Fammi una domanda di riserva
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Fammi una domanda di riserva

Paolo Conte in parole sue raccolte da Massimo Cotto

  1. 180 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Fammi una domanda di riserva

Paolo Conte in parole sue raccolte da Massimo Cotto

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Informazioni sul libro

Paolo Conte non ha mai amato definirsi né raccontarsi o addirittura capirsi. Ripete sempre che uno dei privilegi dell'artista è quello di continuare a cercare (e di conseguenza cercarsi) sperando di non arrivare mai a un traguardo definitivo, perché allora non avrebbe più senso cercare. Ecco perché non ha mai voluto scrivere la sua autobiografia ufficiale. Paolo Conte lascia intravedere spiccioli di se stesso solo nelle banconote delle sue canzoni, nei testi che trasudano voglia d'altrove, pudore, umorismo, bellezza, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia, nelle rare e preziose interviste o nelle cene frugali con pochi commensali, dove regala visioni impagabili e scampoli di tempo perduto.

Questo libro, scritto da Massimo Cotto che è nato e vive nella stessa Asti dell'Avvocato, in fondo alla campagna, con il sole in faccia rare volte e il resto è pioggia che ci bagna, raduna anni di frasi e dichiarazioni, di fulminanti battute e argute riflessioni del cantautore, smontate e rimontate come una poesia dadaista e di essenza contiana. Quello che emerge è lo stupendo affresco di un artista unico nel suo genere, adorato dai colleghi e amato dalla gente dentro e fuori i patri confini. Un giorno "Le Figaro" scrisse: "Che cos'altro si può dire di Paolo Conte?". Forse niente, tutto è già stato cantato e macinato. Però si può mettere in un cappello tutte le sue frasi e poi estrarle a una a una in disordine sparso. Oppure rovesciarsi il contenuto sulla testa in un meraviglioso, fantasmagorico, unico spettacolo d'arte varia.

Massimo Cotto, nato ad Asti sotto il segno del Toro (inteso anche in senso calcistico), è giornalista professionista (ha diretto "Rockstar" e lavorato per i quotidiani nazionali e le principali riviste italiane, americane e tedesche), conduttore radiofonico (vent'anni in Rai, poi Radio 24, Capital e oggi Virgin Radio, dove conduce "Rock Bazar"), autore televisivo (Sanremo, Castrocaro, "Rock Cafè", "The Voice"...) e per il teatro (tra i tanti spettacoli, Chelsea Hotel e Da quando a ora in scena, scritto con Giorgio Faletti). Questo è il suo 65° libro (38° come autore). Per Mondadori ha scritto Perfetto difettoso (con Piero Pelù), Bla bla bla... (con Patty Pravo), Diario di una cattiva ragazza (con Irene Grandi), Nomadi. Augusto & altre storie (con Beppe Carletti) e Ma il cielo è sempre più blu (i diari inediti di Rino Gaetano).

