Andare insieme, andare lontano
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Andare insieme, andare lontano

Per non sprecare l'occasione di tornare a crescere

  1. 144 pagine
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Per non sprecare l'occasione di tornare a crescere

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«Se vuoi correre veloce vai da solo, se vuoi andare lontano devi farlo insieme» recita un adagio africano. È a partire da questa suggestione essenziale, eppure così adatta a descrivere l'orizzonte che l'Italia e l'Europa hanno dinanzi a sé, che Enrico Letta torna a raccontarsi dopo oltre un anno di silenzio. Non una memoria dei suoi dieci mesi da presidente del Consiglio, né un espediente per cercare immediate rivincite personali. Ma una riflessione proiettata al futuro, che, anche passando attraverso quell'esperienza, si sofferma su un'idea di comunità molto distante, per contenuti e stile, dall'attuale conformismo. E assai diversa da un modello di politica come quello di House of Cards, fatto di intrighi e spregio della parola, che dal pensiero di Machiavelli sembra mutuare solo l'inno al «fine che giustifica i mezzi» e non i consigli alla ragionevolezza e alla temperanza nell'azione di governo. Per Letta non esiste un solo momento positivo della nostra storia unitaria che non sia stato figlio di un progetto condiviso. E oggi più che mai l'Italia, per sfruttare al meglio le condizioni esterne positive createsi nel 2015, grazie in particolare all'azione svolta dalla Banca centrale europea di Mario Draghi, deve coinvolgere le migliori energie di cui dispone in un grande sforzo collettivo. Per favorire una ripresa attesa ormai da troppo tempo e, soprattutto, per alleviare le ferite ancora aperte della crisi e aggredire il più grave dei mali della società italiana: la mancanza di lavoro, specie per i giovani. Nessuno può riuscire ad affrontare impegni di questa portata da solo, con la logica dell'esclusione, con la ricerca strumentale del nemico, con la delega in bianco. Quel che invece il Paese deve concedersi è la chance di dimostrare al mondo di essere «nazione» e «comunità», la capacità di unire virtù democratica e consenso, il coraggio di dire no alle scorciatoie. Il mondo non è mai stato così interconnesso. Molte sono le incognite e le ragioni di apprensione. Ma altrettante sono le opportunità di arricchimento reciproco e partecipazione. Per coglierle c'è bisogno di tutto il «pensiero pesante» di cui siamo capaci. Perché il sogno dell'Europa unita può realizzarsi solo recuperando l'afflato ideale di quanti, per primi, ne colsero la straordinaria valenza per le generazioni successive. E perché la democrazia italiana può rigenerarsi solo se accetta la sfida della politica competente. Una politica che approfondisce e cerca di capire, ma poi decide assumendosi le proprie responsabilità. Una politica, soprattutto, intesa come tensione etica e dedizione alla cosa pubblica, che vuole incidere sulla realtà, senza mai smarrire, però, la consapevolezza più importante: la differenza che passa tra governare e comandare.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852064265
II

Chi ha paura della Germania

Discutiamo da più di un’ora. L’aula magna del liceo è affollata. Trecento ragazzi tra i sedici e i diciotto anni. Si parla di Europa. Mi piace confrontarmi con i più giovani sull’Unione, provare a ragionare con loro sul perché sia così importante per il futuro e quanto in meglio siano cambiate le nostre vite grazie a essa. Racconto di quando, per completare la tesi di laurea e andare in aereo da Pisa a Bruxelles, avrei dovuto pagare un milione di vecchie lire oppure adattarmi alle limitazioni tipiche dei monopoli, come partire il sabato o la domenica e restare tutta una settimana. Mentre loro possono farlo al prezzo di una cena in un ristorante di livello medio. E, questo, grazie a Jacques Delors e all’Europa delle quattro libertà.
So che il tema generale non è tra quelli che scaldano i cuori. Ci provo a maggior ragione. Questi ragazzi sono bravi, curiosi soprattutto. Così, sollecitato dall’intervento di una studentessa, improvviso un test. Per la prima volta da quasi sessant’anni – dico – secondo l’Eurobarometro in Italia gli euroscettici sono più numerosi dei sostenitori della Ue. È una rivoluzione, visto che noi siamo storicamente il Paese nel quale l’opinione pubblica si è schierata con più entusiasmo in favore di Bruxelles.
