Il monello, il guru, l'alchimista e altre storie di musicisti
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Il monello, il guru, l'alchimista e altre storie di musicisti

  1. 132 pagine
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Il monello, il guru, l'alchimista e altre storie di musicisti

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«I monumenti, una volta eretti, non si sviluppano più, né in altezza, né in larghezza. Possono sono crollare.» Con l'intelligente ironia a cui siamo ormai abituati, nel suo nuovo libro Stefano Bollani traccia un personale catalogo dei grandi della musica, però non li affronta come «monumenti» intoccabili, ma li racconta da vicino. Ne viene fuori una ricca e umanissima galleria di personaggi, da Louis Armstrong a Gorni Kramer, da Renato Carosone a Francis Poulenc, da Nino Rota a Frank Zappa, e poi Elis Regina, Maurice Ravel, Billie Holiday, George Gershwin, Henry Purcell, João Gilberto, Erik Satie, Astor Piazzolla, passando per figure nascoste ma non meno importanti, come Nadia Boulanger, Wanda Landowska, Belinda Fate. Storie, aneddoti, curiosità e appassionati sguardi da intenditore, dietro i quali Bollani lascia intravedere uno spirito che vaga e unisce queste anime artistiche in un'unica grande tribù, quella degli uomini che inseguono la libertà. Dopo Parliamo di musica, Stefano Bollani con Il monello, il guru, l'alchimista e altre storie di musicisti torna a raccontarci il mondo «caldo e gioioso» del quale è oggi uno dei grandi protagonisti. Una passeggiata alla riscoperta delle proprie passioni «dove la musica fa sognare una via di fuga, uno svincolo insperato. Ma a patto di poterci giocare».

