Sogni antichi e moderni
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Sogni antichi e moderni

  1. 408 pagine
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Sogni antichi e moderni

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Per i Greci del tempo di Socrate, il sogno è il prodotto – e insieme il compagno segreto e inseparabile – di un'entità invisibile, racchiusa dentro ogni essere umano, chiamata «anima» ( psyche ). L'anima è il vero io, e Socrate dice che «bisogna prendersi cura di lei più di ogni altra cosa». E il sogno è la prova che l'anima ha in sé «qualcosa di divino». Quando il corpo giace nel sonno, l'anima ascolta voci prodigiose, percepisce odori soavi, scorge una luce meravigliosa, e le figure sacre appaiono maestose e benevole.

Per Pietro Citati, la rappresentazione greca del sogno è molto più vasta, libera, mobile e polimorfa di quella – arida, schematica – degli psicologi moderni. Per fortuna, negli ultimi due secoli la mente umana è stata salvata dai grandi scrittori, come Proust e Kafka.

Con un'attenzione delicatissima ai «segni dell'anima», Citati rintraccia in Chateaubriand, Jane Austen, Balzac, Stendhal le «immagini della morte», l'ombra che accompagna il cammino di ogni uomo. Nella scrittura di Nerval, Flaubert, Hawthorne, Nietzsche scorge l'immagine riflessa di una zona superiore che domina sia i campi beati e furiosi della Follia, sia quelli aguzzi e lancinanti della Ragione. E in fondo ai libri di Cechov, Conrad, Virginia Woolf scopre quel «passeggero clandestino» che sta rinchiuso nel cuore di molti di noi e compie le azioni che non osiamo commettere.

Citati è convinto che la psyche dei Greci, grazie al potere formidabile dei sogni, agisca in tutte le epoche, e non solo nella letteratura ma in ogni rappresentazione mentale dell'umanità. Malgrado le differenze, non è evidente che il cristianesimo – dagli scritti dei Padri della Chiesa fino alle più remote manifestazioni della letteratura cristiana in Cina – è un unico, immenso edificio musicale che obbedisce ad alcune armoniche fondamentali? La sconfinata malinconia della principessa Murasaki, nel Giappone del decimo secolo, o lo scuro manto di piccole chiese di legno che rivestono la Norvegia nell'undicesimo, non provocano in noi una sensazione profonda, dove l'emozione artistica, quella naturale e quella religiosa si fondono in modo quasi incomprensibile, come se il numinoso si rivelasse ai nostri occhi?

Sogni antichi e moderni è un libro straordinariamente vasto: comincia con il testo biblico di Giobbe e finisce con Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo tedesco trucidato dai nazisti. Discorre volubilmente di tutto: letteratura, religione, pittura, psicologia, paesaggio, teologia, architettura. Accanto ai grandi della letteratura e della religione, appaiono innumerevoli piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Così che ogni lettore potrà trovarvi alimento.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852076428
Parte seconda