Come ve lo spiegate? Propongo quattro risposte possibili. Primo: l’impatto della grande crisi. È l’interpretazione che più mi persuade e l’argomento bene. Snocciolo i dati sul calo del reddito, sull’aumento della disoccupazione e delle disuguaglianze, sulla perdita di competitività. Poi, con minore convinzione, elenco le altre tre opzioni. Nell’ordine: le paure legate all’immigrazione e all’annacquamento della nostra identità; la tecnocrazia avvertita come paladina dell’austerità; infine, la rottura degli equilibri tra gli Stati membri con un Paese, la Germania, che obbliga tutti gli altri a uniformarsi ai propri diktat.
Chiedo ai ragazzi di concentrarsi non su quello che pensano loro, ma su ciò che ritengono sia alla base del cambiamento di umore degli italiani. Quando le mani iniziano ad alzarsi, arriva il risultato. Crisi, immigrazione ed euroburocrati ne escono assolti. Sul banco degli imputati resta soltanto lei, la Germania. Che fosse un tema centrale non avevo dubbi, ma il plebiscito mi sorprende comunque. Proviamo a discuterne. Proprio alla fine dell’assemblea, un’altra ragazza risponde con una chiave concettualmente interessante. La Germania, dice, è il nuovo «nemico». Funziona sempre così, c’è bisogno di qualcuno cui dare la colpa. Berlino, peraltro, si presta benissimo.
Da quel giorno, nei miei incontri pubblici parlo dell’esito di quel piccolo sondaggio improvvisato. Perché, a leggerlo oltre la contingenza di un’assemblea di liceali, contiene spunti di riflessione sull’Europa. A partire dal ruolo dei tedeschi. Prendiamo due titoli, rispettivamente del 2003 e del 2013. Entrambi dedicati alla Germania. Basterebbero da soli a raccontare l’ascesa di Berlino: da anatra zoppa a potenza del vecchio continente.
Il primo, in epoca Schröder, è quello di un dossier del prestigioso think-tank londinese Centre for European Reform, guidato da Charles Grant, che la presenta come il potenziale «grande malato d’Europa». Ritorno della recessione, cattiva performance economica, bassa produttività. Dieci anni dopo, l’esatto inverso. Ecco allora il secondo titolo, quello del 2013. È una copertina dell’«Economist», nella quale sempre la Germania diventa l’«egemone riluttante». La leadership è indiscutibile nei numeri, ma tra le classi dirigenti tedesche sembra essere ancora troppo diffusa la resistenza a esercitarla fino in fondo, accettando di guidare l’Europa contemporanea. E, dunque, assumendosi anche gli oneri della leadership medesima, facendosi carico degli interessi propri e di quelli comuni, degli altri europei.
In sintesi, nel giro di un decennio il problema si capovolge diametralmente nella sostanza, ma alla fine resta sempre lì, a Berlino. Prima, perché i tedeschi non facevano le riforme necessarie e trascinavano in basso l’Europa. Oggi, perché pretendono di imporle a tutti gli altri, senza però un orizzonte ideale sostenibile: un progetto che tenga conto del mutato contesto economico e sociale e che interpreti fino in fondo lo spirito dell’integrazione tra gli Stati membri, fondato anche sulla mutua solidarietà e non soltanto sull’ortodossia contabile della Bundesbank.
Lo storico Valerio Castronovo ha parlato di «sindrome tedesca» nel suo saggio omonimo edito da Laterza. È una metafora efficace per descrivere, anche nella percezione esterna, questa egemonia riluttante, in cui alla diffidenza verso partner tacciati di inaffidabilità si intrecciano gli strascichi di un passato non ancora del tutto dimenticato. È un fenomeno che ha investito una fase mediamente lunga di politica europea e globale, dallo scoppio della crisi dei debiti sovrani al recentissimo passato.
