Maria Teresa
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Una donna al potere

  1. 312 pagine
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Maria Teresa

Una donna al potere

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Leggendaria e affascinante figura di imperatrice, unica erede di Carlo VI, Maria Teresa (1717-1780) fu la prima donna a salire, a soli ventitré anni, sul trono degli Asburgo. Costretta ad affermare con le armi la propria legittimità e a difendere i suoi territori dalle altre potenze europee, riuscì, con un difficile gioco di equilibri interni e internazionali, a garantire stabilità al suo grande impero e ad attuare una serie di importanti riforme. In questa biografia, Maria Teresa rivive come uno dei personaggi più interessanti della storia d'Europa, una donna affascinante e sensibile, coraggiosa e fiera, che seppe conciliare l'amore per la famiglia con la ragion di Stato e l'esercizio del potere, tra l'intenso legame con il marito Francesco I e il difficile rapporto con il figlio, il futuro Giuseppe II, e la figlia Maria Antonietta. Una sovrana che seppe governare "come un uomo tra gli uomini".

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2016
ISBN
9788852075971
Argomento
Storia
XVIII

Le riforme in Lombardia

Per quasi cent’anni, con sperpero di denaro e di sangue, le dinastie degli Asburgo e dei Borbone si erano affrontate per il predominio sul continente europeo. Il trattato di Aquisgrana dimostra che lo sforzo della Francia per schiacciare l’Austria è fallito, mentre Vienna non ha più motivi per temere Parigi. Per l’Austria, lo scenario degli incubi e delle minacce si sposta appena oltre i suoi confini. Il nuovo avversario è nato e si è affermato a Berlino, e costringe Maria Teresa a uno snervante duello. Federico II di Prussia è forte e popolare. Nei nuovi disegni di questo inquieto letterato e soldato, c’è la formazione di un nuovo Stato che va sempre più chiaramente configurandosi come «la grande Germania».
Col trattato di Aquisgrana, cambia anche il peso dell’Italia in Europa. Per cinquant’anni, la sua posizione strategica ne aveva fatto il centro dei conflitti fra l’Austria e la Francia mentre, in un susseguirsi ininterrotto di guerre, la penisola era stata sconvolta dagli invasori. I grandi eventi si sono ora spostati verso il nord e nell’oriente d’Europa. Di conseguenza, l’asse portante degli equilibri del continente non passa più per Milano, Firenze, Napoli.
Al tempo del trattato, l’Italia è divisa in tre parti. Gli Asburgo dominano la Lombardia e, attraverso Francesco Stefano, anche la Toscana. I Borbone hanno piazzato Carlo e Filippo, infanti di Spagna, a Napoli, Parma, Piacenza e Guastalla. Restano, così com’erano prima, i vecchi Stati di Venezia, Genova, Roma e il Piemonte.
La Lombardia è un dominio «diretto» dell’Austria. Vero e proprio avamposto dell’impero, e solida base per il predominio sulla penisola, è stata oggetto continuo di scambio. L’antico Stato di Milano, mutilato delle sue province oltre il Ticino e arricchito del ducato di Mantova, austriaca già dal 1707, si presenta come una striscia contorta e allungata, separata dall’Austria dagli estranei territori del Veneto e dei Grigioni. Né la precedente dominazione spagnola, né quella asburgica, sono mai riusciti a privarla della denominazione di ducato, di cui ha conservato le strutture, le istituzioni, le leggi, e tutti i privilegi stabiliti già da Carlo V.
Che provenissero da Vienna, o Madrid, i regnanti divenivano automaticamente duchi di Milano. Il potere degli Asburgo e dei Borbone non si esercitava, e neppure si eserciterà d’ora in avanti, in forma di conquista. Il dominio delle potenti famiglie si manifesta, piuttosto, attraverso dinastie satelliti che, pur dipendendo dallo Stato-madre, si sono costituiti come uno Stato. La Lombardia si ritiene membro di una comunità, ma con una sua identità e autonomia.
Dal 1714, lo Stato di Milano era stato assegnato all’Austria. La situazione era caotica. La dominazione spagnola, una delle peggiori della sua storia, e le continue guerre, avevano reso ingovernabile il territorio per corruzione, malgoverno, malcostume. L’alacre lombardo era ridotto a uno stracco e disincantato suddito che cercava di lavorare il meno possibile, smarrendosi in oziosità assorbite dall’abitudine a convivere con gli spagnoli, e nella costante ricerca di espedienti per non pagare le tasse.