VISIONI DI DIO

IL CORANO

Gli italiani non leggono il Corano. Le traduzioni nella nostra lingua sono poche e cattive: i commenti non sono migliori. Ma la traduzione di Ida Zilio-Grandi è bellissima: dal principio alla fine mantiene il tono giusto, quella semplicità sublime con cui Maometto ha evocato la voce di Dio. Tutto il libro è eccellente: l’introduzione di Alberto Ventura, di squisita intelligenza, e i commenti di Mohammad Ali Amir-Moezzi, Alberto Ventura, Mohyddin Yahia, Ida Zilio-Grandi sono ampli e scrupolosi. Tra i commentatori, due appartengono alla tradizione islamica, sebbene vivano ed insegnino a Parigi: questo conferisce al loro testo una maggiore vicinanza al libro sacro, senza offendere mai il rispetto per la verità scientifica. Dunque, gli italiani possono finalmente leggere il Corano, abbandonandosi a quell’onda solenne e tumultuosa. Credo che le sorprese saranno molte.
Il Corano è un libro sacro singolarissimo. Discorre di sé, si interpreta, si analizza, si descrive, dubita di sé, si esalta, con un’eloquenza che non viene mai meno. Parla delle proprie origini. Il Corano non è soltanto il volume che oggi teniamo tra le mani, e nemmeno le fibre e le foglie d’albero sulle quali Maometto e i suoi amici incisero la rivelazione, ma è innanzitutto il proprio archetipo celeste. Prima che il tempo avesse inizio, Dio incise le proprie parole, in caratteri di luce, su una materia incorruttibile. Questa tavola è custodita: cioè sta al riparo da ogni minaccia di alterazione; non cambierà né si deformerà mai, immutabile come i veri libri.
Mentre il Corano stava lassù, fermissimo e invisibile, oltre il settimo cielo, cioè prossimo a Dio, cominciava la sua lenta ed incessante discesa, che da principio comprese la Torà e i Vangeli. La Torà e i Vangeli non sono il Corano, ma lo contengono in potenza, e come in enigma. Il Corano comprende la Torà e i Vangeli, perché è il libro del ricordo: richiama innumerevoli luoghi della Bibbia ed esalta i profeti ebraici: ciò che là è racconto diventa qui predicazione divina; e viene interpretato, chiarito, confermato. «Il seme produce un germoglio che poi si rafforza, si irrobustisce e si alza saldo sul gambo.»
Poi il Corano si sposta verso il futuro e la fine. Comprende l’ultima ora, che verrà all’improvviso come nei Vangeli, e anzi è già avvenuta, nelle pagine di Maometto, dove echeggia il boato della tromba celeste, il cielo si spacca, rosso come cuoio lucidato, le stelle si offuscano, i monti sono rimossi, i mari ribollono, e le donne gravide abortiscono. Appaiono «i giardini alle cui ombre scorrono i fiumi», dove i fedeli resteranno in eterno: il paradiso, che è il motivo musicale del grande testo. Così il Corano è sia il primo libro, inciso nella luce prima dei tempi, sia l’ultimo libro, che noi leggiamo mentre crediamo di abitare nel presente. Niente, a rigore, potrebbe essere scritto dopo il Corano: se non infiniti commenti, chiose, analisi e interpretazioni, contenuti dentro il Corano come il gheriglio dentro la noce.
Questo archetipo celeste, questa «tavola custodita», Dio la fece discendere su Maometto: sebbene fosse un uomo, nient’altro che un uomo, capace di mancanze e di errori. Come disse Aisha, l’ultima delle sue mogli, «la natura di Maometto era intera il Corano». Dio gli rivelò tutto il libro nel corso di un’unica notte, detta «la notte del destino». Poi, via via che gli anni passavano, ripeté la sua rivelazione nel tempo, sotto la forma di versetti comunicati – soffio dopo soffio, tocco dopo tocco – durante ventitré anni.
Se usiamo le parole dei moderni, Maometto compì un’impresa prodigiosa, alla quale si rifiutarono sempre gli ebrei e i cristiani. I Vangeli non sono la trascrizione diretta delle parole di Gesù: sono immensamente più discreti, perché si accontentano di raccogliere le tradizioni, che avevano trascritto e ricordato le sue parole. Maometto, invece, ha inventato la parola di Dio: senza alcun timore di compiere un atto empio, trasforma la sua voce umana in una voce dettata dal cielo. Così ora sentiamo, attraverso di lui, la parola di Dio, letta, proclamata, predicata ad alta voce. La sentiamo mentre si rivolge in primo luogo a Maometto, il suo «servo», il suo intermediario, e poi a tutti gli uomini, fedeli o miscredenti. La sentiamo vicinissima, come risuonasse, accanto a noi, sulla terra, nel tempo presente. Ne sentiamo il suono, il ritmo, il timbro, il calore, il movimento. Questo è il primo, straordinario effetto del Corano: sopratutto su lettori non musulmani, o che non hanno sensibilità religiosa.
