Vi dirò subito la cosa più grave: sono un finto prete.
È successo quella volta che vagavo per la valle di Gressoney triste e depresso. Mi ero incamminato da solo per il sentiero che porta alle sorgenti del Lys, tre ore di cammino partendo da Staffal. Avevo lasciato l’auto parcheggiata sulle strisce pedonali del largo piazzale antistante la stazione delle funivie, anche se era praticamente deserto. Avevo solo 36 anni, eppure ero certo che non sarei più tornato indietro, che quell’auto non mi sarebbe più appartenuta. Avevo voglia di scomparire, in una parola: speravo di morire. Non mi spaventava la morte, mi atterriva la paura che nessuno, in nessuna parte dell’universo, mi stesse aspettando.
Abbandonai la strada asfaltata e m’incamminai su per il sentiero stretto fra i prati. Erano i primi giorni d’estate e la luce vivace mi costringeva a socchiudere gli occhi, perché non avevo con me occhiali da sole: che se ne fa degli occhiali da sole uno che vuole morire? E nemmeno panini al prosciutto e formaggio, o cioccolato alle nocciole: che servono a un aspirante morituro? Avevo lasciato lo zaino in auto, con dentro la macchina fotografica e l’iPad, e con me non avevo neanche l’acqua, ero carico solo di stordimento e di amara tristezza.
Questi erano i pensieri che mi tenevano compagnia durante la salita. Ma chi ce l’ha data questa capacità, questa attitudine, questa specializzazione del pensare? Questo pensiero, che riteniamo il più alto, di chiederci il perché di tutto questo, di tutta questa vita, della vita?
Ce la tiriamo così tanto perché un giorno siamo arrivati a domandarci: «Perché la vita e non il nulla?», ma siamo anche orgogliosi di qualcosa di più basso, di più abbordabile, tipo: chi ci ha dato la capacità di sentire il profumo del limone? Noi stessi, noi esseri umani? Chi ha pensato per noi quella fulminea decisione neuronale, quelle infinite sequenze di impulsi elettrici e contrazioni fini della muscolatura che consentono al giocatore più scarso del pianeta Terra di rispondere con un rovescio incrociato a un servizio slice su un campo da tennis? Chi permette tutto questo?
Quanto tempo ci sarà voluto per ideare, progettare, disegnare, comparare, scegliere materiali, valutarne la fattibilità, sperimentare, e poi finalmente creare l’apparato digerente? Perché, Dio, hai creato la vita? Perché hai suscitato in me il tuo soffio vitale? Che esigenza avevi? Nella tua immensa e infinita potenza, cosa ti è mancato? Un capriccio, oppure un dono meraviglioso? Suscitando la vita con la libertà che ci hai accordato, hai creato la possibilità del dolore immenso e terribile: lo spavento metafisico, la sorpresa che sgomenta e atterrisce.
Nessuno lo aveva chiesto, eppure Tu lo hai dato.
Mi chiedo se questo dolore e sgomento verso la vita ha un lieto fine, una risposta.
Forse Tu lo hai previsto e, in quel caso, posso immaginare che Tu abbia preparato un mondo dorato, il Paradiso, a chi risolve l’enigma, a chi ti incontra. Ma chi non riuscisse a risolvere l’enigma? Rimarrebbe per tutta la vita dentro al dolore cieco e soverchiante? Perché? Perché la vita, se non c’è un lieto fine? Perché una vita nel dolore? Siamo troppo deboli e fragili per affrontare questo enigma.
E se uno solo ce la fa, cosa succede a tutti gli altri?
Dopo due ore di cammino mi stesi sull’erba. Lì iniziava una salita verso una cresta che secoli addietro era stata la sommità del versante del ghiacciaio, ora ritiratosi. Ancora un’ora di cammino e sarei arrivato a 200 metri dal ghiacciaio. Ero svuotato di forze, l’indice glicemico mi si era abbassato pericolosamente, i recettori dei miei muscoli sentivano la nostalgia del potassio e del magnesio, e da un momento all’altro i crampi mi avrebbero divorato come un branco di lupi.
Un crescendo di voci attirò la mia attenzione, alzai la testa e dalla stretta fessura dei miei occhi vidi delle persone che si agitavano sulla cresta a una trentina di metri da me.
Era un gruppo di anziani escursionisti, vecchie coppie di amici, con scarponi, bastoni, zaini in spalla e cappellini in testa.
«Franco! Franco!» Una donna ora stava urlando, inginocchiata accanto a un uomo riverso a terra sulla schiena. Lo zaino stracolmo di cibo gli inarcava innaturalmente il corpo evidenziando la pancia prominente, mentre la testa gli cadeva penzoloni all’indietro.
Gli amici di cordata si affannavano confusamente intorno al caduto, senza sapere cosa fare; tre donne stavano in piedi, sgomente, con le mani sulla bocca o sul viso.