L’Illuminismo, che punta soprattutto all’abolizione dei privilegi, e chiede al sovrano maggiori responsabilità, non tocca profondamente Maria Teresa e i suoi consiglieri. I progetti di riforme dell’imperatrice, che coincidono con le più urgenti aspirazioni della vita spirituale del «secolo dei lumi», ha un’origine pratica. Le guerre hanno stremato l’Austria alla quale, come ha insegnato Federico di Prussia, è indispensabile un esercito stabile e forte. Occorre denaro, e la fonte principale è costituita dalla riscossione delle tasse. Per ottenere introiti sicuri e continui, è quindi necessario migliorare il funzionamento della macchina statale. L’obiettivo delle riforme è riportare l’ordine, l’organizzazione, la pianificazione: e così arrivare, inesorabilmente, alle tasche del suddito.
«La Spagna ha lasciato a Milano un’eredità scandalosa, qui non lavora nessuno: il disordine rasenta il caos», scrivono gli osservatori austriaci a Maria Teresa. Compreso il ducato di Mantova, la Lombardia conta 1.400.000 abitanti, che versano un tributo annuo di tre milioni di scudi. Milano è una città fetida, dove la puzza del limo delle marcite e delle risaie che la circondano, mista a quella delle fogne a cielo aperto che si riversano nei Navigli stagnanti, ammorba l’aria e provoca infezioni mortali. Le case sono quasi del tutto prive di camini. Alle finestre, non ci sono vetri ma carte, cerate. Le grondaie sporgenti dai tetti spandono acqua sulle strade, costantemente infangate a causa della quasi totale mancanza di selciato, e ingombre di escrementi lasciati dai cavalli e dai buoi che trainano carri e carrozze. Gli stipendi sono bassi. Via Marina è il luogo prediletto dagli oziosi per chiacchierare fino a notte inoltrata. Nelle osterie e nelle campagne, anziché lavorare, i contadini si appassionano al nuovo gioco delle bocce. Davanti alle case, molti borghesi arricchiti con traffici non sempre onesti, ostentano stemmi di una nobiltà inventata. In piazza Vetra hanno luogo le esecuzioni capitali tra pubblici e macabri spettacoli di tortura, divertimento gratuito per un popolo cinico e rozzo. Ci sono soltanto due porte: la «Romana» e l’«Orientale». Le vetture pubbliche sono pochissime. Sono pochi anche i libri. Sono proibiti i saggi dell’«empio» francese Voltaire. Le ragazze senza dote vengono mandate in convento. A Maria Teresa, giungono voci di intollerabile dissipazione, sia di costumi che di denaro. «Alcune donne», le vien fatto sapere, «per avere il passo più libero, camminano con la gonna che scopre metà della gamba. I cicisbei sono più numerosi e capricciosi di quelli di Vienna». Massimo esempio di sperperi, il principe di Belgioioso fa arrivare una volta al mese, da Parigi, un parrucchiere che rinfreschi la sua parrucca e tagli i suoi capelli secondo l’ultima moda.
L’uomo che organizzerà in Lombardia le riforme di Maria Teresa, è Anton Kaunitz. Soprannominato «l’oracolo», gli bastano poche osservazioni per convincere la sua sovrana che la trasformazione deve essere radicale. «Per costruire la nuova fabbrica», sostiene, «bisogna abbattere l’antica». Dal 1757, diventa l’arbitro supremo della provincia. Tutto fa capo al suo tavolo nella cancelleria della Hofburg. È lui che decide ogni cosa, e farà avere all’imperatrice la soluzione dei complessi problemi. A lei, non rimane che aggiungere l’indispensabile placet.
Gli affari italiani si decidono a Vienna, in un ufficio denominato «Consiglio d’Italia» che poi, con una mossa che assicura la diretta soggezione della Lombardia alla Hofburg, diventa il «Dipartimento d’Italia». D’ora innanzi, i rappresentanti in Italia della corona austriaca avranno soltanto il compito di interpretare l’indirizzo che regola anche gli altri Stati sudditi di Maria Teresa.