Il Corano non obbedisce ad una struttura logica: non segna un percorso continuo e rettilineo. Esso è vagabondo, erratico, labirintico. Procede ad onde, a balzi: avanza, si ritrae, si sposta, si contraddice, ritorna, arretra, accumula; questa struttura così discontinua è il segno, forse, del suo carattere intenzionalmente sacro. Dio, dice stupendamente Maometto, «scaglia la verità»: non vuole farla conoscere o spiegarla, ma la scaglia come si può scagliare un fulmine, o la erutta e la fa esplodere come un vulcano. Tutto vi è frattura, intermittenza, abisso, formula apocalittica. Oppure Dio segue il metodo opposto: si ripete e torna a ripetersi. Quante volte ci parla dei fiumi del paradiso. Quante volte ci dice: «Egli è colui che mi ha creato e mi guida. Egli è colui che mi nutre e mi disseta e quando mi ammalo mi guarisce. Egli è colui che mi fa morire e poi mi risuscita».
Qualche volta, il Corano è chiarissimo e – dice Maometto – porta alla luce ciò che stava celato nella Bibbia, nei Vangeli e nelle tradizioni apocrife. È facile e semplice. Qualche volta, al contrario, è oscuro e misterioso: Maometto parla dei «rotoli di pergamena che fate vedere e in gran parte tenete nascosti». In ogni caso, il Corano rifiuta di spiegarsi. Quando Maometto veniva interrogato sul suo significato, rispondeva: «Dio ha detto qui ciò che ha voluto dire». Con qualche eccezione, il tono è sempre lo stesso: anche dove parla di questioni giuridiche o di eventi politici, il Corano raggiunge un tono sublime che lo Pseudo-Longino avrebbe ammirato; «la sublime lingua di verità». Questa lingua ha un effetto fisico-ipnotico fortissimo: tanto che, come dice un passo, la pelle di chi lo ascolta «si raggrinza e poi si raddolcisce».
Il Corano che noi leggiamo e sopratutto ascoltiamo non è il vero Corano: quello che, alle origini del mondo, è stato scritto sulla tavola custodita. La parola di Dio, che è divenuta «linguaggio e suoni articolati», è stata avvolta da un tenuissimo e oscurissimo velo. Per scoprire «lo spirito e il significato profondo» che anima quei suoni e quei segni, dobbiamo risalire al mondo celeste, verso la tavola custodita. Questa operazione è insieme necessaria e impossibile: può compierla solo Dio, perché Lui solo sa cogliere nella sua essenza la «parola puramente interiore» che costituisce il cuore del libro. Così ogni lettura del Corano, anche quest’ultima che compiamo aiutati da una buonissima traduzione e da un buonissimo commentario, è un fallimento. Il Corano resta incomprensibile all’occhio e all’orecchio umani.
Questo libro incomprensibile ruota attorno a un Dio egualmente incomprensibile. Dio è unico: «è colui che basta a sé stesso»; non ha eguali, né secondi, né compagni, né figli, né associati, né ministri. Non ha alcun bisogno degli uomini, delle loro opere, delle loro preghiere, e del mondo di animali e piante che ha foggiato. «Se non li avessi creati» Egli dice «non ne avrei alcun danno: ora che li ho creati, se non faranno quello che ho prescritto loro, e se non eseguono i miei ordini, non me ne viene alcun detrimento e, se obbediscono ai miei ordini, non me ne viene alcuna utilità.» «Se volessi» Egli insiste «vi farei sparire, e vi sostituirei con chi voglio.» Ciò che è tipico del mondo islamico è appunto questa ebbrezza, questa vertigine di unità, dalle quali sono nate meravigliose pagine teologiche e mistiche. Col suo concetto di Trinità, alla quale si è aggiunta la divinità di Maria, il cristianesimo è infinitamente più complicato. Anche il Divino e l’Uno, per noi, sono molteplici.
Siccome è unico, Dio è onnipresente, onnisciente, onnipossente. Comprende in sé tutte le opposizioni e le antitesi: il giorno e la notte, il morto e il vivo, il bene e il male. Quindi sa tutto per natura e per esperienza. «Egli conosce quel che è sulla terra e quel che è nel mare, non cade foglia senza che egli non voglia, e non c’è granello nelle tenebre della terra, nulla di umido o di secco che non si è registrato in un libro.» Non c’è segreto che Egli non conosca: quelli delle coscienze, del passato, dell’avvenire e dell’invisibile. Nulla, mai, gli è nascosto. Sebbene il Suo linguaggio preferisca l’immenso, ha uno sguardo microscopico e molecolare: non gli sfugge il peso di una formica, né quello di un granello di polvere, o di un granello di senape, o di una tarma, o la pellicina del nocciolo di un dattero, perché nel minimo si cela il mistero. In qualsiasi momento del tempo, Dio ci spia: non è mai assente: non si distrae dall’osservare; e in qualunque situazione ci troviamo, Egli assiste a ciò che facciamo, diciamo e pensiamo. Se è dappertutto, vive anche nei corpi: a tratti è visibilmente antropomorfo; e noi abbiamo violenti rapporti fisici con Lui, perché dobbiamo afferrarci tutti alle Sue funi. Dunque, Dio abita anche il male: ciò che fa Iblis, l’angelo della Tenebra, esce dalle Sue mani.