Ma la Germania ne sta guarendo? Io ritengo che il caos mondiale stia spingendo in questa direzione. Il 2014-2015 è, in tal senso, un biennio importante. Penso al conflitto Russia-Ucraina, al viaggio di Angela Merkel con François Hollande a Mosca e Kiev, alla sfida al fondamentalismo islamico, al ruolo proattivo svolto nella designazione della nuova Commissione e del nuovo presidente del Consiglio europeo.
Un passo avanti c’è già. E tanti sono gli indizi che lo testimoniano. Verso la Russia, per esempio, in diciotto mesi è cambiato molto. Torniamo, per capirlo, al G20 di San Pietroburgo, settembre 2013. Percepivamo tutti, forte, un clima da nuova guerra fredda. Ricordo la bandiera a stelle e strisce all’ingresso della residenza in riva al Baltico destinata alla delegazione statunitense e lasciata deserta da Obama. In discussione c’era l’emergenza siriana. Nel muro contro muro tra russi e americani, la Germania scelse la posizione meno profilata. Gli altri occidentali – francesi e inglesi con gli americani – spingevano per arrivare subito alla stesura di un documento comune molto duro contro il regime di Assad.
Anche l’Italia, insieme al Giappone e alla Spagna, lo sottoscrisse. Mi consultai a lungo con il ministro degli Esteri, Emma Bonino, perché mi fidavo anche della sua straordinaria conoscenza delle dinamiche più intricate del mondo arabo-musulmano. Berlino aderì all’iniziativa, ma soltanto nei giorni successivi. E da quel summit uscì il racconto di una Germania quasi ansiosa di non dispiacere a Vladimir Putin. Niente di più distante dal Paese interventista di soli pochi mesi dopo, in prima fila nel guidare il fronte delle sanzioni contro la Russia. E niente di più lontano dal protagonismo degli accordi di Minsk, con Berlino promotrice di una mediazione per evitare una nuova guerra ai confini dell’Unione.
Molti leggono questa centralità in chiave storica. L’Ucraina rientra tradizionalmente nelle priorità geopolitiche della Germania, sottolineano. Anche nei Balcani, altra regione d’interesse tedesco, è successo qualcosa di simile. Basti ricordare le due telefonate che la cancelliera Merkel ha fatto il giorno dopo gli incidenti avvenuti allo stadio di Belgrado, durante la delicatissima partita di calcio tra Serbia e Albania, nell’ottobre 2014. I fatti sono noti: una gara di qualificazione agli Europei interrotta per l’atterraggio in campo di un drone con la bandiera della Grande Albania, di fronte a decine di migliaia di tifosi serbi.
L’intento era esplicito: innescare una nuova bomba etnica nel cuore dei Balcani. Il tutto, peraltro, con una tempistica perfetta. Non soltanto la contestualità con la crisi aperta della Crimea o la questione irrisolta della Bosnia-Erzegovina, ma anche la strettissima attualità. Pochi giorni dopo, infatti, a Belgrado si sarebbero verificati due eventi di rilievo storico. In primo luogo, l’incontro tra i giovani e dinamici nuovi leader serbo e albanese: Aleksandar Vučić e Edi Rama. Sessantotto anni dopo l’unico bilaterale tra il generale Tito ed Enver Hoxha, finalmente si poteva tentare di stabilizzare le relazioni tra i due Paesi. Premessa, secondo molti osservatori, di un percorso pensato per portarli a essere, nel prossimo decennio, il ventinovesimo e il trentesimo Stato membro dell’Unione europea. Il secondo evento in agenda era la visita ufficiale di Putin, che avrebbe dovuto partecipare con tutti gli onori, come poi è avvenuto, alla parata militare nel centro della capitale serba.
La provocazione del drone poteva avere effetti deflagranti. Invece, l’incidente è stato gestito con saggezza dai protagonisti. Vučić e Rama hanno dimostrato di rappresentare una generazione che vuole lasciarsi alle spalle i drammi del passato. Ma il ruolo determinante lo ha svolto la Merkel. E lo ha fatto a nome dell’Europa. Nelle due telefonate ha chiarito a entrambi che l’Unione non avrebbe tollerato deviazioni pericolose. Tradotto: in caso di nuove tensioni, il percorso di avvicinamento alle istituzioni comunitarie sarebbe stato congelato. Sia la scelta del tempo sia le argomentazioni sono state opportune. E alla fine, non soltanto l’incontro si è svolto, ma per la più classica eterogenesi dei fini ha avuto un esito anche migliore di quello preventivato dalle rispettive cancellerie.