Coi governatori e i burocrati di Milano, Kaunitz tiene una continua e segreta corrispondenza. Gli inviano regolarmente notizie l’abate Giusti e il tirolese Giuseppe de Sperges, poeta erudito e antiquato, che però incoraggia il movimento riformatore lombardo specialmente in materia giuridica. Kaunitz è di larghe vedute, e quando Filippo Frisi gli fa avere un manoscritto sulla giurisprudenza, per ottenerne il benestare alla pubblicazione, amabilmente risponde: «Non so i censori lombardi, ma a Vienna non si incagliano gli ingegni, qualora non offendano la religione, i costumi, lo Stato».
Maria Teresa è stata in Lombardia soltanto due volte, e solo di passaggio. Nel 1738, diretta a Firenze insieme al marito nominato duca di Toscana, si era fermata brevemente a Mantova. L’anno seguente, durante il viaggio di ritorno a Vienna, aveva soggiornato a Milano. «Maria Theresia Dei Gratia, Romanorum Imperatrix, Regina Hungariae, Bohemiae & c, Archidux Austriae, Dux Mediolani, Mantuae & c, & c». Preceduti dalle auguste parole, stampate a enormi lettere ai piedi dello stemma imperiale, già dal 1740 in Lombardia fioccano sempre più fitti gli editti, le grida, gli ordini e le ordinanze della nuova sovrana. Il suo primo rappresentante è il conte Ferdinando Harrach al quale, nel 1750, succede il nobile genovese Gian Luca Pallavicino. L’arrivo di funzionari estranei all’ambiente, scelti per evitare favoritismi e collusioni all’ordine del giorno fino a poco prima, indispettisce l’alta società milanese. Abituata fino a questo momento a spadroneggiare e compiere, senza sanzioni e controlli, ogni tipo di sopruso, si oppone tenacemente con l’ostruzionismo, le lungaggini, gli insabbiamenti a ogni minimo tentativo di riorganizzazione.
Negli uffici affollati di impiegati in soprannumero, gli abusi nelle aste d’appalto, sulle imposte, sulle rendite regie, sono la regola. Il debito pubblico è enorme, i creditori protestano, Vienna non riesce a stare al passo coi pagamenti. L’incuria, l’interesse privato, l’indomabile sete d’imbroglio, l’esercizio dei privilegi fra le caste più elevate, oltre a tenere le classi inferiori nell’ignoranza e nella miseria, privano la Casa d’Asburgo di quasi tutto ciò che le spetterebbe.
Snellire, riordinare, unificare. Questi, sono i criteri di riforma del Pallavicino. Molte, in Lombardia, sono le magistrature inutili e le prebende riservate all’aristocrazia. Pallavicino inizia le riforme assicurando i confini, puntando al pagamento del debito pubblico, pagando gli arretrati degli stipendi ai funzionari, fondendo in un solo magistrato comunale i due precedenti, così che «l’autorità amministrativa assoluta per la direzione, e l’ispezione di tutti i rami di finanza nel territorio, siano soggetti alla giurisdizione del governo»; e attaccando il sistema degli appalti per la riscossione delle imposte di alcune «privative» dello Stato, come quella del sale e del tabacco. È infatti notorio, anche se tollerato, che gli appaltatori esercitano ogni tipo di corruzione e ricatto per la riscossione dei tributi, che si verifica in modo disordinato, e soprattutto ingiusto. È la prima vittoria del governo austriaco sugli interessi locali, e contro lo strapotere patrizio. Ogni passo della riforma, è un passo di Vienna verso il cuore degli stati sudditi.