Quando foggia il mondo, la fantasia di Dio è immensamente creativa e feconda. È la Provvidenza. Rende stabili le terre, dispone i fiumi per irrigarle, dà loro cime montagnose, divide i mari con una barriera, manda i venti a portare le voci, fa discendere la pioggia per gli uomini, gli armenti, il frumento, l’ulivo, le palme, le viti, i melograni. Tutto è fresco, fertile e luminoso, come nei primi capitoli della Genesi. Se vuole creare una cosa, Dio pronuncia lo stesso Fiat della Bibbia. Oltre alla terra, crea altri mondi e altre città, che stanno ai piedi della smeraldina montagna di Qaf. Crea quelle cose trasparenti e stranissime che sono le ombre. E se, nella Bibbia, la creazione trova una fine, qui è continua: Dio può prolungarla e rinnovarla e moltiplicarla, perché – per Lui – nulla è difficile e definitivo.
Tutto ciò che noi vediamo è un’immagine di Dio. La sterminata regione dei corpi, gli alberi, gli uomini, le luci, le ombre sono sembianze del Suo unico volto. Dio è il chiostro dove si rifugia il monaco cristiano, il tempio dove vengono venerati gli idoli, il prato dove brucano le gazzelle, la Ka‘ba dove si prostra il pellegrino, le Tavole dove è stata scritta la legge mosaica, il Corano ispirato a Maometto. Ma il Dio islamico non si è incarnato come Gesù. Egli è soltanto entrato nelle forme create, come l’immagine entra e si riflette dentro lo specchio. Chi contempla le cose, non contempla la luce divina: la scorge deformata e trasformata, come la luce che penetra in un filtro di vetro colorato viene tinta dal giallo e dal rosso. Il nostro mondo è l’ombra rispetto alla persona, l’immagine specchiata rispetto alla figura, il frutto rispetto all’albero. Così il credente, che si slancia verso le forme create per conoscere Dio, incontra una delusione: giacché il mondo è un velo che ci nasconde il Suo volto. Non sappiamo se ce lo nasconde perché è un velo troppo spesso: o perché la manifestazione di Dio è così intensa, la rivelazione così luminosa da accecare i nostri occhi. Sebbene Dio si manifesti in tutte le cose, Egli è nascosto ed assente, e noi seguiamo invano la sua rivelazione.
Il Corano comincia: «Nel nome di Dio, il Clemente». Clemente non è un aggettivo, un attributo del nome di Dio, ma un Suo sinonimo. Dio e Clemente significano esattamente la stessa cosa. Così, se sfogliamo il Corano, lo scorgiamo donare, senza badare a meriti umani (che non esistono), o a una qualsivoglia giustizia, ma obbedendo soltanto alla propria volontà e al proprio capriccio. Come sappiamo, Egli è l’Unico, che contiene in sé tutte le qualità; e quindi non dobbiamo meravigliarci se, sia pure in modo indiretto, egli compia il Male. Induce i miscredenti a farlo: «Dio ha sigillato loro il cuore e l’udito, e sui loro occhi c’è un velo», che li rende ciechi. Se qualcuno possiede «una malattia del cuore», Dio non la cura e non la mitiga, ma la accresce. Qualche volta travia, induce in errore, insidia, tende tranelli, trama inganni: come Zeus, il grande ingannatore della religione greca.
Travolto da questa forza divina troppo grande, l’uomo si copre di peccati, di cui è innocente. Eppure, egli ne è colpevole. Dio vuole appunto questo: un mondo tessuto di peccati e di peccatori, che gli permetta l’atto divino del Perdono. Ibrahim, un asceta, girava attorno alla Ka‘ba: presso la porta del santuario si fermò e disse: «Mio Signore, preservami dal peccato, affinché io non mi ribelli al tuo desiderio». Una voce che proveniva dal cuore della Ka‘ba gli sussurrò: «O Ibrahim, mi chiedi di preservarti dal peccato. Tutti i miei servitori mi chiedono questo. Ma, se ti preservassi dal peccato, voi sareste privati della mia misericordia. Se tutti gli uomini fossero innocenti, a chi accorderei la mia grazia?».

