Lo zoo umano
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Lo zoo umano

  1. 276 pagine
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Gli animali selvaggi, nel loro ambiente naturale, non soffrono delle nevrosi e delle malattie tipiche dell'uomo moderno; ma quando sono in cattività, il loro comportamento si avvicina terribilmente al nostro. Ecco dunque che le nostre metropoli, più che "giungle di cemento", come spesso vengono chiamate, si configurano come un vero e proprio "zoo umano" in cui noi viviamo come animali prigionieri. Partendo da queste considerazioni, Morris analizza il comportamento, il senso e la finalità della vita associata di quelle strane "scimmie vestite" che siamo noi, capaci di scatenare un implacabile progresso sociale e tecnologico insieme ai nostri più potenti istinti creativi e a quelli più pericolosamente autodistruttivi. Lo zoo umano demolisce i miti e i pregiudizi di una civiltà al tempo stesso tecnologica e superstiziosa, affrontando i vari aspetti dell'esistenza animale umana organizzata, dal problema della coppia a quello del grande numero, fino all'esame dell'innaturale habitat cittadino. Ma soprattutto ci offre una serie di spunti di meditazione per trovare una via d'uscita dallo stato di impasse in cui la civiltà umana sembra essere giunta.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852076213
VI

La lotta per gli stimoli

Quando un uomo arriva all’età della pensione, sogna spesso di starsene tranquillamente seduto al sole. Rilassandosi e «prendendosela comoda», spera di godersi così una lunga vecchiaia. Ma se riuscirà a realizzare questo sogno, una cosa è certa: non allungherà la sua vita ma l’accorcerà. La ragione è semplice: avrà rinunciato alla lotta per gli stimoli. Nello zoo umano è un’attività che ci impegna per tutta la vita e se l’abbandoniamo, o l’affrontiamo male, ci troviamo in grossi guai.
Obiettivo della lotta è di ricavare dall’ambiente una quantità ottima di stimoli. Ciò non significa una quantità massima. È possibile essere sovrastimolati oltre che sottostimolati. L’ottimo (o il giusto mezzo) sta tra questi due estremi. È come regolare il volume di una musica trasmessa dalla radio: troppo bassa non ha alcun impatto, troppo alta disturba. Una via di mezzo è il livello ideale, e il raggiungimento di questo livello in rapporto all’intera nostra esistenza è l’obiettivo della lotta per gli stimoli.
Per il membro della supertribù non è facile. È come se fossimo circondati da centinaia di «radio» comportamentistiche, alcune delle quali sussurrano, altre sbraitano. Se, in casi estremi, sussurrano tutte quante, o ripetono in monotona continuazione gli stessi suoni, egli soffrirà di acutissima noia. Se sbraitano tutte, soffrirà di una grave tensione.
Per il nostro remoto antenato tribale questo non era un problema tanto grave. A tenerlo occupato bastavano le esigenze della sopravvivenza. Tutto il suo tempo e tutta la sua energia erano dedicati allo star vivo, al trovare cibo e acqua, a difendere il proprio territorio, a evitare i nemici, a generare e allevare i suoi piccoli e a costruire e conservare il proprio alloggio. Anche in tempi eccezionalmente brutti, doveva se non altro lottare con qualcosa di relativamente semplice. Non era mai soggetto alle frustrazioni e agli intricati e complessi conflitti che sono tipici dell’esistenza supertribale. E difficilmente può aver troppo sofferto della noia per eccessiva sottostimolazione, anch’essa paradossalmente imposta dalla vita supertribale. Le forme avanzate della lotta per gli stimoli sono dunque una specialità dell’animale urbano. Non le troviamo tra gli animali selvatici o tra gli uomini «selvatici» nel loro ambiente naturale. Le troviamo invece sia negli uomini urbani sia in un tipo particolare di animale urbano: l’ospite dello zoo.
Come lo zoo umano, quello animale assicura ai suoi occupanti cibo e acqua con regolarità, protezione dagli elementi e immunità dai predatori naturali. Bada alla loro igiene e alla loro salute. Può anche, in certi casi, sottoporli a tensioni violente. In questa condizione estremamente artificiosa, anche gli animali dello zoo sono costretti a passare dalla lotta per la sopravvivenza a quella per gli stimoli. Quando l’afflusso dal mondo che li circonda è troppo scarso, devono trovare la maniera di aumentarlo. Quando invece è eccessivo (esempio, il panico di un animale appena catturato) devono sforzarsi di soffocarlo.