Fra i dazi, i più importanti riguardano il sale, le polveri, il tabacco. Redditizie sarebbero anche le numerosissime imposte che colpiscono le merci in entrata e in uscita. Milano paga anche sul consumo della carne, il vino, i cereali. Da tempo immemorabile, alcuni dazi sono gestiti direttamente dallo Stato. Altri, sono dati in appalto. Gli appaltatori, o «fermieri», sono potentissimi. Quasi sempre, in caso di guerra, gli Asburgo si trovano nella condizione di indebitarsi con loro, che anticipano il denaro delle imposte e poi, con mezzi più o meno espliciti, aumentano il loro potere con la forza del ricatto. Fra gli appaltatori, molti sono gli Istituti di Credito (fra i più importanti, quello di Sant’Ambrogio), e i Monti (fra i maggiori, quello di San Carlo, San Francesco e il Civico). Per assicurare i pagamenti allo Stato, Pallavicino concentra gli appalti in un’unica impresa, istituendo una «ferma generale» per le privative e intitolando l’unico Monte a Santa Teresa, in onore della sovrana. Eliminando l’inverosimile quantità di appaltatori, attraverso i quali si disperdevano i proventi dei tributi, il patrizio genovese crea, in questo modo, una sola e grande cooperativa. Il loro rappresentante, conte Antonio Greppi, gode di grande stima da parte di Kaunitz, mentre Maria Teresa, con decreto imperiale, ordina che venga «trattato come i nostri ufficiali», concedendogli una milizia personale. La grande riforma consiste nell’abolizione progressiva dell’appalto, e la riscossione delle imposte direttamente da parte dello Stato.
Finora, erano sempre stati i ceti più poveri a pagare i tributi. Già nel 1750, con le riforme volute da Vienna, Milano sembrava però intravedere un tentativo di eguaglianza fra i cittadini. «Viva el sur cunt d’Harrac che ne governa,/ dott, giust e cun prudenza senza fin,/ viva con lu, feliz in sempiterna/ el scior cont general Pallavesin», si canta per le piazze.a
Ma dopo il primo entusiasmo, i risultati deludono. L’attuazione delle riforme è lentissima, l’ostruzionismo dei ceti privilegiati è tenace. Nel 1754, i milanesi non comprano tabacco, bruciano le pipe in piazza, e mandano polemicamente un arcolaio agli impiegati disoccupati, per dimostrare come la popolazione di ceto inferiore abbia ricevuto pochissimi benefici da Maria Teresa. Contro Vienna, ci si sfoga cercando di seppellire nel ridicolo le nuove disposizioni. Si scrivono almanacchi satirici, mentre finti diplomi e onorificenze portano, appena sotto la firma dell’imperatrice, quella di segretari. «Naso lungo», «nasone», «naso curto», «Tognitt» sono chiamati con tono di scherno i suoi emissari, che introducono costumi noiosi e severi, sprezzati dai nobili eleganti e gaudenti, e dal popolo infiacchito negli ozi spagnoli. In piazza Mercanti si rappresentano farse dove la sovrana indossa le vesti scomposte di un’irosa Giuditta mentre, senza successo, tenta di decapitare il feroce Federico-Oloferne.
«Di oscuri e poveri natali, di figura grossolana e deforme, gli abiti unti e sporchi di tabacco da naso, balbuziente e ignorante». Così l’aristocratico milanese Alessandro Verri descrive Cristiano Beltrame che succede al Pallavicino e, secondo lui, inviato a Vienna dal Pallavicino stesso, perché la «colta e delicata sovrana ne venisse stomacata». Invece, a Maria Teresa piace questo varesotto di umili origini che non conosce le lingue straniere, a lei segnalato da Kaunitz come «soggetto raro da trovare in Italia, pronto, attivissimo, da alcuno accusato di interesse». Beltrame torna a Milano come ministro plenipotenziario. Non essendo nobile, non può infatti fregiarsi del titolo di governatore.
Beltrame riduce le leggi in un unico codice, e calca la mano sulle imposte. «Borlandott», sono chiamati i suoi finanzieri, detestate figure ritratte nelle vignette con baffi minacciosi, brache sgraziate e il manganello in pugno, alla vana rincorsa dello svelto evasore. «Sovvengasi, il conte Beltrame», si scrive nei giornali cittadini, «che si grida, si strilla senza frutto, che l’affare del Bollo è cosa infame, che Milano rinata è già distrutta, poco mancandogli a morir di fame, non ha nemmen con che vestirsi a lutto».