GIOVANNI SCOTO E L’«OCEANO DIVINO»

Con ogni probabilità, Giovanni – il più grande filosofo del Medioevo latino – nacque in Irlanda attorno all’815. La tradizione gli attribuisce due nomi: Giovanni Scoto e Giovanni Eriugena, cioè Giovanni l’Irlandese. Lo circondava una specie di leggenda: «vir barbarus in finibus mundi positus», come scrisse Anastasio il Bibliotecario. Abbiamo pochissime notizie sulla sua vita. Tutto lascia credere che, carico di un’immensa erudizione, abbia insegnato nella giovinezza in Irlanda; e che il re Carlo il Calvo lo abbia invitato, intorno all’840, alla sua corte, affidandogli il compito di insegnare arti liberali alla scuola palatina di Parigi.
Divenuto re nell’840, Carlo il Calvo esercitò un grande fascino sui letterati del suo tempo. Giovane, abile parlatore, dotato sia di urbanitas sia di dulcedo, aveva costruito in numerosi anni una corte molto più brillante, viva ed originale di quella di Carlo Magno. Moltiplicava le biblioteche e gli scriptores, che ricopiavano manoscritti italiani, inglesi e irlandesi: ispirava meravigliose miniature; leggeva i testi latini che aveva a disposizione, e possedeva una conoscenza sia pure superficiale del greco. Il libro era il cuore mobile e vibrante della sua vita. Giovanni Scoto e Carlo nutrivano, l’uno verso l’altro, sentimenti di ammirazione e di venerazione; e giocavano con il greco, il latino, le idee, le immagini, come se la cultura fosse una specie di spettacolo inesauribile.
A Parigi Giovanni Scoto conobbe dei professori provenienti da Costantinopoli, che gli insegnarono un greco quasi perfetto, in tutta la ricchezza delle sue sfumature. D’allora in poi si abbeverò a quella abbondantissima fonte: tradusse Prisciano di Lidia, Gregorio di Nissa, Massimo il Confessore e, sopratutto, il corpus di Dionigi l’Areopagita, che accreditò in Occidente. Scrisse il De praedestinatione, un commento a Dionigi, una mirabile Omelia sul prologo di Giovanni, un commento incompiuto al Vangelo di Giovanni. Prima dell’866 compose l’immenso Periphyseon, ovvero Sulle nature dell’universo.
Mentre Giovanni Scoto traduceva il Corpus di Dionigi l’Areopagita, i normanni scendevano in Francia: incendiarono e distrussero tre volte Parigi: attaccarono Nantes, sgozzarono il vescovo, arsero la cattedrale: bande di mori penetrarono a Arles e a Nîmes: altre flotte normanne assediavano Bordeaux; risalirono la Senna, la Loira, raggiunsero Tours, Orléans, Amiens, devastando case, chiese, palazzi reali, abbazie. Dopo qualche anno di pausa, le navi normanne riportarono dovunque desolazione e distruzione: tornò a diffondersi un’atmosfera da fine del mondo. Ma Giovanni Scoto non desisteva: lui doveva indagare le vere nature dell’universo, i principii, le entità angeliche, le teofanie; non i casuali disastri, che la follia degli uomini produce sulla superficie del mondo.
Tornato alla luce dopo un lungo periodo di silenzio e di incomprensione, Sulle nature dell’universo è, per un lettore moderno, il libro filosofico più affascinante del Medioevo. La Summa di san Tommaso pretende di insegnarci una verità stabile e immobile: Sulle nature dell’universo commenta ogni idea, immagine, sensazione, intuizione, discese dai testi della filosofia greca e latina; e non fa che inseguire ipotesi che si sciolgono e si dissolvono in altre ipotesi e congetture, culminando in una sovracongettura, che appartiene, come diceva Borges, al genere della letteratura fantastica. Scoto corteggia qualsiasi suggestione culturale, ma non è vincolato a nessuna di esse. Non è platonico, né aristotelico, né stoico, né agostiniano, né tantomeno panteista. Mentre insegue i segreti dell’universo e di Dio, gioca, ironizza, dissemina false citazioni: il maestro del dialogo deride l’alunno, l’alunno deride il maestro; e non sappiamo mai chi dei due abbia veramente ragione. Scoto analizza ogni possibile complessità logica: glossa le categorie: nessuno sembra più minuzioso e razionale di lui; e alla fine prorompe in grandi sintesi mistiche su Dio e la natura originaria dell’universo.