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852070075
1

Il ceramista

Mai credere a Stravinskij! Ravel non era svizzero, né tantomeno un orologiaio. È che il caro, vecchio Igor’ dava giudizi un pochino pungenti. Tanto per fare un esempio, quando in un’altra occasione gli chiesero un parere sul suo collega francese, sentenziò: «Era tre o quattro dita più basso di me». Capito il tipo?
Effettivamente, Ravel era basso. Era un francese piccolo, magro, elegante e dallo sguardo un po’ distaccato. Svizzero era il padre, ingegnere meccanico. La madre, invece, era spagnola, e da lei Maurice ereditò la passione per le melodie iberiche. Dunque non è un caso che il Boléro, in origine, avesse un titolo ben più spagnoleggiante: Fandango.
Ravel nacque nel 1875 a Ciboure, un paesino di mare sulla costa francese, quasi al confine con la Spagna basca. Crebbe a Parigi, dove frequentò il Conservatorio ed ebbe come maestro uno dei maggiori compositori del tempo, Gabriel Fauré (e già così uno inizia bene). Dicono fosse pigro e al Conservatorio la tirò per le lunghe. Quel periodo gli servì più che altro per diventare amico di alcuni personaggi che qualche anno dopo si trovarono a contare qualcosa. Tra questi, il pianista spagnolo Ricardo Viñes, il primo grande interprete di Debussy.
Intorno al 1900 Ravel, Viñes e un manipolo di poeti e compositori amanti del bello si autoproclamarono «Les Apaches». Il loro circolo si riuniva di regola il sabato sera, e non ammettevano donne. La loro missione era difendere la musica contemporanea, in sostanza Pelléas et Mélisande di Debussy, dagli attacchi degli artisti più conservatori (attacchi che, peraltro, non erano neanche molti: Debussy era già una star).
Ravel, che all’epoca aveva venticinque anni, era destinato a riscuotere presto grande successo. Accadde nel 1911, con L’heure espagnole, un’opera in un atto dove il giovane compositore rendeva omaggio alla patria di sua madre (il protagonista, sia detto en passant, è un orologiaio). E poi con il meraviglioso pezzo pianistico Gaspard de la nuit, ispiratogli proprio da Viñes, al quale spettò la prima esecuzione.
Poi scoppiò la guerra. Ravel voleva prendervi parte, ma era troppo basso. Lo rifiutarono. Insistette. Nel 1916, presi per sfinimento, lo misero a guidare un autocarro. Gli sarà parso un altro segno del destino, con tutte le ore che il padre ingegnere gli aveva fatto passare a visitare officine meccaniche?
Nonostante la guerra, non dimenticò la musica. Anzi. In questo periodo compose un altro gioiello, Le tombeau de Couperin, una suite omaggio alla musica del Settecento. Ravel decise di dedicare ognuno dei movimenti a un compagno morto in battaglia. Per una volta il mondo riusciva a farsi largo anche nella sua musica.
Nel 1917, mentre stava guidando nelle retrovie del fronte, morì sua madre. Dopo la guerra si trasferì a Montfort-l’Amaury, un paesino di campagna non molto lontano da Parigi, in una villetta chiamata Belvedere, dove visse in solitudine. Frequentava pochissime persone. Compose La valse, un poema coreografico semplicemente meraviglioso e ricco di eleganza che Stravinskij stroncò con un’indifferenza agghiacciante. Ravel, pacato come sempre, non se la prese. Era, la sua, una clamorosa capacità di distacco? Oppure, semplicemente, se ne fregava, visto che era diventato uno dei musicisti più famosi al mondo? In quegli anni lo chiamavano tutti, viaggiava moltissimo. Suonò anche in America, dove tra l’altro Gershwin gli chiese di dargli lezioni. «Scriverebbe del pessimo Ravel» lo tenne a bada il francese «e rischierebbe di perdere la magnifica spontaneità della sua linea melodica.» Impeccabile.
Scrisse il Boléro in pochi mesi, nell’estate del 1928, su commissione di Ida Rubinštejn, una delle ballerine più famose del tempo. Il suo autore lo descrisse così: «Una danza composta in tempo assai moderato e costantemente uniforme». Vero. Verissimo. Peccato che quasi nessuno rispettò la sua indicazione sul ritmo. Il più indisciplinato fu Arturo Toscanini. Ravel per una volta perse le staffe e gli scrisse una lettera nella quale lo rimproverava di prendersi troppe libertà. Toscanini rispose, comprensivo come al solito: «Se non lo suono a modo mio, sarà senza effetto!». Al che Ravel rimuginò tra sé: «I virtuosi sono incorreggibili, sprofondati nelle loro chimere come se i compositori non esistessero». Fortunati i direttori di oggi che, il più delle volte, non hanno i compositori a portata di penna! In definitiva penso sia questo il motivo per cui le istituzioni sinfoniche, spesso e volentieri, scelgono di eseguire musica di autori deceduti: almeno quelli non possono protestare.
Ma torniamo a quei bei tempi andati: con l’inizio degli anni Trenta le condizioni di salute di Ravel precipitarono. Perse la memoria e visse la terrificante esperienza di non riconoscere una sua composizione mentre veniva eseguita. Chissà che giudizio ne avrebbe dato (saperlo, lo ammetto, mi incuriosirebbe molto). Era smarrito.
Nel 1937 venne operato al cervello, ma le cose non andarono per il verso giusto. Stravinskij, con il suo solito tatto, produsse il seguente epitaffio: «Gogol’ morì urlando, e Djagilev ridendo e cantando La Bohème, la musica che amava di più; ma Ravel morì a poco a poco, che è la cosa peggiore».
Nel 2007 lo scrittore francese Jean Echenoz ha scritto un romanzo sulla vita del compositore, Ravel. Nel libro l’autore del Boléro viene descritto come un uomo che fatica a raggiungere un equilibrio, un essere sopraffatto dalla vita che non trova un centro, non incontra il «guru», né fuori né dentro di sé.
Ciò che mi interessa, a prescindere dalla somiglianza del personaggio al vero Ravel, è che questo tormento nelle sue opere non si sente.
