di bordo faceva il suo giro ridendo o uno degli ufficiali passava tra la gente col volto fresco e lo sguardo vagamente ironico, per qualche istante aleggiava qualcosa di simile a vivacità e interesse. Questi ufficiali e marinai non erano ai tropici, non si abbandonavano pigramente come noi ai loro pensieri e preoccupazioni nella solitudine della traversata, sperduti, oziosi; qui erano a casa, erano sulla loro nave, nella loro patria, qui spirava un’aria di disciplina e pulizia tedesche. Per l’equipaggio le lontane coste oscure e i porti abbaglianti dell’Asia non erano luoghi di speranza, di apprensione o di pericolo, ma semplicemente sporchi angoli esotici di cui la loro linda nave sopportava a stento il contatto e le cui tracce venivano subito cancellate a ogni partenza con stracci e secchiate d’acqua. Ma noi, noi eravamo soltanto passeggeri, per noi la nave non era né patria né luogo di lavoro, e ci attiravano e ci minacciavano quelle coste oscure, quelle città baluginanti, quelle febbricitanti e pallide orlature boscose delle isole.
Una mattina stavo appoggiato alla murata, malinconicamente votato alla vastità e alla desolazione dell’immenso orizzonte vuoto: nient’altro che il cerchio del mare oscuro nella sua agghiacciante sconfinatezza, in alto il sole arroventato e ostile e in mezzo la nostra nave, sperduta, col suo lento e assurdo strisciare in avanti! Laggiù, dove il nostro sguardo non arrivava, potevano esserci l’India o la Cina, l’America o Honolulu, che importava: la nostra realtà consisteva solo in quel vagare minuscoli e solitari nella desolazione totale come un piccolo astro smarrito.
Poi qualcuno mi mise la mano sulla spalla, una mano abbronzata, pelosa, dalle dita sottili e morbide con due anelli d’oro luccicanti: il mio amico Stevenson mi sorrideva, il giramondo più irrequieto e tuttavia più controllato che io conosca. Non dimenticherò mai il mio primo incontro con lui: come un giorno sul Mar Rosso un uomo robusto, bruciato dal sole, con un abito coloniale sbiadito e stropicciato, avesse chiamato la nostra nave da un’imbarcazione a vela pregando di essere accolto a bordo, e come, seguito da un servitore con pochi bagagli, si fosse arrampicato agile e svelto sulla scaletta e col suo casco coloniale sporco e ammaccato, lacero e smagrito, con addosso tutti gli odori dell’Africa, avesse fatto il suo ingresso nella nostra elegante società internazionale, oziosa e biancovestita! – Mi prese dunque sottobraccio e mi condusse a babordo, dove già una decina di passeggeri stavano osservando qualcosa con l’interesse eccessivo di persone mortalmente annoiate.
«Vede?» chiese Stevenson e indicò lontano, e io, dopo aver fissato per un certo tempo con sforzo, vidi davvero qualcosa, vidi qualcosa di sconosciuto, di informe, di irreale, ma che senza dubbio non era mare.
«Terra?» chiesi stupito.
«Le Nicobare» annuì lui.
Le Nicobare? Quel suono mi riportò improvvisamente nell’aula cupa della nostra piccola scuola di provincia, dove una volta, decenni prima, da ragazzo ero stato rimproverato dall’insegnante perché non conoscevo la parola “Nicobare”, il nome di quel gruppo di isole di nessun interesse che sulla carta geografica si trovavano a nord di Sumatra e a sud del golfo di Martaban, simili a una serie di macchioline.
Da allora non avevo più ripensato a quelle isole sperdute, probabilmente non avevo più udito né pronunciato il loro nome; se non fosse stato per le parole di rimprovero di quell’insegnante morto da lungo tempo non lo avrei saputo nemmeno ora. Ma adesso, improvvisamente, vedevo davanti a me nella sua indubitabile realtà un lontano, sconosciuto pezzetto di terra sommamente straniera, di cui tentavo di ricordare ancora la riproduzione sbiadita sulla nostra carta murale di scuola, lo vedevo certo distante e piccolo, ma con contorni che a poco a poco si rafforzavano, un’isola accanto all’altra, in basso confusamente profilate, in alto frastagliate da rilievi montuosi con tenui, ripide vette, là vivevano degli uomini, probabilmente una razza di malesi e alcuni inglesi, e noi avremmo potuto osservarle forse per un paio d’ore. Insomma, ecco le Nicobare!
«Lei c’è stato?» chiesi al mio amico.
«No, finora non ho avuto niente da fare laggiù.»
«Già» dissi «non le sembra che ci sia qualcosa di stupido e di triste nel viaggiare tanto? Lei è stato dappertutto, mi ha raccontato del Texas e del Borneo, di Madras e di Sahalin. Ma in fondo non è terribile starsene sulle navi per tutti quei giorni sempre eguali, a sputare in mare, accanto a persone stanche e infiacchite, tra coste estranee, facendo sempre il giro del globo che alla fine deve sembrare piccolo e privo di valore?»
«Sì» mi rispose sorridendo «a volte ci si annoia. Ma si tratta di un lavoro. Ho già scoperto petrolio, piombo e zinco in tutti i continenti. Quanto sta nel mezzo, questi giorni di viaggio, naturalmente sono sempre identici. Però quando mi accingo a una spedizione nel Borneo con venti, trenta portatori, o devo passare due o tre settimane a cavallo in Sudafrica, senza interruzioni, allora la noia scompare. Del resto, questo vale per tutti, Lei, ad esempio, mi ha detto di essere un letterato. Bene, dunque lei si butta su qualcosa che le sembra importante, ci si estenua fino all’esaurimento; il lavoro è finito, lei è spossato e vuoto, la tensione è cessata, il mondo è vasto e grigio, lei se ne sta lì seduto e aspetta e si chiede se valga veramente la pena di vivere. È esattamente quel che fanno i viaggiatori qui sulla nave, finché rimangono in ozio durante la navigazione. Ma aspetti di arrivare a Penang o a Singapore e vedrà questa stessa gente improvvisamente tesa ed energica davanti ai bagagli imballati che chiama portatori e barche, riceve e spedisce telegrammi e di colpo torna a funzionare magnificamente.»
«Può darsi» ammisi «ma restano comunque dei senzapatria; hanno genitori, mogli, figli e amici a Londra e ad Amsterdam, e a Singapore hanno solo capitali in giacenza che li vincolano perché devono fruttare.»
Stevenson sorrise. «Lei è ancora un principiante, e questa stanchezza tropicale le sembra una specie di strana malattia. Ma non così. È semplicemente l’inattività, a cui nessuna persona sana riesce ad abituarsi, anche se finge di desiderarla. Non è qualcosa da prendere sul serio.»
«Eppure è anche la mancanza di patria» dissi.
Si calcò il berretto sulla fronte abbronzata e disse: «Si sbaglia. La patria è qualcosa che non esiste. Anche a casa, tra i suoi famil...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Un viaggio su ponti magici di Elisabetta Potthoff
  4. Cronologia
  5. Bibliografia
  6. DALL’INDIA
  7. Fonti
  8. Copyright