Il quarto libro di Sulle nature dell’universo commenta i primi capitoli della Genesi, testo difficilissimo, commentando contemporaneamente gli scritti dei Padri della Chiesa, da Gregorio di Nissa ad Agostino: Giovanni Scoto sa di appartenere alla grande tradizione cristiana, la quale dà interpretazioni molteplici e contradditorie degli stessi versetti biblici. Egli li analizza «con assiduo e faticoso studio», e torna a scrutarli e ad analizzarli. Una moltitudine di questioni diverse lo attornia da ogni parte, sgorgando da una fonte inesauribile: «Simili alla figura immaginaria dell’idra erculea, alla quale crescono tante teste quante ne vengono tagliate, in modo tale che per una che è stata amputata cento pullulano». Tutto è oscuro davanti a lui: Giovanni Scoto si entusiasma per la grandezza del suo compito; e per la ricchezza del libro che esce, quasi miracolosamente, dalle sue mani. Non ignora che la sua impresa sarebbe disperata, se non fosse soccorsa, passo dopo passo, versetto dopo versetto, dal suggerimento aperto e misterioso di Dio.
Giovanni Scoto pensa che sia esistita una doppia creazione dell’uomo, indicata da due versetti della Genesi: «Dio fece l’uomo, a immagine di Dio lo fece», e «Maschio e femmina li fece». Nella prima creazione, avvenuta prima del peccato, l’uomo era composto di due nature, una invisibile secondo l’anima, una visibile secondo il corpo: questo corpo era spirituale, incorruttibile, eterno, semplice, simile o identico a quello che avremo dopo la resurrezione; lo possediamo anche oggi, ed è l’unico corpo vero e sostanziale. Non abbiamo altri corpi: il resto non è altro che vano, inesistente movimento; veste mutevole e corruttibile del corpo vero e secondo natura, che da principio fu stabilito nell’uomo. In questo primo uomo, fatto ad immagine di Dio, Dio si aggira segretamente e spiritualmente, scrutando e interrogando il corpo, il cuore e la ragione di ognuno. Adamo non aveva bisogno di sensi corporei: utilizzava soltanto l’intelligenza: non aveva passioni; e conosceva Dio senza ricorrere alla ragione.
La seconda creazione avvenne dopo il peccato di Adamo. Soltanto in essa, contravvenendo al testo della Genesi, Giovanni Scoto afferma che ebbe luogo la distinzione tra i due sessi, segno di degradazione, simile alla condizione bestiale. Se nella prima creazione l’uomo era similissimo a un angelo, nella seconda creazione egli perse la propria natura angelica e diventò un animale. Nella prima creazione si moltiplicava nel modo misterioso con cui si moltiplicano gli angeli: nella seconda creazione, invece, si moltiplicava secondo l’unione sessuale. Giovanni Scoto condanna ed esecra sia la divisione tra i sessi sia l’unione tra maschio e femmina. Di nuovo disobbedisce alla Bibbia, poiché vede in entrambe il segno del peccato di Adamo.
Giovanni Scoto studia a lungo i due alberi dell’Eden: l’albero della vita e l’albero della conoscenza del bene e del male. L’albero della vita, ovvero l’albero-tutto, è già il verbo e la sapienza di Gesù Cristo, piantati nel centro del paradiso della natura umana. Esso è la bontà sostanziale, e la semplicità metafisica. Il suo frutto è la vita eterna, e dà gioia ineffabile. Il suo aspetto è la bellezza. Dio ordinò all’uomo di cibarsi dei suoi frutti, ma l’uomo peccò, preferendogli il frutto dell’albero della scienza del bene e del male. Questo...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sogni antichi e moderni
  4. Parte prima. IN CIELO E IN TERRA
  5. Parte seconda. VISIONI DI DIO
  6. Parte terza. LO SPETTACOLO DEL MONDO
  7. Parte quarta. IMMAGINI DELLA MORTE
  8. Parte quinta. VERSO NIETZSCHE
  9. Parte sesta. IL PASSEGGERO CLANDESTINO
  10. Copyright