Al cinema con il filosofo
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Al cinema con il filosofo

Imparare ad amare i film

  1. 228 pagine
  2. Italian
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Al cinema con il filosofo

Imparare ad amare i film

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Per gustarsi un buon film, la compagnia di un filosofo potrebbe sembrare una scelta bizzarra. Eppure, come si afferma in questo libro, risulta preziosa perché in grado di offrire un'inaspettata chiave di lettura, una lente capace di individuare, grazie agli specifici strumenti della filosofia, i concetti o le tesi portanti della pellicola, illuminando il film di luce nuova e collegandolo alla nostra esperienza personale. Trasformando, cioè, una fruizione solo passiva in un'interpretazione attiva e ricca di significati.

Questo vale non soltanto per pellicole «impegnate» o colte, ma anche per quelle senza pretese intellettuali, che, se sono autentiche e ben girate, traducono – per la natura propria del cinema – un'esperienza di pensiero in immagini. Ci restituiscono sempre, anch'esse, la sintetica visione talvolta del mondo che ci circonda, talvolta di quello dentro di noi.

Roberto Mordacci offre in queste pagine al lettore la sua esperienza di filosofo, qui a contatto con le immagini, le vicende, le provocazioni e i sogni che il cinema ha addensato in una quarantina di pellicole di recente produzione, presentate al pubblico all'incirca nell'arco di un anno.

Nella scelta dei titoli si va dal tema della guerra e del patriottismo di American Sniper, a quello del codice arcaico della vendetta in Timbuktu e Anime nere; dalla sete sfrenata di denaro di The Wolf of Wall Street a quella di giustizia di Perez; dalla ricerca di un riscatto personale del Giovane favoloso a quella della propria identità in Tutto sua madre, Birdman o Ida. Non mancano l'amicizia ( Ritorno a L'Avana ), l'amore ( Lettere di uno sconosciuto ), la musica come forza vitale ( Jersey Boys o Whiplash ), la salvezza del pianeta ( Il sale della terra ).

Di fronte a tanta ricchezza di tematiche la riflessione del filosofo nonché appassionato di cinema non potrà che trovare d'accordo anche il lettore, perché «grazie alle immagini» conclude l'autore «il cinema ci parla del nostro mondo e del nostro tempo» sia pure per via emotiva e intuitiva. «Ed è qui che gli strumenti millenari della filosofia diventano preziosi per far affiorare ciò che i film dicono in modo leggero e spontaneo.» Roberto Mordacci dal 2013 è preside della Facoltà di Filosofia dell'Università San Raffaele di Milano, dove insegna Filosofia morale. È autore, tra l'altro, di Rispetto (Cortina 2012) e L'etica è per le persone (Edizioni San Paolo 2015). Appassionato di cinema, conduce su TgCom24 la rubrica «Al cinema con il filosofo».