Poi uno degli uomini inginocchiati a terra si voltò di scatto e ordinò alle donne: «Chiamate l’elicottero».
Le donne cercarono di telefonare, ma un altro uomo si tirò su di scatto borbottando: «Lasciate perdere, qui ci vuole un prete».
La donna che aveva urlato «Franco!» si accasciò sopra la pancia, la abbracciò come un cuscino e si mise a singhiozzare disperatamente.
Mi alzai, ricomposi la mia camicia a scacchi, camminai verso quella pancia e, quando arrivai a due metri dalla donna disperata, dissi sicuro: «Io sono un prete».
Ebbi la sensazione di essermi salvato e di essermi dannato contemporaneamente.
Mi inginocchiai e guardai quella pancia che non si muoveva più, feci il segno della croce e tutti, tranne la moglie che continuava a singhiozzare, ripeterono il mio gesto. Restai in silenzio circa un minuto e poi recitai il Padre nostro, quasi sussurrandolo, per far intendere che conoscevo la procedura, mentre invece ero smarrito, atterrito, sottomesso alla bugia che avevo appena agito.
Mi ricordai dell’Eterno riposo, che mia nonna recitava sempre alla fine del rosario, e lo intonai ad alta voce:
L’eterno riposo
dona loro, o Signore,
e splenda a essi la luce perpetua.
Riposino in pace.
Amen.
Con il pollice feci il segno della croce sopra la fronte del mio primo parrocchiano defunto.
Mentre mi levavo in piedi sentii che dovevo far sapere a quale parrocchia appartenevo, e soprattutto che non potevo dividerla con nessun altro sacerdote.
«Sono il parroco della piccola comunità di Sant’Anna, la chiesetta che sta sulla sinistra alla stazione d’arrivo della funivia che parte da Staffal. I miei parrocchiani sono sparsi nelle diverse baite e sono al massimo qualche decina, ma il nostro vescovo» (rabbrividii, perché non sapevo se era quello di Ivrea o di Aosta, non essendo per nulla esperto di giurisdizioni episcopali) «ha pensato di inviarmi quassù per servire le centinaia di turisti che si spingono fin qui per sciare, i quali partendo all’alba dalle loro città e rientrando la sera tardi rischierebbero di perdersi la Santa Messa, mentre nella chiesetta di Sant’Anna una funzione al mattino, alle 9, e una al pomeriggio, alle 17, assicurano ai fedeli una domenica di svago e di comunione con il Signore. E siccome anche d’estate questi posti sono mete di numerose comitive e famiglie, quale miglior luogo di raccoglimento di quella piccola chiesa per i fedeli o i semplici passanti che vogliano soffermarsi a pregare in silenzio?»
Gli amici del defunto chiamarono il soccorso alpino, e dopo circa un’ora la salma, sistemata dentro una barella, fu portata a braccia a fondovalle.
Io mi ero dileguato prima che arrivassero i soccorsi. La discesa verso Sant’Anna la feci praticamente di corsa. Conoscevo quella chiesetta perché innumerevoli volte vi ero transitato davanti durante le mie escursioni verso il Monte Rosa. Era chiusa alle funzioni da almeno quarant’anni – nessuno sapeva esattamente il perché – ed era sistemata sotto il pendio che portava alla cima Pinter. A dieci metri c’era una baita con un cascinale, entrambi piuttosto malconci.
Arrivai davanti alla chiesa che non riuscivo a respirare. Ormai erano le 5 del pomeriggio, l’impianto per la discesa era chiuso, nessun turista in giro. Andai verso la porta di legno, vi appoggiai la mano e una delle ante si socchiuse. Era un segno: avevo una chiesa dove potevo celebrare i sacramenti.
Passai la notte lì dentro. Mi stesi su una panca e, per ripararmi dal freddo, usai il tappeto che era stato messo sopra l’altare, eppure tremai quasi tutta la notte per l’enormità della menzogna che avevo recitato e per la certezza di non potermi più fermare. Cercai di scacciare il terrore provocato dal senso di colpa pensando a cose pratiche: come procurarmi un abito, e cosa dire al parroco di Saint-Jean, che in teoria era il titolare delle anime di quei luoghi.
Ero preoccupato, mi sentivo un fuorilegge, eppure desideravo che venisse mattina, e lei arrivò abbastanza in fretta, fredda e luminosa come molte mattine in montagna. Dietro l’altare c’era una minuscola sacrestia, con un tavolino nel mezzo e un armadio alla parete sinistra, e dentro tre abiti con i paramenti per le funzioni e una tonaca impolverata e sgualcita. Ebbro come un pazzo e felice come un bambino a cui hanno appena regalato un costume da clone di Star Wars, presi l’abito nero e corsi fuori. Sapevo che c’era un torrente che scendeva dal versante sinistro della montagna, mi precipitai e lo immersi nell’acqua gelida, divenne pesante, così intriso d’acqua e di desideri. Lo strizzai con tutta la forza che avevo nelle mani e lo distesi sul muretto antistante la chiesetta: il sole si stava alzando proprio in quel momento e il suo calore lo avrebbe asciugato nel giro di qualche ora.