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Informazioni

Introduzione

Persino i baffi sembravano in smoking

La prima volta c’era il merluzzo. Anzi, no, il merluzzo arrivò dopo. La prima volta fu da lui, nel suo studio di corso Dante, nella Asti di una volta. Io poco più che ragazzino, lui non ancora incoronato da Parigi, seduti a un tavolo, con la luce che da fuori entrava in diagonale e si perdeva tra i grandi vasi e le bellissime piante, e io che ogni tanto mi illudevo di vedere per davvero l’oleandro e il baobab, nascosti in una canzone e già consegnati all’immaginario di ognuno. Era il gennaio del 1985, pochi giorni dopo il suo compleanno e pochi mesi dopo “Paolo Conte”, l’album che conteneva Sotto le stelle del jazz, uno dei brani più intensi della produzione contiana, quello che gli avrebbe dato fama internazionale.
Lui era elegante come una milonga, persino i baffi sembravano in smoking. Mi parlò a lungo di jazz e di Americhe, di boxe e di Tricky Sam. Ogni tanto si faceva portare un caffè, nel quale riversava una quantità tale di zucchero da far impallidire una Sacher e poi mescolava, fino a trasformare il caffè in una specie di poltiglia che lui sembrava gradire molto. Mi proiettò negli occhi l’immagine di Duke Ellington, “grande boxeur tutto ventagli e silenzi” che si aggirava nei camerini con enormi vestaglie da pugile, e prima di congedarmi mi raccontò di certe sere di primavera in cui ad Asti arrivava il vento marinaio, e lo sentivi, te ne accorgevi, anche senza essere in grado di spiegarlo. E io pensai subito alle vie parigine attorno a Place de la Bastille, dove, in certe sere d’estate, sentivi il profumo di pesce provenire dai banconi esterni delle trattorie e ti pareva quasi che da un momento all’altro potesse arrivare una corrente d’aria da porto di mare. Ci sono evidentemente luoghi dove Asti confina con Savona e Parigi è anche un po’ Genova. E ci sono artisti che hanno il potere di portarti ogni volta in un altro luogo, anche parlando poco, perché il Conte ha nobiltà di pensiero ma le parole le pesa una a una e non ne fa regalo spesso; anche sul palco, con mio grande dispiacere, ha eliminato le deliziose clownerie di un tempo e non dice mai nemmeno una parola, neanche per salutare alla fine, se ne va limitandosi a fare ciao con la testa o mandando un bacio al pubblico adorante.
Quella fu la prima volta.
Poi, arrivò il merluzzo. Sempre grazie alle intercessioni di Egle, bellezza che sarebbe potuta nascere in Brasile e che conosceva bene mio padre, Paolo mi faceva talvolta il dono di una cena fuori. Sceglieva sempre un ristorantino ai bordi della città, per grandi abbuffate di merluzzo. Io gli chiedevo di parlare, senza domande. E lui parlava, perché ancora lo faceva. Lui parlava e io mi abbeveravo. Senza mai trovare il coraggio, mai, di dirgli che odiavo il merluzzo.
Piccoli sacrifici per avere il conforto della presenza di un artista che è genio assoluto, perché un Paolo Conte nasce ogni cent’anni e bisogna anche avere il culo di esserci quando c’è lui. Uno di quelli che preferisce togliersi invece di mostrarsi. Paolo è profeta della sottrazione, un mago introverso che nasconde il cilindro e persino le carte. Con i pochi giornalisti amici esiste un patto chiarissimo anche se non scritto: lui racconta quel poco di sé e della sua musica che l’occasione comporta e noi ci impegniamo a non raccontare troppo di dove vive, come vive. Chi è nato, come chi scrive, nella sua stessa città, in fondo alla campagna, sa che l’atteggiamento di Paolo Conte non è vezzo, presunzione né trillo d’artista. Il piemontese di campagna vero è timido e riservato, con pudore dei propri sentimenti anche quando apparentemente estroverso. Siamo razza strana, difficile da decifrare anche quando tutto sembra chiaro e definito. Ciascuno di noi, come diceva Mark Twain (che piemontese non era, ma vai a capirle, le coincidenze della vita), è una luna, e ha una faccia che non mostra mai al pubblico. Paolo Conte lascia intravedere spiccioli di se stesso solo nelle banconote delle sue canzoni, nei titoli della sua arte, nelle fughe e negli odori, nelle parole e nella carità di un’altra rumba.
Il resto, il suo lato oscuro della luna, è racchiuso tra i silenzi di Asti e l’immobilità della campagna tra Scurzolengo e Portacomaro, ovvero la residenza e il rifugio, il porto e l’approdo. Lì, alla fine di una strada che sembra condurre nel nulla e invece sfocia in una casa, si avvertono solo il rumore avaro del vento, i colori cangianti delle vigne, i sapori aspri della campagna. E c’è tempo, c’è più tempo per Egle e per il cane, per le canzoni e i libri, la “Settimana Enigmistica” e i cavalli da dipingere. E per sognare Josephine Baker e “la sua bellezza negra”.