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Informazioni

Parte settima

UNA REPUBBLICA DI MOLTE ANIME

XXIII

Tutto sua madre

TITOLO ORIGINALE: Les garçons et Guillaume, à table!
REGIA: Guillaume Gallienne
INTERPRETI PRINCIPALI: Guillaume Gallienne, André Marcon, Françoise Fabian, Nanou Garcia, Diane Kruger, Reda Kateb, Götz Otto, Brigitte Catillon, Carole Brenner, Charlie Anson, Yvon Back, Renaud Cestre, Oscar Copp, Pierre Derenne
ANNO: 2013
PRODUZIONE: Francia, Belgio
NOTE: Premio César 2014: Miglior film, Miglior attore protagonista a Guillaume Gallienne, Miglior adattamento a Guillaume Gallienne, Miglior montaggio a Valérie Deseine, Miglior opera prima a Guillaume Gallienne
TRAMA: Guillaume (Guillaume Gallienne) è un ragazzo sensibile e particolare. Molto attaccato alla madre, ne imita movenze e atteggiamenti e, nella solitudine della sua stanza, talvolta si veste da donna. Sembra attratto da un compagno di studi, ma non riesce veramente a esprimere se stesso, forse oppresso dalle aspettative materne e dallo stesso riconoscimento, da parte di tutta la famiglia, della sua presunta omosessualità. Gallienne porta al cinema la propria opera teatrale autobiografica, interpretando le due figure chiave della ricerca identitaria del protagonista, se stesso e la madre, laddove a teatro aveva interpretato tutti i personaggi. Nel confronto con l’immagine che gli altri si sono fatti di lui, Guillaume scopre a poco a poco chi è.
Si tratta, come spesso accade con i film messi in scena da attori della Comédie Française, di un film molto teatrale. Guillaume Gallienne ha scritto una pièce autobiografica nel 2008, nella quale racconta la sua formazione e la sua crescita personale, segnata da una tensione molto profonda circa la sua identità.
Tutta la famiglia si convince che Guillaume sia omosessuale, convincendone lui stesso attraverso una serie sistematica di atteggiamenti e persino di scelte linguistiche. Non a caso, il titolo originale della pièce francese è Les garçons et Guillaume, à table! («I ragazzi e Guillaume, a tavola!»). Come a dire: ci sono i «ragazzi», vale a dire i fratelli maschi, e «Guillaume», che è un’altra cosa, un’entità a parte non inscrivibile nel genere «ragazzi».
La pièce in teatro era impegnativa anche dal punto di vista della recitazione: Gallienne – che è comunque un attore di grande maestria e presenza scenica – interpretava se stesso, sua madre e tutti gli altri personaggi, mentre al cinema si limita ai primi due ruoli.
Gallienne mette così su pellicola il dramma dell’identità personale, in particolare per come viene definita attraverso le preferenze sessuali, e mostra due cose essenziali: anzitutto che anche queste ultime subiscono in maniera profonda l’influenza delle aspettative degli altri, specialmente in famiglia; e, in secondo luogo, che tali preferenze sono in parte plasmabili, come in realtà è plasmabile, almeno in un certo grado e nonostante la genetica e i tratti originari di personalità, la nostra individualità personale.
In altri termini, chi siamo è una questione a cui contribuiscono vari fattori: certamente la natura, la psiche per come si plasma nei primissimi mesi di vita, ma anche l’ambiente, la sua pressione su di noi e, ultima ma non meno importante, la nostra libertà, che definisce in maniera unica proprio il senso complessivo che questi elementi, che in qualche modo ci precedono, hanno nella nostra identità reale, nella modalità in cui, almeno in parte intenzionalmente, definiamo noi stessi. Potremmo dire che l’individualità personale è, in senso lato, piuttosto plastica, cioè mutevole in base non solo agli agenti esterni, ma anche per effetto della nostra consapevolezza e della nostra capacità di plasmarci deliberatamente.
Naturalmente, nel definirci conta molto lo sguardo di chi ci osserva, in particolare quello dei genitori o del genitore la cui influenza su di noi è più forte, in questo caso evidentemente la madre. Nel primo tentativo di definirsi, dunque, ha peso anzitutto ciò che gli altri vogliono che noi siamo, anche se questo specchio che sono gli altri non può forzarci oltre una certa misura. Come sappiamo, la vita del personaggio Guillaume è la vita dell’autore, e l’autobiografia è il genere letterario d’elezione per il tema dell’identità.