Fedele intermediario fra Vienna e Milano, dove arriva nel 1759, è il conte Carlo Firmian, nato a Trento nel 1718 da famiglia tirolese e proveniente da Napoli. Vive in un palazzo di via Fatebenefratelli, con quarantamila libri e ventimila fra incisioni, quadri, sculture, arazzi. Serio, meticoloso, pur tenendo un carteggio giornaliero con Kaunitz, e difendendo strenuamente le ragioni dello Stato contro l’avidità dei privilegiati, non è uomo di vaste riforme. Favorisce gente di mediocre levatura, anche se trasforma la sua casa in un cenacolo artistico dove si tengono eleganti concerti, si svolgono dotte conferenze, si proteggono gli spiriti milanesi più illuminati come Beccaria e Parini, e si ospitano artisti come Mozart e Piermarini. Alessandro Verri lo descrive «ministro invisibile, rintanato nella galleria di quadri di cattivo gusto. Non legge, non conosce il paese, firma ciò che gli presentano gli scrivani favoriti». I suoi segretari Castelli e Salvador vendono favori ai «fermieri» proprio sotto il suo naso: e lui non sembra avvedersene. Tra Firmian e Maria Teresa la corrispondenza è fittissima, e riguarda anche l’acquisto di riproduzioni di opere d’arte nelle città di Milano e di Mantova.
«Qui comincia l’opera mia, e con piacere cercherò di adempirla». Così scrive Giuseppe a sua madre il 29 maggio 1769, fermandosi a Milano dopo un viaggio a Firenze. Alloggiato nel palazzo di Firmian, è poco amato dal Verri, che lo trova assai meno delicato di Maria Teresa e lo definisce «un teutonico che mena fendenti col suo spadone». Giuseppe ascolta, osserva, raccoglie dati, prende contatti con le forze più giovani della città, si fa dare memoriali sulla «ferma», sulle monete, sul ponte di Sant’Ambrogio. «El ved tut, el sent tutt, el capiss tutt»: vede, ascolta, capisce tutto, scrive di lui il poeta Balestrieri. L’erede dell’imperatrice assiste alle sedute del Senato e del Supremo Consiglio di economia. E dopo aver riscontrato di persona come le finanze immiserite, il commercio e l’amministrazione della giustizia intralciata, il clero invischiato in faccende temporali, abbiano subito un salutare scossone grazie alle riforme intraprese, scrive a sua madre: «Qui Sua maestà è venerata, nonostante il peso delle tasse maggiori che nei paesi vicini, poiché a lei, a ragione, si riferisce ogni beneficio, e ogni malefatta ai ministri. Il fondamento di questa fiducia, è nelle riforme attuate».
Giuseppe invia puntuali osservazioni a Maria Teresa due volte la settimana. «L’infelice preferenza di tener basso il prezzo delle derrate nelle città principali, di cui si è tanto parlato in Europa, forma l’infelicità anche delle province e dei contadini lombardi, e distrugge il traffico con l’estero anche nei momenti di abbondanza», la informa. «Il paese intero aborrisce la “ferma”. Almeno tre quarti delle suppliche riguardano questa istituzione, che va abolita al più presto. Si lamenta moltissimo delle eccessive dogane. Nessuno può star sicuro a casa sua. Nei tribunali, si tormentano dieci innocenti per trovare il colpevole. I preti pagano un terzo delle tasse». Ha però le mani legate. Non si muove niente senza il placet materno, che spesso non coincide coi suoi suggerimenti.
È però Pompeo Neri, un fiorentino titolare della cattedra di diritto pubblico a Pisa e inviato a Milano, ad animare e avviare il censimento, massima riforma della Lombardia teresiana, il cui fine è quello di stringere nella rete del fisco la proprietà fondiaria attraverso una esatta e scientifica definizione.
Milano conta 125.000 abitanti; 19.000, invece, vivono nei suoi sobborghi. Fin dai tempi di Carlo V, il Milanese gode di inamovibili privilegi fiscali. Hanno leggi speciali anche le province minori di Pavia, Cremona, Lodi e Como dove, come nel capoluogo lombardo, il patriziato non solo è esente dalle tasse, ma controlla per intero il meccanismo fiscale. Le riforme censuarie toccano sul vivo sia la nobiltà che il clero e, una volta misurate e stimate le proprietà, le proteste si ammucchiano sul tavolo del rappresentante del governo. A migliaia, i ricorsi inoltrati sono comunque paradossalmente discussi dagli stessi nobili o dai loro parenti, da tempo sistemati nei posti-chiave, in modo da formare una barriera invalicabile dalla quale il denaro incassato a nome dell’imperatrice uscirà sbriciolato.