Il problema è più grave per certe specie che per altre. Da questo punto di vista gli animali si dividono fondamentalmente in due categorie: gli specialisti e gli opportunisti. I primi sono quelli che hanno sviluppato un particolare meccanismo di sopravvivenza dal quale dipende la loro stessa esistenza e che domina la loro vita. Tali sono, per esempio, i formichieri, i koala, i panda giganti, i serpenti e le aquile. Finché i formichieri hanno le loro formiche, i koala le loro foglie di eucalipto, i panda i loro germogli di bambù, i serpenti e le aquile le loro prede, possono stare tranquilli. Hanno perfezionato la loro specializzazione dietetica a un punto tale che, purché siano soddisfatte queste particolari esigenze, possono benissimo accettare una vita pigra e priva di qualsiasi altro stimolo. Le aquile, per esempio, riescono a prosperare in una piccola gabbia vuota per oltre quarant’anni senza neanche mordersi gli artigli, a patto, s’intende, di poter affondarli quotidianamente in un coniglio ammazzato di fresco.
Gli opportunisti non sono così fortunati. Sono le specie – come i cani e i lupi, i procioni lavatori e i coati, le scimmie e gli scimmioni – che non hanno sviluppato un unico meccanismo specializzato di sopravvivenza. Sono pronti a tutto e perennemente all’erta per sfruttare il minimo appiglio che l’ambiente può dargli. Allo stato selvatico, non cessano mai di esplorare e di indagare. Esaminano ogni cosa e qualunque cosa nell’eventualità che possa aggiungere un’altra corda all’arco della sopravvivenza. Non possono permettersi di rilassarsi a lungo, e l’evoluzione ha provveduto perché non lo facciano. Hanno sistemi nervosi che aborrono l’inattività e li tengono continuamente sul chi vive. Fra tutte le specie, l’opportunista supremo è l’uomo. Come le altre, egli esplora intensamente. Come le altre, ha biologicamente insita in sé l’esigenza di un alto afflusso di stimoli dall’ambiente.
In uno zoo (o in una città) sono evidentemente le specie opportuniste quelle che più soffrono dell’artificiosità della situazione. Anche se gli si forniscono diete perfettamente equilibrate e se sono impeccabilmente riparati e protetti, si annoieranno e diverranno prima irrequiete e poi nevrotiche. Quanto più comprendiamo il comportamento naturale di questi animali, tanto più diventa ovvio, per esempio, che le scimmie dello zoo sono in pratica quasi soltanto delle deformazioni caricaturali dei loro equivalenti allo stato selvatico.
Ma gli animali opportunisti non s’arrendono con facilità. Reagiscono alle situazioni sgradevoli con ingegnosità singolare. E così fanno gli ospiti dello zoo umano. Se paragoniamo le reazioni dello zoo animale a quelle che riscontriamo nello zoo umano, risulteranno impressionanti similitudini tra questi due ambienti del tutto artificiosi.
La lotta per gli stimoli funziona secondo sei principi fondamentali, che sarà utile esaminare a uno a uno, guardando prima come si applicano nello zoo animale, e poi nello zoo umano. I principi sono questi.

1. Se la stimolazione è troppo debole, potete aumentare la vostra produzione comportamentistica
creando problemi superflui che potete poi risolvere

Abbiamo tutti sentito parlare di congegni per risparmiare fatica, ma in questo caso si tratta di congegni per sprecarla. Chi lotta per gli stimoli si crea deliberatamente del lavoro inventandosi attività che potrebbero essere svolte in modo più semplice o che non c’è più nessun bisogno di svolgere.
Allo zoo si può vedere il gatto selvatico che nella sua gabbia lancia in aria un uccello o un topo morto e poi salta per afferrarlo e avventarglisi addosso. Lanciando la preda, l’animale può conferirle movimento, e quindi «vita», nonché offrire a se stesso l’occasione di compiere un’«uccisione». Analogamente si può vedere una mangusta in cattività che «scuote a morte» un pezzo di carne.
Osservazioni dello stesso tipo si possono fare anche sugli animali domestici. Un cagnolino viziato e ben nutrito lascia cadere un bastone o una palla ai piedi del padrone e attende con pazienza che questo oggetto venga scagliato. Una volta che lo vede muoversi in aria o sul terreno, esso diventa «la preda» e può quindi essere inseguito, catturato, «ucciso» e riportato indietro per ripetere l’operazione. Il cane domestico può non aver fame di cibo ma ha fame di stimoli.