Nella musica di Ravel non c’è spazio per l’ignoto, ogni virgola ha il suo posto e non potrebbe essere altrove. Considerato il caos che c’è nel mondo, nella vita, nell’amore, nella salute, nel sesso, almeno quando faccio musica, sembra dire Ravel, lasciatemi apporre un principio e una fine. Voglio una struttura precisa, io rispondo a regole armoniche, ancorché inventate da me (perché Ravel è avanti, mica usa lo stile di un altro). E sa restarci dentro, come Raymond Queneau, Italo Calvino o Georges Perec, tutti scrittori che hanno inventato un sistema di regole entro il quale far convergere la propria creatività.
Pensate a La scomparsa di Perec, un romanzo scritto senza mai usare la lettera E. Forse pare un esempio eccessivo, ma rende l’idea di come un artista possa creare e autoimporsi delle regole. Può sembrare un limite, ma è un metodo che per alcuni è rassicurante, è ideale per esprimersi.
Nella musica sinfonica dell’Ottocento inoltrato accade praticamente sempre così: se si comincia in Do minore si finisce in Do minore. Questa è la regola.
Che enorme differenza rispetto alla vita! Della vita nessuno ricorda l’inizio e nessuno può conoscere in anteprima il finale. La vita è una canzone alla quale chiunque può cambiare un verso, ma nessuno, lo sappiamo, può permettersi di cambiare una nota a Beethoven.
Molte persone sono attaccate alle forme, alle regole, per poche semplici ragioni: perché sono conosciute, perché sono rassicuranti, perché non comportano imprevisti. La sinfonia esiste da tanti anni, il balletto e il teatro di prosa pure: ti siedi, le luci si spengono e intervengono Le Forme a farti tirare un sospiro di sollievo dal caos della tua vita. L’Orologiaio tenta di costruire un mondo perfetto, dove non esiste la noia. Dove non esiste molto cuore, dal momento che la realtà piace talmente poco, a questo Orologiaio, che l’unico modo per scamparla è creare una forma dannatamente chiara. Una forma nuova perché, così com’è, il mondo non si può proprio vedere!
Il Boléro di Ravel è una forza incalzante, è l’alba che sorge a cavallo di un ritmo che è quello ripetitivo del mondo moderno. Echenoz ha scritto, spingendosi al paradosso, che nel Boléro non c’era musica. Lo stesso Ravel disse che nel comporlo si era ispirato a un’officina. Parliamo di uno che viveva in un mondo dorato, che una volta è uscito dalla sua villetta, ha visto una fabbrica ed è rimasto sconvolto! Un uomo che quando ascoltò un accenno di jazz valutò interessante questa «musica dei negri d’America»! La mise dentro alla Sonata per violino, ma non aveva bene idea di cosa fosse.
Ravel è stato uno degli ultimi musicisti a tentare di salvare le forme classiche, in un mondo che pareva andare in mille direzioni diverse, senza ordine, senza apparente logica. Un mondo in cui con ogni evidenza si rischiava la disgregazione di un intero apparato culturale. Che, come tutti gli apparati, faceva di tutto per restare in piedi immutato e immutabile.
Questo era il periodo in cui ogni intellettuale cercava di creare la propria forma. Il compositore Arnold Schönberg, per esempio, optò per la dodecafonia, un sistema in cui prima di ripetere una nota bisogna aver suonato le altre undici.
La bellezza di Ravel è che lui non spiega niente e tu percepisci quello che accade come corretto: riconosci ancora una logica che nella dodecafonia non distingui più.
È quello che hanno fatto, in modo più morbido, anche Terry Riley e i minimalisti degli anni Sessanta, musicisti che basavano le loro composizioni sulla ripetizione di pochi suoni. Il loro tentativo, a ben vedere, era ancora più disperato, vista l’epoca di grandi trasformazioni artistiche e politiche in cui si trovavano a vivere. Anche nel loro caso, però, assistiamo al tentativo di dare un ordine al mondo e chiudersi in una fortezza.
Il Boléro di Ravel è composto da un motivo musicale che si ripresenta, in maniera ciclica. Cresce, cresce e a un tratto finisce. Perché sul pubblico ha avuto più impatto, per esempio, del Concerto in Sol?
Perché è facilissimo da ascoltare, è gradevole ed è semplice: è un cerchio, come il piatto dove mangiamo. Il cerchio ci rilassa, è una forma perfetta che regge al tempo, come il disco e il CD (non a caso l’MP3, che non ha una forma tangibile, ci disturba un po’, checché ne dicano i modernisti). Il cerchio viene riconosciuto dal nostro inconscio, è un archetipo.
Le forme geometriche e i simboli affollano la nostra vita, sono onnipresenti: il cerchio, il triangolo, la croce, il pentacolo... Rispondono a un principio esoterico, secondo il quale grazie a certe forme e a certe strutture posso entrare in contatto con la perfezione, o con un’altra dimensione. Posso sublimare la realtà.
Quando il Boléro comincia sta arrivando dal nulla, bassissimo, una carovana. Stiamo fermi e guardiamo passare un popolo. Quando transita proprio di fronte al nostro naso è fortissimo, poi improvvisamente se ne va. Si scioglie ai nostri piedi.
Il Boléro sembra molto moderno, con il suo ritmo fisso, ossessivo, che prefigura musiche ben più vicine a noi temporalmente. In realtà è la cosa più antica che c’è, è una carovana che passa. Ti pare di ascoltare una melodia popolare, arabeggiante, che passa e non va da nessuna parte, un tema ascensionale ma senza sviluppo. Qualcosa di visivo.
È stato scritto per un balletto, ma ha davvero bisogno di corpi che si muovono e sottolineano dei dettagli? È tutto talmente chiaro e leggibile che qualsiasi balletto diventa un orpello. Un di più.
Accade anche con Bach. Ascoltiamo la Passione secondo Matteo ed ecco il cerchio. Il gusto per la forma fine a se stessa attraversa anche gran parte della cosiddetta arte contemporanea. Forme eterne, talvolta astratte, come le linee di Piet Mondrian, nelle quali aleggia una forza universale che crea un’energia. La stessa del Boléro. E del piatto. Ravel e il ceramista fanno la stessa cosa. Si chiama eternità.
2