Il nuovo programma degli Asburgo parte dal proposito di sciogliere il nodo che favorisce i nepotismi, le grandi famiglie, i clan. Ma ancora più difficile, risulta la riscossione delle imposte sui patrimoni ecclesiastici. L’Austria tratta con la chiesa in via diplomatica, da potenza a potenza. Nel 1757, Beltrame perfeziona un negoziato in base al quale i beni della Chiesa vengono sottoposti alle tasse dello Stato solo se, trattandosi di beni dominicali, sono stati acquistati dopo il 1575. Per la parte colonica, lo sconto è invece del triplo delle tasse pagate dai coloni laici.
Mentre, lentamente, si fa strada il principio dell’uguaglianza tributaria, anche i possidenti sono obbligati a contribuire alle spese dello Stato in proporzione ai propri redditi. L’allontanamento progressivo dalle cariche dei cittadini residenti, sostituiti con insospettabili tecnici provenienti da altre province, è il primo, impopolarissimo, indispensabile passo. L’occhio del governo si manifesta attraverso una rete di funzionari imperiali, senza il cui placet non si muove una delibera, non si attua un provvedimento. Allo scopo di controllare e riassestare il territorio, Maria Teresa ordina infine un’organizzazione omogenea dei 1492 comuni lombardi. Nel 1758, risultano del tutto rinnovati anche gli assetti delle province e delle città capoluogo. Regi delegati, che però non provengono dal patriziato o dal clero, tengono sotto controllo le città.
Attraverso il catasto teresiano, la Lombardia assume un aspetto dettagliato e preciso. La proprietà è molto frazionata sulle montagne, meno nelle colline, più concentrata in pianura. Il numero dei cittadini proprietari di terra va notevolmente aumentando, e...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Maria Teresa
  4. I. Nascita di Maria Teresa. La «grande famiglia Asburgo». La Prammatica sanzione
  5. II. Maria Teresa bambina. Il fidanzamento con Clemente di Lorena
  6. III. L’adolescenza. Il grande amore di Maria Teresa per Francesco Stefano di Lorena
  7. IV. Il fallito matrimonio con Federico di Prussia. Il prezzo pagato da Francesco Stefano per sposare Maria Teresa
  8. V. Nascite e lutti intorno a Maria Teresa. La drammatica morte di suo padre, l’imperatore Carlo VI
  9. VI. L’eredità di Maria Teresa. I contrastati diritti di successione. La guerra con Federico di Prussia
  10. VII. Nascita di Giuseppe, l’erede. Gli uomini di Maria Teresa. Maria Teresa «re d’Ungheria»
  11. VIII. L’Europa contro una donna sola. L’aiuto degli ungheresi
  12. IX. «Giovanna d’Arco del Danubio». Vittorie, sconfitte, lutti intorno a una donna molto amata e molto odiata
  13. X. Maria Teresa regina di Boemia. Un paese oppresso e ostile
  14. XI. Francesco Stefano imperatore del Sacro Romano Impero. Il trattato di Dresda. La nuova reggia di Schönbrunn
  15. XII. Le prime, grandi riforme. Il conte Haugwitz e il dottor van Swieten
  16. XIII. Il trattato di Aquisgrana e il riconoscimento dei diritti di Maria Teresa. Il difficile carattere di Giuseppe
  17. XIV. Il conte Kaunitz. Il rovesciamento delle alleanze
  18. XV. Vita a corte. Il moralismo di Maria Teresa. L’amante dell’imperatore
  19. XVI. La guerra dei sette anni. Infelicissime nozze di Giuseppe con Isabella di Borbone-Parma
  20. XVII. Altre riforme. La tragica morte di Isabella
  21. XVIII. Le riforme in Lombardia
  22. XIX. L’Illuminismo in Lombardia. La situazione di Mantova
  23. XX. Seconde nozze di Giuseppe. L’improvvisa morte di Francesco Stefano
  24. XXI. Il gravissimo conflitto con Giuseppe
  25. XXII. Il colera. La figlia segreta dell’imperatore. I disgraziati matrimoni di Maria Amalia e Maria Carolina
  26. XXIII. Le nozze di Maria Antonietta, col «delfino» di Francia, e quelle di Ferdinando, duca di Milano, con Beatrice d’Este
  27. XXIV. Giuseppe alla corte di Versailles. Clamorosi accordi di pace tra Maria Teresa e Federico di Prussia
  28. XXV. La fine
  29. Copyright