Alla sua maniera, un procione lavatore in gabbia è altrettanto ingegnoso. Se non c’è da cercare nutrimento in un ruscello vicino, l’animale lo cercherà egualmente, anche quando non c’è nemmeno il ruscello. Porta il cibo sul suo recipiente d’acqua, lo lascia cadere, lo perde e si mette poi a cercarlo. Una volta che lo ha trovato, prima di mangiarlo, lo graffia per qualche tempo nell’acqua. Accade addirittura che in questo processo finisca per distruggerlo, e che i pezzi di pane divengano una poltiglia inutilizzabile. Ma non ha importanza, in quanto è stato soddisfatto l’impulso frustrato alla ricerca del cibo. È qui, tra parentesi, l’origine dell’antica credenza secondo la quale questi animali lavano il proprio cibo.
C’è un grosso roditore, simile a un porcellino d’India sui trampoli, che si chiama aguti. Allo stato selvaggio spella certi vegetali prima di mangiarli. Li tiene tra i piedi anteriori e li sbuccia coi denti come noi potremmo sbucciare un’arancia. E solo dopo aver completamente scuoiato l’oggetto si decide a mangiarlo. In cattività, fa il possibile perché questo impulso non venga frustrato. Se gli si dà una mela o una patata perfettamente pulite, l’aguti la spella lo stesso meticolosamente e, dopo averla mangiata, divora anche la buccia. Tenta persino di «spellare» un pezzo di pane.
Passando allo zoo umano, si ha un quadro sorprendentemente simile. Nascendo in una supertribù moderna, veniamo scaraventati in un mondo dove l’intelligenza umana ha già risolto in massima parte i problemi basilari della sopravvivenza. Come gli animali dello zoo, ci accorgiamo che il nostro ambiente emana sicurezza. Svolgiamo quasi tutti una certa quantità di lavoro, ma grazie ai progressi tecnici, ci resta molto tempo da dedicare alla lotta per gli stimoli. Non siamo più completamente assorbiti dal problema di trovare cibo e alloggio, di allevare i nostri figli, di difendere i nostri territori o di evitare i nostri nemici. Se a questo obiettate che non smettete mai di lavorare, dovete farvi una domanda fondamentale: potreste lavorare meno e sopravvivere egualmente? Nella maggior parte dei casi, la risposta sarebbe un «sì». Il lavoro è per il membro della supertribù moderna l’equivalente della caccia per procurarsi il cibo e, come gli ospiti dello zoo animale, egli svolge spesso questa attività molto più elaboratamente di quanto non sia strettamente necessario. Si crea cioè dei problemi.
Solo quei settori della supertribù che devono sopportare quelle che noi definiamo gravi privazioni lavorano esclusivamente per la sopravvivenza. Anche loro però saranno costretti a partecipare alla lotta per gli stimoli non appena avranno un po’ di tempo libero, e per questa particolare ragione: Il cacciatore delle tribù primitive poteva essere un «lavoratore per la sopravvivenza» ma i suoi compiti erano diversi e tutti interessanti. Il disgraziato membro subordinato della tribù che lavora per la sopravvivenza non è così fortunato. Grazie alla divisione del lavoro e all’industrializzazione, è costretto ad attività intensamente tediose e ripetitive – la stessa routine ripetuta giorno dopo giorno, anno dopo anno – che sembrano farsi beffa del cervello gigante racchiuso nel suo cranio. Quando ha qualche momento libero, sente il bisogno di partecipare alla lotta per gli stimoli come qualunque altro abitante del nostro mondo moderno perché il problema della stimolazione è un fatto di varietà e di qualità oltre che di quantità.
Per gli altri, come ho detto, la maggior parte dell’attività è lavoro per il lavoro e, quando è abbastanza eccitante, il lottatore – per esempio un uomo d’affari – può accorgersi di aver fatto tanti punti nella giornata lavorativa da poter trascorrere le ore libere, rilassandosi e indulgendo alle occupazioni più banali. Può sonnecchiare davanti al caminetto con accanto una bibita o cenare in un ristorante tranquillo. Se quando cena balla, vale la pena osservare come balla. Il punto è che anche chi lavora per sopravvivere può andare a ballare la sera. A prima vista sembra che ci sia una contraddizione, ma un esame più attento rivela che tra i due tipi di ballo c’è una differenza abissale. Il grande uomo d’affari non si butta nell’energica competizione della sala da ballo o nella sfrenata danza folcloristica. Il suo goffo scalpicciare sul pavimento del night club (le cui piccole dimensioni sono state scelte per adattarsi alle sue ridotte esigenze di stimoli) è tutt’altro che competitivo o frenetico. L’operaio non specializzato diventa generalmente un abile ballerino; lo specializzatissimo uomo d’affari un ballerino incapace. In entrambi i casi l’individuo raggiunge un equilibrio che è ovviamente l’obiettivo della lotta per gli stimoli.