Il monello

Avevo immaginato, pensando a Louis Armstrong, di accostarlo a Ravel sul piano della perfezione. Ho qui davanti i miei appunti. Vicino ai loro nomi avevo scritto proprio: «Perfetti!». Sinceramente adesso non ricordo più il motivo di quell’annotazione. Anche perché i due musicisti non potrebbero essere più diversi.
La musica di Ravel è «un mondo perfetto» nel quale nessuno può mettere becco. Ma quella di Armstrong?
Voglio dire... Ravel scrive a Toscanini per bacchettarlo: stai usando un tempo più veloce di quello che io ho pensato! (E quell’altro gli risponde pure!) Voi vi immaginate Armstrong che scrive a un mito come King Oliver e gli dice: caro King, ti ho ascoltato a Chicago ieri sera, suonavi Potato Head Blues con un tempo che non mi pare mica tanto il caso, datti una regolata!?
Nel jazz una cosa del genere sarebbe impensabile. Nel jazz ci si sgambetta a vicenda, per principio. Hai scritto una tarantella? Bene, quando la eseguo io, la faccio diventare un valzer. Hai previsto una introduzione a Night and Day? Io la taglio. Charlie Parker decide di inserire una cadenza di Bach nell’assolo di un blues? Ce la infila, e non gli importa niente se Johann Sebastian nel frattempo si sta rigirando nella tomba (ma lui mica si muove, sono i suoi esegeti a rivoltarsi, e con clamore).
Quando nel 1967 incise What a Wonderful World, Armstrong diventò più famoso come cantante che come trombettista. Un sacco di gente lo conosceva senza aver mai ascoltato un suo disco. Ancora oggi la sua faccia, il suo sorriso, sono l’icona del jazz – non a caso tra i tanti soprannomi che gli vennero affibbiati, quello che è rimasto di più è Satchmo, abbreviazione di satchel-mouth, come a dire che aveva una bocca grande quanto una borsa! Satchmo era il jazz immaginario, il jazz ideale. Il jazz che tutti possono ascoltare, che sta simpatico a tutti.
Ma proprio perché alle sue altissime qualità di musicista univa quelle di sgamatissimo uomo di spettacolo, ai suoi tempi Armstrong venne preso sottogamba. Nel suo ambiente era il simbolo del jazzista più famoso, traducete pure in «quello che si è venduto al sistema», il nero che per compiacere il bianco indossa l’anello al naso. Ai neri dava fastidio, Armstrong.
Quando però morì, nel 1971, di colpo il personaggio smise di essere ingombrante, e la sua musica venne riscoperta.
Soprattutto quella degli anni Venti con gli Hot Five e gli Hot Se...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il monello, il guru, l’alchimista e altre storie di musicisti
  4. Introduzione. Di che tribù sei?
  5. 1. Il ceramista
  6. 2. Il monello
  7. 3. Il teatrante
  8. 4. L’anarchico
  9. 5. Il disinvolto
  10. 6. L’apolide
  11. 7. Il padre e il figlio
  12. 8. La figlia
  13. 9. Il karma
  14. 10. L’alchimista
  15. 11. La bella e la bestia
  16. 12. Il monaco
  17. 13. Il guru
  18. 14. Il fanciullo
  19. Nota dell’autore
  20. Bibliografia
  21. Ringraziamenti
  22. Copyright