A questo punto, l’interrogativo è lo stesso di prima: c’è qualcosa in più della tradizionale sfera d’influenza tedesca, stavolta nei Balcani? Io credo di sì, credo che la spiegazione sia molto più articolata di quella suggerita da un’interpretazione di tipo meramente nazionale. Al contrario, mi persuado che entrambe le crisi (o meglio, le crisi sfiorate) possano fungere da apripista per un rinnovato impegno della Germania nella politica mondiale. Non mi stupirei, per inciso, di vedere tra pochi anni la stessa Merkel candidata al ruolo di segretario generale delle Nazioni Unite.
Suggestioni a parte, quella tedesca mi sembra oggi un’egemonia via via più consapevole, che induce Berlino ad agire direttamente, specie nei casi in cui manca un’azione diplomatica efficace dell’Europa comunitaria. E sarebbe fuorviante vedere in questa deriva un trionfo del modello intergovernativo. Piuttosto, è il completamento politico di una strategia a due binari: da una parte, appunto, un maggiore coinvolgimento diretto nelle materie ancora sostanzialmente appannaggio degli Stati membri, quali purtroppo sono la politica estera e di sicurezza; dall’altra parte, una progressiva e pianificata azione di radicamento della Germania a Bruxelles.
È quello che in Italia si è compreso meno. Ma è sufficiente analizzare quanto avvenuto lo scorso anno con la scelta delle nuove cariche europee. Si tratta di decisioni che incideranno sul prossimo lustro di vita dell’Unione. In termini più semplici, mentre la Germania dimostrava di guardare al quadro generale per difendere i propri interessi, costruendo un’Europa che le somigliasse, gli altri Paesi si sono concentrati prevalentemente soltanto sul proprio commissario. Con esiti più o meno proficui.
Il risultato è, comunque, un assetto complessivo che più favorevole a Berlino non sarebbe potuto essere. Penso in primo luogo alla nuova presidenza della Commissione o al presidente del Consiglio della Ue. Che a Bruxelles si parli sempre più tedesco è, poi, confermato dalla composizione dei gabinetti dei commissari. Metà di questi hanno, in una delle due posizioni di vertice, un funzionario tedesco, per l’appunto. Nessun altro Paese esprime una rappresentanza sia pure lontanamente paragonabile. Ma è una colpa, quella della Germania? Un affronto ai partner? Un’occupazione arrogante del potere? La mia risposta è netta: no, niente scorrettezze. Il punto è un altro. I gabinetti dei commissari sono per obbligo plurinazionali. La metà dei membri della Commissione ha scelto un tedesco nei ruoli apicali, ma nessuno ha obbligato nessuno. Perché, a incidere, è soprattutto la volontà di interagire al meglio con chi ha la parola finale sulle decisioni in Europa. Vale a dire, oggi, soprattutto con Berlino. Difficile contestare la congruità di questo ragionamento.
Che poi un simile epilogo sia non il frutto di un blitz nella notte, bensì l’acme di un percorso iniziato decenni fa, è cosa già raccontata. Ha cominciato Helmut Kohl negli anni Novanta. Tra le molte persone di straordinario valore che ho avuto il privilegio di incontrare nella vita, il cancelliere tedesco è, insieme a Jacques Delors, quello che più profondamente ha inciso sulla mia visione dell’Europa e anche della politica intesa come costruzione di futuro. E proprio una visione chiarissima del futuro dimostrò di avere Kohl in quegli anni, facendo sì che i tedeschi prendessero sul serio, sin da principio, Maastricht e la prospettiva dell’unificazione monetaria. Decisero di investire sull’Europa e sulle sue istituzioni con uno sguardo lungo, scegliendo e motivando le persone giuste. Tutto ciò che è avvenuto dopo e che avviene tuttora è la logica conseguenza di quell’approccio. Per fare l’esempio più eclatante, negli ultimi sette anni la Germania ha espresso continuativamente il presidente e il segretario generale del Parlamento europeo. Sempre tedeschi. Popolari o socialisti, poco cambia. Per avere un paragone, l’ultima volta che l’Italia ha guidato l’Europarlamento fu negli anni Settanta. Con Emilio Colombo.