Per questo libro che è omaggio al Conte della canzone, ho prima allineato i ricordi e poi mescolato le parole. È vero che quello che abbiamo vissuto si attacca alle nostre esistenze e non si stacca mai del tutto, quindi fa parte di noi anche senza riportarlo ogni volta alla luce, però è anche vero che, a volte, essere costretti a ricordare è esercizio tutt’altro che sterile. È come aprire un vecchio album di figurine dei calciatori e sentire di nuovo l’odore della carta e della coccoina.
Così, con l’aiuto degli appunti e delle registrazioni, dei vecchi articoli e delle foto, ho provato ad attaccare una dopo l’altra le figurine dei miei incontri con Paolo Conte.
Partendo da Parigi, si capisce. Dalle molte volte a Parigi, al Theatre de la Ville e nel tempio dell’Olympia, dove quando arriva un artista gli chiedono se preferisce il camerino che fu di Brel o quello che sceglieva sempre la Piaf. Ho visto cartelli issati davanti ai teatri che dicevano: “Acquistiamo biglietti anche a prezzi irragionevoli” e ho vissuto il metateatro delle gocce cadere quando il Conte cantava che “tutto intorno era pioggia e Francia”; ho visto la Paris piena di nuvole che ridevano come barzellette e vissuto la stessa scena descritta in Madeleine: la strada che inghiotte subito gli amanti, mentre per piazze e ponti la gente si affanna, e se vuoi, li puoi vedere laggiù, danzanti, che più che gente sembrano foulard.
Figurine pentavalide e bisvalide, anche se, nel mantra del “célo-manca”, ancora rimpiango, nel giugno del 1986, di non aver preso con Marinella Venegoni de “La Stampa”, l’Orient Express, quello originale, rimesso sui binari dopo mezzo secolo di polvere, quando, tra Parigi e Venezia, chiesero a Paolo Conte di sedersi al pianoforte a coda, e lui, tra i velluti e un kazoo, accordò la propria voce allo sferragliare delle vetture e fece qualcosa di così bello e puro che nemmeno le luci di Place des Vosges e il vento forte lungo la Senna possono competere.
Altre figurine: le presentazioni alla stampa di ogni suo album: memorabile quella di Milano, il 26 ottobre del 1992, quando, nel profumo di santità delle portate di Gualtiero Marchesi, si alzò il litigio profano e rumoroso tra Renzo Fantini, indimenticato manager di Conte, e un mio stimato collega, furibondo per l’anteprima di “900” concessa al TG1 di Vincenzo Mollica. Mentre i due duellavano a colpi di ferocia, Paolo mangiava serafico e il suo baffo sembrava ancora più baffo del solito. Egle mi guardava atterrita e ogni tanto sussurrava: “Ti prego, fai qualcosa...”; ogni volta che lo diceva, Paolo subito aggiungeva: “Ancora un po’ di vino?”. No, il Conte non ama attaccare e nemmeno rispondere. Al massimo si concede una smorfia più accentuata.
I concerti, gli incontri, le cene a Roma, Torino, Bologna, Asti, Rocchetta Tanaro, Cioccaro di Penango, Napoli, Amsterdam. E poi ancora Caux, in Svizzera, sulla strada per Glion, nella bellissima villa di Claude Nobs, gran maestro del festival jazz di Montreux, tra immani grammofoni Wurlitzer e opere d’arte che avrebbero destato invidia a un museo; e lui, il Conte, impeccabile nelle nuance degli abiti, irresistibile nel giocare a parlare senza far troppo vedere che avrebbe voluto dire a se stesso: via, via, vieni via con me...
A Sanremo, nel 1986, dopo il più spettacolare Premio Tenco della storia (quello con Tom Waits, John Lurie e Roberto Benigni), ricordo che andammo a piedi, ben oltre la mezzanotte, dall’hotel al ristorante, dall’altra parte della città, e per tutto il tragitto finse di non capire le mie domande su di lui e rispose parlando di Frank Capra.
A Londra, nel 1993, dopo aver incantato gli inglesi accorsi alla Royal Festival Hall, fece ridere tutti raccontando, a cena, la storiella di quelli di San Damiano d’Asti, che volevano creare un campo da tennis in tutto e per tutto uguale a quello di Wimbledon. Così, si diedero da fare con l’erba, ma pur seminando e tagliando secondo le leggi della natura, il prato cresceva sempre pieno di erbacce. Allora, quelli di San Damiano decisero di rivolgersi a quelli di Wimbledon, i quali, gentilmente, confezionarono la risposta: “Volete sapere come si fa a far nascere un campo da tennis come quello di Wimbledon? Ma è la cosa più facile del mondo: basta tagliare e innaffiare l’erba per trecento anni”.