Semplificando eccessivamente il discorso, ho forse dato l’impressione che la differenza tra questi due tipi umani sia soprattutto una distinzione di classe, ma non è così. Sono numerosissimi gli uomini d’affari annoiati e sofferenti perché svolgono in ufficio mansioni ripetitive e monotone quasi quanto l’impacchettare casse sul banco di una fabbrica. E anche costoro, nel tempo libero, cercano forme di svago più stimolanti. Ci sono inoltre semplici lavori da manovali che permettono un’attività ricca e varia. Il manovale più fortunato, la sera, assomiglia all’uomo d’affari di successo, e può rilassarsi bevendo qualcosa in pace e chiacchierando.
Un altro fenomeno interessante è la massaia sottostimolata. Circondata dai moderni congegni per risparmiare fatica, se vuole occupare il suo tempo deve inventare congegni che sprechino fatica. È meno futile di quanto non paia. Può se non altro scegliere le proprie attività, ed è questo l’unico vantaggio della vita supertribale. Nell’esistenza tribale primitiva non c’era scelta. La sopravvivenza imponeva le sue esigenze. Tu dovevi far questo, questo e questo o morire. Adesso invece puoi fare questo, quello o quell’altro, come preferisci, pur di tener presente che devi fare qualcosa a meno di non violare le auree regole della lotta per gli stimoli. Così la massaia, mentre il suo bucato rotea automaticamente in cucina, deve occuparsi di qualche altra cosa. Le possibilità sono innumerevoli e il gioco può essere molto affascinante. Può anche finir male. Ogni tanto il giocatore sottostimolato sospetta improvvisamente che l’attività compensatrice alla quale si sta così implacabilmente dedicando sia in realtà priva di significato. Che senso ha restaurare mobili, raccogliere francobolli o iscrivere il cane a un’ennesima esposizione canina? Che cosa prova? A che cosa serve? È questo uno dei pericoli della lotta per gli stimoli. I sostituti della vera attività per la sopravvivenza rimangono sostituti da qualunque parte si voglia guardarli. Può facilmente intervenire la delusione, e bisogna superarla.
Le soluzioni sono diverse. Una è piuttosto drastica. È una variazione della lotta per gli stimoli chiamata provocazione della sopravvivenza. L’adolescente deluso, invece di lanciare la palla in un campo di giochi, la lancia contro i cristalli di una finestra. La massaia delusa, invece di colpire il cane, colpisce il lattaio. L’uomo d’affari deluso, invece di smontare il motore della sua auto, spoglia la sua segretaria. Le conseguenze di questa scelta sono drammatiche. In un batter d’occhio l’individuo si trova coinvolto in una vera lotta per la sopravvivenza, deve cioè battersi per la propria vita sociale. In queste fasi c’è una tipica diminuzione dell’interesse per il restauro dei mobili o per la collezione di francobolli. Poi, una volta cessato il caos, le vecchie attività sostitutive riappaiono improvvisamente allettanti.
Una varietà meno drastica è la provocazione della sopravvivenza per interposta persona. Una delle forme che essa può prendere è l’immischiarsi nella vita emozionale di altre persone e il creare per loro quel caos nel quale altrimenti bisognerebbe entrare di persona. È il principio del pettegolezzo maligno, ed è estremamente popolare perché tanto meno rischioso dell’azione diretta. Il peggio che possa succedere è perdere alcuni amici. Ma se lo si pratica con abilità sufficiente, può accadere anche l’inverso: essi possono diventare sostanzialmente più amici. Se le tue macchinazioni sono riuscite a sconvolgere la loro vita, potranno avere più che mai bisogno della tua amicizia. Così, a patto che tu non venga scoperto, questa variante offre un duplice vantaggio: l’emozione indiretta dell’assistere al dramma della loro sopravvivenza e il successivo rafforzamento della loro amicizia.