Quella tedesca è evidentemente una strategia maturata per tempo, che ha potuto far perno su un bene preziosissimo di cui, come vedremo, l’Italia non ha mai potuto beneficiare. Cioè, sulla continuità garantita dalla longevità dei governi. E in Europa, vedremo anche questo, la stabilità e la serietà di lungo periodo pagano. Eppure, per quanto importante sia, tutto ciò non basta a restituire il senso di un problema che è culturale prima ancora che procedurale o amministrativo. La Germania, piaccia o meno, ha una sua idea di Europa. L’aveva quando Kohl concesse la moneta unica in cambio del «sì» all’unificazione tedesca. L’ha sostenuta per anni, contrastando ogni concessione parziale a una maggiore integrazione delle politiche economiche che non fosse accompagnata da un impegno vincolante alle riforme. E l’ha oggi. Che poi la stia rimodulando in questi mesi, in conseguenza della rivoluzione causata dalla crisi e dall’instabilità mondiale, è una mia opinione personale, che mi pare suffragata da molti indizi.
In Europa nessuno si salva da solo. Non so se tutti a Berlino l’hanno capito. L’importante ora, per noi europei, è spingere molto di più, anche con una dialettica dura, affinché questa egemonia nei fatti si metta responsabilmente al servizio dell’Europa. Il rischio, d’altra parte, è che le si ritorca contro. Che la corda infine si spezzi, con ripercussioni nefaste per tutti, anzitutto per la Germania. Gli elettori tedeschi – gli unici, tra quelli dei grandi Paesi, a non farsi troppo ammaliare dalla sirena dei populisti, soprattutto per via dell’impatto contenuto che la crisi ha avuto sulla loro vita – sono ancora riluttanti. La capacità di gestire questi umori e di indirizzarli verso un sostegno più attivo all’Europa comunitaria sarà forse il banco di prova più impegnativo per la Merkel dopo l’elezione al suo – storico – terzo mandato.
E noi? Le nostre classi dirigenti hanno questa stessa consapevolezza in merito all’indispensabilità dell’Europa? La mia risposta è no. Rimane l’attaccamento ai valori della Ue in una parte, oggi purtroppo minoritaria, della pubblica opinione. Ma il Paese nel suo complesso sta smarrendo la propria anima europeista. È il pericolo più grave che corriamo. Perché, se l’Italia smette di scommettere sull’Europa, se non consideriamo Bruxelles «casa nostra», se non investiamo da tutti i punti di vista sul nostro essere uno dei pilastri dell’Unione, semplicemente non ce la facciamo. Rischiamo di perdere i tantissimi vantaggi dell’integrazione e alimentiamo nei cittadini paure e pregiudizi.
Non si può essere timidi nella costruzione della Ue e poi lamentarsi della lontananza dell’Europa. Delle due, l’una. Non si può inseguire o essere blandi nei confronti dell’antieuropeismo e poi utilizzare Bruxelles come il più comodo degli alibi politici, lo scaricabarile per eccellenza. A questo proposito, bisognerebbe incidere sulla scrivania di ogni leader nazionale la scritta, ironica ma illuminante, che campeggiava sul tavolo di un presidente americano del dopoguerra: «The buck stops here». Un gioco di parole costruito sull’espressione idiomatica americana «pass the buck». All’incirca: lo «scaricabarile» finisce qui. All’incirca: con gli alibi, più in là di questa scrivania non si va.
Certamente non lo si può fare riversando pretesti sull’Europa. Nell’esercizio del mio ruolo ho cercato di far sì che per noi il tempo dello scaricabarile su Bruxelles finisse lì. Ho cercato di far capire che, sì, l’Italia era arrivata a un passo dal default, ma è stata in grado di tirarsene fuori da sola, di rimettersi in piedi senza chiedere un solo euro ai contribuenti europei. Che i sacrifici fatti per emendarci da errori ultradecennali andavano rispettati. Che siamo un grande Paese fondatore dell’Unione, contributore netto del bilancio comunitario. Che per noi l’adesione all’euro era e resta la scelta più lungimirante, dal dopoguerra in avanti.