I giornali britannici lo avevano accolto con tutti gli onori, persino il molto sobrio “European” aveva esaltato “la voce fumosa, a tratti graffiante, tinta di ironia, intensa per emozioni represse, seduttiva”; non da meno i testi, “densi, con le atmosfere dell’anteguerra italiano”, e le musiche, “un caleidoscopio di ritmi della prima metà del secolo”. E dire che la pubblicità rischiava di diventare un boomerang, come talvolta accade a chi crea troppe aspettative: “Se Hemingway avesse cantato e Tom Waits fosse nato in Italia, sarebbero stati come Paolo Conte”. Sui manifesti affissi ai muri di Londra si leggeva: “Una voce come whisky versato attraverso la sabbia”. E noi orgogliosi di quel tipo strano, con quella faccia un po’ così.
A Londra, Conte sarebbe poi tornato più volte, al Ronnie Scott’s e al Barbican Center, ma l’emozione di quella volta alla Royal Festival Hall rimane per me insuperabile. Così come la prima volta a New York, nel leggendario Blue Note. Almeno mi dicono, perché lì non c’ero. C’ero invece al Supper Club, nel cuore di Broadway, dieci anni dopo, nel 1998, tra velluti blu e cuscini rossi. E c’ero, nel suo primo tour americano, ottobre 1999.
Quattro concerti da andar giù di testa: San Francisco, Los Angeles, New York e Boston. Io lo seguivo per registrare i concerti, che poi sarebbero andati in onda su Radiouno. Arrivai all’ultimo momento. Prima furono sorrisi e abbracci, tra noi che ci ritrovavamo lì, in America, noi che abitavamo a pochi metri di distanza, nel nostro Monferrato. Poi, felicità piena per l’ovazione interminabile degli americani innamorati del jazz. Infine, lo stupore. Invece di festeggiare nel miglior ristorante della baia, Paolo si fece portare in camerino la sua cena: minestrone, riso bollito e mela cotta. Menù molto piemontese e anche vagamente ospedaliero. Io e Renzo Fantini ci guardavamo affranti: altro che aragoste e localini sadomaso, come avevamo sognato.
Il giorno dopo, Paolo mi raccontò la sua scoperta dell’America, alla fine della guerra. Dopo favole lontane e racconti di famiglia, il primo incontro con l’America vera, nel senso di americani in Italia: incontro fisico, sensoriale, attraverso la vista, il tatto, l’olfatto. L’America che si presentava sotto forma di sigarette di un altro profumo, facce diverse dalle nostre, bottiglie di un liquore mai assaggiato, ma che aveva il gusto di castagne secche. L’America che era una maniera diversa di camminare, stature più alte. L’America che Conte avrebbe poi conosciuto meglio, molto lentamente e durante l’adolescenza, attraverso il jazz e la boxe. E grazie alle brevissime ma indelebili folgorazioni di Radio France che, in barba alle proibizioni del fascismo, scattava polaroid sonore del grande jazz. Tutte storie che troverete in questo libro, se avrete la bontà di andare avanti.
Ricordo nitidamente la mattina in cui arrivarono in stanza le recensioni. Pensai che quella era la conquista dell’America. Elliah Wald del “Boston Globe” scriveva: “Ci sono pochissimi spettacoli del calibro di quello cui ho assistito a Berklee l’altra sera, perché ricatturava la favolosa era dei grandi intrattenitori di cabaret, artisti intimisti e in tono minore, ma inspiegabilmente magici”. Sul “New York Journal”, Joseph Hooper usava toni visionari: “L’ambasciatore più perverso del jazz. Una voce che si muove tra lo scotch e le sigarette. Un ruggito che rimanda al sublime vaudeville. Un soffio rauco che ricorda il Duke Ellington del Cotton Club. Una bilancia tra il jazz americano e il tango argentino. Una lucertola da dance-hall. Un lupo di campagna che elargisce promesse per fuggire dalla provincia senza volerlo realmente. Un gigante”.
Non meno entusiastici i commenti dei giornali della West Coast. James Sullivan del “San Francisco Chronicle” premiava Conte come “unico e straordinario, capace di combinare una voce da baritono tipicamente italiana ad arrangiamenti internazionali che fanno di lui un Serge Gainsbourg più caldo e meno demoniaco”. Per Don Heckman del “Los Angeles Times”, “Paolo Conte è la voce perfetta per entrare nel nuovo millennio. Una faccia presa in prestito, che pare stanca del mondo, ma non di raccontare in quello stile a metà tra cantato e parlato. Il motore di una nuova musica vecchia come il mondo, il battito del cuore per un’esibizione rara e spettacolare”.
Ricordo il ritorno in aereo. Mi veniva da cantare: “Marisa, svegliami, abbracciami, è stato un sogno fortissimo”. E non solo perché mia mamma si chiama Marisa.
Dunque, ho messo in fila i ricordi. E le frasi di Conte, quasi tutte inedite, perché in quegli anni si parlava ore con un artista e poi si pubblicava magari due cartelle. E molte volte le cose belle uscivano a tavola o a tarda serata, quando l’articolo era già stato pubblicato. Facevano un bell’effetto, ma non era quel che volevo. Volevo eliminare la litania della domanda-risposta, anche se a volte da quel call-and-response veniva fuori una bella messa. Così mi è venuto in mente di azzardare un approccio dadaista: se avessi preso tutte le frasi in mio possesso pronunciate da Paolo Conte e poi le avessi smontate e rimontate arbitrariamente, forse ne sarebbe emersa una gigantesca poesia (o, per usare un’immagine più cara a me e a Paolo, un’abbondante vendemmia) di essenza contiana.