La seconda forma di provocazione della sopravvivenza per interposta persona è meno nociva. Consiste nell’identificarsi con il dramma della sopravvivenza di personaggi inventati di libri, film, commedie e spettacoli televisivi. Questa è ancor più popolare ed è sorta un’industria gigantesca per soddisfare la domanda da essa creata. È non soltanto innocua e priva di rischi, ma ha anche la caratteristica di essere singolarmente poco costosa. Il gioco della provocazione della sopravvivenza vera e propria può costare alla fine dei milioni, ma questa variante può permettere, per poche centinaia di lire, a chi lotta per gli stimoli di indulgere alla seduzione, allo stupro, all’adulterio, all’inedia, all’assassinio e al saccheggio anche senza lasciare la comodità della sua poltrona.

2. Se la stimolazione è troppo debole potete aumentare la vostra produzione comportamentistica
reagendo eccessivamente a uno stimolo normale

È il principio dell’abbandono eccessivo alla lotta per gli stimoli. Invece di formulare il problema per il quale bisogna poi trovare una soluzione, come nel caso precedente, si continua a reagire a uno stimolo già disponibile, anche se ha cessato di eccitare nel suo ruolo originario. È diventato puramente un dispositivo occupazionale.
Negli zoo dove il pubblico è autorizzato a dar da mangiare agli animali, certe specie annoiate, non avendo altro da fare, continuano a mangiare sino a superare di molto il loro peso normale. Hanno già consumato la dieta completa servitagli dallo zoo e non hanno più fame, ma piluccare oziosamente è già meglio che non fare nulla. Così diventano sempre più grassi o si ammalano, o gli capitano entrambi gli inconvenienti. Le capre mangiano montagne di cartoni di gelato, pezzi di carta, insomma quasi tutto ciò che viene loro offerto. Gli struzzi consumano persino oggetti di metallo acuminati. Un esempio classico è quello di un’elefantessa. Venne osservata con attenzione per tutta una giornata normale, e in questo periodo divorò (oltre la consueta dieta, sufficiente al suo nutrimento) i seguenti oggetti offerti dal pubblico: 1706 arachidi, 1330 zuccherini, 1089 pezzi di pane, 811 biscotti, 198 spicchi d’arancia, 17 mele, 16 pezzi di carta, 7 gelati, un hamburger, un laccio da scarpe e un guanto bianco di pelle appartenente a una signora. Ci sono stati orsi che sono morti soffocati per la pressione eccessiva del cibo nello stomaco. Tali sono i sacrifici che si fanno alla lotta per gli stimoli.
Uno degli esempi più singolari di questo fenomeno è quello di un enorme gorilla maschio che regolarmente mangiava, rigurgitava e rimangiava il suo cibo, in una versione tutta personale di un banchetto romano. Questo processo venne spinto ancora oltre da un bradipo orsino che venne visto spesso rigurgitare più di cento volte il suo cibo e sempre rimangiarselo con i gorgoglii e i risucchi tipici della sua specie.
Se le possibilità di abbandonarsi a questa forma di comportamento appetitivo sono limitate e se non ha niente altro da fare, un animale può anche eccedere nella pulizia personale, insistendo anche quando le sue piume o il suo pelo sono ormai da un pezzo perfettamente lindi e lucidi. Anche questo può provocare guai. Ricordo un cacatua galerita che era rimasto soltanto con una penna, una delle lunghe penne gialle del ciuffo, mentre il resto del suo corpo era nudo come quello di un pollo nel forno. È un caso estremo, ma non isolato. Anche i mammiferi si grattano e si leccano le chiazze scoperte sino a formare delle piaghe, avviando così un circolo vizioso di irritazione e grattamento.
Per quanto concerne l’umano che partecipa alla lotta per gli stimoli, sono notissime le forme sgradevoli che questo principio può assumere. Nell’infanzia per esempio ci si succhia a lungo il pollice, come conseguenza di una scarsità di contatti e di interazioni con la madre. ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Lo zoo umano
  4. Introduzione
  5. I. Tribù e supertribù
  6. II. Status e superstatus
  7. III. Sesso e supersesso
  8. IV. Gruppi interni e gruppi esterni
  9. V. Impronte e malimpronte
  10. VI. La lotta per gli stimoli
  11. VII. L’adulto infantile
  12. Ringraziamenti
  13. Nota bibliografica
  14. Bibliografia
  15. Copyright