In entrambi i ruoli Gallienne è lucido e spietato, anche con se stesso. La sua identità, che aderisce alle proiezioni familiari, inizialmente non è nemmeno propriamente un’identità omosessuale: Guillaume si vede come una ragazza, vede in sé solo il femminile e lo proietta su tutto se stesso. Quindi, diventa per lui naturale, per esempio, innamorarsi di un uomo. Il punto è che questa condizione, che è reale per Guillaume, si scontra con un’altra condizione reale: quella di avere reazioni non conformi a tale identità, creando così un senso di inadeguatezza che va soprattutto nella direzione più paradossale, quella di non essere all’altezza della propria «femminilità». Questa è l’identità attesa e non saperla praticare o trovarsi in difficoltà nel farlo è una fonte di disagio, di conflitto e di confusione.
Va da sé che il punto nodale è il rapporto con la madre, che giustamente Gallienne ritiene così fusionale da mantenere il duplice ruolo sulla scena. Il desiderio della madre di avere una figlia, dopo gli altri figli maschi, è talmente forte da farle proiettare in maniera incontrovertibile quell’identità su Guillaume. La maschera dell’omosessualità ha la funzione di rendere accettabile in termini sociali una forzatura che sarebbe ben più radicale, secondo i desideri materni: un cambiamento di sesso, o meglio ancora una radicale negazione e ridefinizione dei tratti naturali.
Tale volontà, d’altra parte, si intreccia – come ci dice Guillaume stesso – con il desiderio del ragazzo di essere diverso dai suoi fratelli, in un senso vago e indefinito, ma che è ovvio e naturale: ogni definizione di sé avviene per differenza e non ci sarebbe individualità personale se non attraverso la complessa dialettica di identificazione (con l’immagine assegnataci) e diversificazione (la definizione di un’identità che smentisca almeno in parte quell’immagine e di cui sentirci, proprio per questo, gli unici autori).
Le aspettative condivise dalla famiglia plasmano così i bisogni (sì, anche questi, al di là di quelli più elementari, sono in parte plasmati e non innati), le aspirazioni e la ricerca di un riconoscimento reciproco e accettato.
L’identità che così si costituisce è fittizia, ma assolutamente reale per Guillaume, che non conosce di sé altro lato che questo: perché ciò che sappiamo realmente di noi è ciò che ci rimanda lo specchio degli altri. A meno che non si inizi un percorso di personalizzazione autentica del sé, di ricerca e di esperienza che, mantenendo il contatto con i diversi elementi che costituiscono la «materia» di cui siamo fatti, ne faccia un’architettura più complessa e soprattutto unica, frutto di un’adesione originaria con la propria capacità creativa, anzi più precisamente autoriale: essere autori di se stessi è l’essenza della sfida morale rivoltaci dalla vita e questo compito si gioca a partire dai tratti originari (genetica, ambiente, tratti di personalità, occasioni, storie), ma sempre con il concorso delle nostre scelte libere, della volontà di essere qualcuno o, meglio, della volontà, come diceva Nietzsche, di «divenire ciò che si è».
Guillaume ha modo di sperimentare, e anche di definirsi progressivamente, in alternativa alle aspettative che lo circondano, formando un’identità per lui autenticamente personale, propria, che scioglie la fusione con la pervicace e plagiante volontà materna.
Nel raccontare la difficile storia di costruzione di sé, il film ha il grande merito di essere profondo e insieme leggero. La sceneggiatura e i dialoghi sono brillanti, ci sono diverse situazioni comiche ma, al tempo stesso, non è una farsa (come si è visto malamente nei troppo superficiali film su «vizietti» e travestimenti) e per fortuna non è nemmeno una tragedia.
È un film che deve molto a Molière, a quella sua capacità di parlare – come avviene nel suo Don Giovanni – di un tema profondo senza sconti all’intelligenza, con autenticità e sincerità, ma senza calcare sui toni drammatici. Per esempio, sullo scontro, infine inevitabile, fra Guillaume e la madre o fra lui e i fratelli. Nonostante il travestimento, e nonostante il gioco d’artificio della recitazione, Gallienne riveste ogni cosa di intelligente leggerezza e ci consente di vedere la questione finalmente in modo pulito, senza volgarità, senza ammiccamenti, con un sano realismo, appena alleggerito rispetto alle tensioni più forti.
Questo realismo è ciò che appare infine più importante per la coscienza contemporanea: persino un tema così scivoloso come l’identità sessuale può essere trattato con verità senza apologie né condanne, ma aderendo a un’esperienza umana autentica. La realtà, possiamo dire, non esagera, e il tono leggero dice sostanzialmente questo: guardare in faccia la realtà, in particolar modo a riguardo di quel che siamo, è un’esperienza liberante, è un percorso a un tempo di emancipazione e di personalizzazione. Un realismo non depresso libera le persone, offre finalmente loro la possibilità di essere coloro che decidono di essere.
XXIV