Scesi al piazzale, dove la mia auto era l’unica parcheggiata, presi lo zaino dal baule e risalii verso la mia nuova casa.
I primi turisti comparvero verso le 9.30. Erano una coppia sui 70 anni, lei aveva un cappellino con il simbolo dei New York Giants. Si affacciarono alla porta completamente spalancata e mi videro che scopavo per terra.
«Ci sarà prossimamente qualche funzione?» domandò lui.
«Stiamo riaprendo la chiesa, sono il nuovo parroco.»
Si guardarono con un misto di contentezza e incredulità: era da quarant’anni che tutte le estati venivano a fare una passeggiata da quelle parti, ma la chiesa era sempre stata chiusa, al massimo si poteva sbirciare dalla piccola finestra.
«Ma allora celebrerà la Messa. Quando?»
Mi voltai e continuai a scopare per terra, atterrito: dovevo procurarmi un messale, imparare i passaggi della liturgia, le letture del giorno.
«Penso che… inaugureremo la chiesa fra… due settimane!»
«Ma bene! Coincide con l’ultima domenica della nostra vacanza. Verremo di sicuro.»
Li guardai e sorrisi, ma intanto dentro di me era scoppiata una guerra civile tra il mio (labile) senso morale e la mia (gigantesca) irresponsabilità.
La coppia di anziani mi salutò e lei, curiosa, aggiunse: «Lei è… don…?».
«Don Antonio… don Antonio Martignoni.»
Per tutto il giorno gruppi di turisti e alpinisti vennero a curiosare e molti ripeterono le stesse domande. Una donna mi chiese se potevo confessarla, io le risposi che quel giorno non potevo, lei mi disse che sarebbe tornata l’indomani, allora le diedi appuntamento alle 9 di mattina, nella speranza che l’orario fosse troppo scomodo per lei, tenendo conto che per arrivare fin lì avrebbe dovuto fare un viaggio in auto e poi salire con la funivia.
L’indomani la signora Luciana, anni 64, sposata con un operaio tessile in pensione e madre di tre figli rispettivamente di anni 37, 35 e 28, si presentò in chiesa alle 9 in punto. Io indossavo l’abito nero, le dissi che non c’era un confessionale e che il luogo migliore era la minuscola sacrestia, dove ci sedemmo uno di fronte all’altra con il tavolino nel mezzo.
Avevo passato la notte a studiare il RITO PER LA RICONCILIAZIONE DEI SINGOLI PENITENTI, che avevo scovato su Wikipedia grazie al mio iPad.
Raccolsi il consiglio indicato nell’introduzione e cercai di accogliere la penitente «con bontà e con parole affabili».
Guardai la signora Luciana negli occhi e le dissi: «Ora facciamo il segno della croce», poi, ricordandomi le indicazioni di Wikipedia, la invitai ad avere fiducia in Dio, recitando a memoria questa formula fra le sei possibili: «Il Signore, che illumina con la fede i nostri cuori, ti dia una vera conoscenza dei tuoi peccati e della sua misericordia».
Poi stetti zitto, e la signora Luciana comprese, anche grazie all’esperienza di confessioni passate, che era il momento di rivelarmi i suoi peccati.
«Io amo mio marito Alfredo, ma non riesco a togliermi dalla testa quel maiale di Mario… Mario è il signore che sistema le merci sugli scaffali dell’Esselunga…» Fece una pausa, poi riprese tutto d’un fiato: «Vado al supermercato tutti i giorni, anche tre volte al giorno, fingo di essermi dimenticata il prosciutto o il latte. Ho comprato di tutto, perfino la sabbia per i gatti, anche se non ho gatti, la polvere di cumino e la birra analcolica. Giro per gli scaffali e, quando gli passo vicino, lui mi dice delle cose che a un altro gli spaccherei la testa, ma a lui gliele lascio dire, cose che mi fanno arrossire, però poi la notte ci penso».
Ci fu una pausa mentre la signora si torceva le mani e sembrava lì lì per scoppiare a piangere. Io, incautamente, cercai di portarla verso la conclusione vera, la confessione integrale.
«Si sta torturando perché è stata con lui?»
«Ma come si permette?! Non ci penso minimamente» reagì bellicosamente la signora. «È solo che ci penso, e sta lì nella mia testa, nelle mie notti, ma non so se faccio un torto a mio marito. Anzi, sì che gli faccio un torto. Ecco, questo è il mio peccato che non riesco a eliminare.»
Non mi ricordavo cosa avrei dovuto fare – sempre secondo le indicazioni del rito –, perciò rimasi in silenzio con le mani ...