Così è stato.
Paolo Conte non ha mai amato definirsi né raccontarsi o addirittura capirsi. Ripete sempre che uno dei privilegi dell’artista è quello di continuare a cercare (e di conseguenza cercarsi) sperando di non arrivare mai a un traguardo definitivo, perché allora non avrebbe più senso cercare. Ecco perché non ha mai voluto scrivere un’autobiografia. E allora, meglio radunare anni di frasi e dichiarazioni, fulminanti battute e profonde riflessioni e poi mescolare tutto con voglia d’altrove, pudore, umorismo, bellezza, strade che sono polvere di palcoscenico, tempo che passa anche sotto ai sofà, il rumore che fa il cellophane e un gelato al limon. Poi far servire freddo da un macaco senza storia con l’accompagnamento di un sandwich e di un po’ d’indecenza e una musica turca anche lei. Metti forte che riempia la stanza.
Quello che credo emerga alla fine è un gigantesco affresco di un artista unico nel suo genere, adorato dai colleghi e amato dalla gente, che ognuno può interpretare come vuole, perché in fondo è bello così.
Io illumino solo alcuni particolari, che normalmente vengono smarriti nell’analisi logica contiana.
Il primo è legato a Genova per noi.
Conte ha descritto Genova dalla prospettiva di chi sta in fondo alla campagna e ha il sole in piazza rare volte, il resto è pioggia che ci bagna. E che sogna il mare. Quello di Genova, che non è solo porto ma anche porta che apre all’esotismo salgariano, alla voglia d’altrove. All’avventura, che porta in dono fantasie ma anche pericoli, ecco perché “ma che paura che ci fa quel mare che si muove anche di notte e non sta fermo mai”. In Genova per noi Conte racconta il punto di vista delle tante generazioni di piemontesi costrette dai pochi denari a viaggiare stando sedute ai tavolini di un bar, nell’immobilità delle colline contrapposta al movimento dell’acqua. E tutto è poesia: i gamberoni rossi sono un sogno e il sole è un lampo giallo al parabrise. E Genova è lini e vecchie lavande nell’ombra dei loro armadi. E Genova è Macaia, scimmia di luce e di follia, foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia. E tutto ha segno positivo, anche la nausea, che è solo mal di mare, il minimo sindacale della sofferenza per arrivare al traguardo di una nuova isola.
Ma questo già lo sapete, se siete contiani di ferro. Forse non tutti sanno che (per citare una famosa rubrica della “Settimana Enigmistica” tanto cara a Paolo) a questa canzone è legato un fraintendimento, quando Paolo Conte canta: “Lasciaci tornare ai nostri temporali, Genova ai giorni tutti uguali”. I genovesi si sono un po’ risentiti perché hanno pensato che dicesse: “Genova ha i giorni tutti uguali” e invece no: la preghiera di Conte è di chi sa che Genova è un bel gioco che dura poco, un sogno da cui ci si deve svegliare. E quindi dice: “Lasciaci tornare ai nostri temporali. Lasciaci tornare ai nostri giorni tutti uguali, quelli di chi vive...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Fammi una domanda di riserva
  4. Introduzione. Persino i baffi sembravano in smoking
  5. Sulla Topolino amaranto
  6. I foulard danzanti di Parigi
  7. Quelle stelle del jazz
  8. L’uomo del Mocambo
  9. La bellezza negra
  10. Lampi gialli al parabrise
  11. Giornata al mare
  12. Le zeta mi sono sempre piaciute
  13. Cambiare il sangue alle città
  14. Fede, speranza e carità di un’altra rumba
  15. Inseguo fantasmi
  16. Con quella faccia in prestito
  17. La differenza è nel naso
  18. Col favore delle tenebre
  19. Trattori e perline colorate
  20. Greta Garbo e la lepre al civet
  21. Il Novecento correva
  22. Il Maestro, l’anima e la maiuscola
  23. Troppo spazio
  24. Non mi dispiace contraddirmi
  25. Queste son emozioni di contrabbando
  26. L’esotismo è un malinteso
  27. Ero vestito di velluto marron
  28. Nascosti tra due camion
  29. “Azzurro” e mia madre
  30. Magari domani cambia tutto
  31. Gelato al limon, ma anche mirtillo e mela
  32. Il futuro non è una spiaggia deserta
  33. Lo chiamavano Shangai
  34. La musica mi rimbomba dentro. Che stress
  35. Entra, Egle, e fatti un bagno caldo
  36. Atahualpa e qualche altro Dio
  37. Alle prese con verdi milonghe
  38. La catena del Diavolo Rosso
  39. Ratafià
  40. Equilibrista
  41. Il Mingo, il kazoo e i ragazzi-scimmia del jazz
  42. Nota dell’autore
  43. Crediti delle canzoni
  44. Copyright