Frances Ha

TITOLO ORIGINALE: Frances Ha
REGIA: Noah Baumbach
INTERPRETI PRINCIPALI: Greta Gerwig, Mickey Sumner, Adam Driver, Michael Zegen, Patrick Heusinger, Charlotte D’Amboise, Teddy Cañez, Hannah Dunne, Barbara Ross English, Grace Gummer, Cindy Katz, Maya Kazan, William Todd Levinson
ANNO: 2012
PRODUZIONE: Usa
TRAMA: Frances (Greta Gerwig) è una giovane donna che abita a New York. È una ballerina non particolarmente talentuosa e divide l’appartamento con la migliore amica Sophie (Mickey Sumner), con la quale vive quasi in simbiosi. Quando improvvisamente Sophie decide di andare a vivere con il fidanzato, Frances è smarrita. Perduto anche il lavoro come insegnante di ballo, si trova a dover cercare una nuova identità e a doversi pensare per la prima volta come adulta e indipendente. Un po’ goffa, un po’ ingenua, mai molto brillante, Frances attraversa la città in bianco e nero, facendo nuove conoscenze e tentando nuove strade.
Frances Ha è la storia in bianco e nero, tenera, allegra e scanzonata di una ragazza newyorkese, che in qualche modo si arrabatta per vivere: fa la ballerina ma non ha successo e, anzi, la scuola per la quale lavora a un certo punto non le offre più un impiego; non ha una casa propria – vive in affitto con la sua migliore amica – e ciò che per lei è decisamente importante sono le relazioni personali, in particolar modo proprio il rapporto con l’amica di sempre, Sophie.
È proprio questa relazione amicale quella che offre il senso più pieno alle sue giornate, che sugli altri fronti sono scialbe e superficiali. È sempre a Sophie che Frances guarda, per sapere come sentirsi, cosa pensare e come vivere; ma, nel contempo, Sophie sfugge, ha la sua vita, non ha sviluppato quel genere di dipendenza identitaria. Per questo, Frances è infine costretta a staccarsi da lei e a cercare di definirsi un’identità autonoma e finalmente adulta.
In questo film indipendente, ben girato, accurato, sia pure con qualche lentezza, ma ben costruito, tutto ruota intorno al personaggio creato da Greta Gerwig, che non solo interpreta la protagonista, ma ha scritto la storia con il regista Noah Baumbach.
Questo genere di film viene oggi definito mumblecore: pellicole a basso costo (questo è il senso associato alla parola core nel cinema) di genere riflessivo ma senza pretese (to mumble è, letteralmente, «rimuginare», ma con una certa leggerezza). Sono film che raccontano relazioni, persone, storie individuali di giovani adulti, per lo più di trentenni in città multiculturali e difficili da vivere sotto il profilo economico. È senz’altro uno specchio del mondo contemporaneo, di una generazione con poche illusioni e molte difficoltà.
Tuttavia, c’è una grande differenza fra questi film americani e pellicole in parte simili (trentenni senza lavoro o in condizioni disagiate) che provengono dal nostro paese, nelle quali il registro è invariabilmente l’ironia (l’inestirpabile condanna del cinema italiano, quella di dover gettare sempre tutto in commedia) e che talvolta sono anche un buon quadro sociale, sia pure solitamente di periferia, come accade – per fare un esempio recente – nel divertente Arance e martello di Diego Bianchi (2014).
Ora, mentre nei film nostrani tutto rimane gattopardescamente immobile nonostante le ansie di rivoluzione, e si finisce per piangersi addosso per la perdita delle presunte certezze del passato (il posto fisso, il mercato rionale, le nostalgie politiche – le stesse da cinquant’anni anche per i trentenni), nei mumblecore americani accade invece che la mobilità, il cambiamento, l’individualità siano percepiti non senza scosse, ma alla fine come opportunità, come aperture e sfide nelle quali si può riporre una certa speranza.
Frances è in grado di muoversi in avanti. Non è ovviamente una mobilità ideologica, non pretende di fare rivoluzioni; questa giovane donna è scombiccherata ed è in qualche modo goffa persino nel danzare, che è il suo mestiere; ma è una mobilità che ha uno sbocco, che definisce un’identità, che vede un futuro, anche se non è quello che lei immaginava. Frances accetterà un lavoro da segretaria, ma al tempo stesso avrà il tempo di costruire la sua piccola coreografia, il suo piccolo lavoro creativo. Il segnale da raccogliere, qui, è la forza, decisamente meno imponente ma sottilmente invincibile, della mentalità americana, anche dopo la fine di molti sogni. Frances abita una cultura che non è ripiegata rancorosamente sul proprio passato, che certamente riflette e si scontra, ma non si ferma.
Il bianco e nero in Europa è profondità, densità ed è lentezza, meditazione appesantita (si pensi a Ida). Qui, al contrario, è velocità, allegria e leggerezza. Il bianco e nero americano serve a raccontare storie minori (come accade paradigmaticamente in Manhattan di Woody Allen e, più di recente, in Nebraska di Alexander Payne). Qui si racconta una storia non particolarmente eroica, ma di un’identità riuscita o quanto meno in costruzione, con la fiducia di potersi definire in modo da riconoscersi in ciò che si è diventati.
La tenacia di Frances è un segno esistenziale e sociale, che non bisogna sottovalutare: non ha grande cultura né genio, però trova una strada e in questo è grandemente aiutata dal contesto. In questa America, qui rappresentata nelle zone meno alla moda, qualche possibilità si trova sempre, ma soprattutto non ci si è incartati in una paralisi mentale che impedisce ogni futuro. Non è soltanto che in quel paese le possibilità ci sono, persino nel pieno della crisi. Piuttosto, si tratta del fatto che chi vive in quel contesto mentale (più che una cultura, è uno stato della mente) è sostenuto e accolto nel credere che si possano aprire nuove possibilità: questa è forse l’identità essenziale dell...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. AL CINEMA CON IL FILOSOFO
  4. Introduzione. Pensare con lo schermo
  5. Parte prima - EPICA CONTEMPORANEA
  6. Parte seconda - IL BENE, IL MALE, IL SECOLO
  7. Parte terza - FAMIGLIA O LIBERTÀ
  8. Parte quarta - AHI SERVA ITALIA, DI DOLORE OSTELLO
  9. Parte quinta - VALORI CORTESI
  10. Parte sesta - SENZA MUSICA LA VITA SAREBBE UN ERRORE
  11. Parte settima - UNA REPUBBLICA DI MOLTE ANIME
  12. Parte ottava - L’AMORE E LA TECNICA
  13. Parte nona - KRISIS E RESPONSABILITÀ
  14. Parte decima - GIUSTIZIA OLTRE L’UTOPIA
  15. Conclusioni. Se tutto è perduto, tutto è salvo
  16. Note
  17. Copyright