Lo so bene: Maastricht non va di moda. Anzi, va di moda in senso uguale e contrario. Negli anni Novanta era la nostra grande missione collettiva. Ricordo l’entusiasmo e l’emozione con cui Romano Prodi, Walter Veltroni e Nino Andreatta accolsero Carlo Azeglio Ciampi quando portò a Palazzo Chigi i dati macroeconomici che certificavano l’idoneità italiana a entrare nel sistema della moneta unica. Ce l’avevamo fatta, contro ogni previsione. Oggi l’euro, e più in generale le regole di bilancio fissate per farne parte, funzionano benissimo come punchball su cui rovesciare tutte le frustrazioni di una stagione di depressione economica e debolezza politica. In questo Beppe Grillo e Matteo Salvini sono specialisti. Fossero soltanto loro, non ci sarebbe da preoccuparsi troppo. In fondo è una delle loro ragioni sociali. Ma quando è il leader del Partito democratico a dire che l’Europa è una massa di burocrati, allora sì, il problema è serio.
Quanto alla virtù di bilancio, credo che basterebbe studiare la storia, purtroppo rimossa, del debito pubblico italiano. In particolare nei suoi effetti perversi. Una quantità spaventosa di soldi pubblici letteralmente buttati per riparare alle scelte scriteriate fatte negli anni Settanta e Ottanta. Complessivamente, dal 1995 in poi, oltre mille miliardi di euro per gli interessi passivi sul debito. Risorse che gli altri Paesi investivano sulla crescita o sul welfare. E che noi siamo stati costretti a sacrificare per evitare di svegliarci un giorno e scoprire di essere uno Stato fallito.
Soprattutto qui va ricercata l’origine dei nostri problemi recenti. Con chi vogliamo prendercela? La causa è nei nostri errori come nazione, certamente non nell’Europa. Ma c’è di più: ancora i numeri raccontano come sia stato proprio grazie a Maastricht che l’Italia ha ricominciato un percorso virtuoso. Gli obblighi del Patto di stabilità hanno arrestato la crescita del debito nel rapporto con il Pil. E ciò, fino alla grande crisi degli ultimi cinque anni, quando il crollo della crescita ha purtroppo parzialmente complicato il percorso di rientro. Ma questo – pochi lo ricordano – è avvenuto per l’Italia in proporzioni minori rispetto a tutti gli altri principali Paesi europei. Il problema è che il nostro debito pregresso era talmente rilevante da compromettere pesantemente le capacità di recupero sul medio termine.
La storia non si fa con i se. Talvolta, però, non resisto. E mi chiedo: dove saremmo ora se non ci fosse stata Maastricht? È certamente un esercizio difficile. Tante sono le variabili che scoraggiano simulazioni di questo tipo. Tuttavia, qualche certezza l’abbiamo. È inopinabile, per esempio, che il nostro debito sia passato, dall’inizio degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta, da circa il 40 per cento a circa il 120 per cento in rapporto al Pil. Senza Maastricht, e perseverando con le politiche precedenti, oggi potremmo essere ampiamente sopra il 200 per cento del Pil.
Poco importa, sostengono alcuni. E teorizzano che quelle spese almeno generavano ricchezza, facevano girare l’economia e muovere il Paese. L’Italia si muoveva, sì, ma verso il baratro, e come in preda a una scellerata catena di Sant’Antonio. Una di quelle alla fine delle qual...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Andare insieme, andare lontano
  4. Introduzione
  5. I. Il sorpasso
  6. II. Chi ha paura della Germania
  7. III. Senza industria non è Italia
  8. IV. Aerei a terra
  9. V. Mare nostrum
  10. VI. Sul filo
  11. VII. Il valore delle parole
  12. VIII. La domanda di Pechino
  13. IX. La rivoluzione dell’homo relatus
  14. X. La saggezza dei contadini della Gallura
  15. Conclusioni. Una Scuola di politiche
  16. Copyright