Ideologia è parola nuova: risale a meno di due secoli fa. Rivoluzione è parola più antica, ma fino alla Gloriosa Rivoluzione inglese del 1688-89 era usata soltanto nel significato astronomico di moto costante e ricorrente, di movimento circolare (la rivoluzione dei pianeti intorno al sole). E, in verità, nemmeno la Gloriosa Rivoluzione fu «rivoluzione» nel significato attuale del termine. Cominciò come un’invasione, chiamata e non contrastata, di Guglielmo d’Orange, e fu quasi soltanto una «rivoluzione costituzionale» che legalizzò, nella Camera dei Comuni, la fine dell’assolutismo e segnò l’inizio della monarchia parlamentare.
Semmai fu una vera rivoluzione (nella nostra prospettiva) la prima, quella di Oliver Cromwell e dei suoi «santi in armi» puritani negli anni 1644-60. Cromwell fece decapitare Carlo I, insediò una repubblica (Commonwealth) e ne divenne Lord Protettore. Eppure, quella di Cromwell non venne detta da nessuno «rivoluzione».
Per arrivare alla prima vera rivoluzione che si dichiarasse tale bisogna aspettare il 1789, e nel dichiararsi tale la Rivoluzione francese rovesciò il significato astronomico del termine: «rivoluzione» non era più un movimento ritornante ma, all’opposto, un urto dirompente. Da allora la parola rivoluzione indica una «rottura», e precisamente un assalto-conquista «dal basso» del potere che, poi, ristruttura il potere.
Beninteso, la storia abbonda di sommosse e di rivolte popolari, ma non erano rivoluzioni perché non erano alimentate da un disegno, mancavano di «progetto»: erano esplosioni e basta. Del pari, la storia è colma di colpi di Stato e di rivolte di palazzo, che però non riteniamo rivoluzioni perché «senza masse». Dunque, per rivoluzioni intendiamo oggi sollevazioni popolari mobilitate da idee e da ideali che prefigurano un «nuovo ordine». Pertanto, la Rivoluzione francese fu un nuovo tipo di evento registrato e trascritto in un nuovo concetto.
Fin qui tutti possono convenire. Ma il marxismo è man mano riuscito a interpolare nella nozione di rivoluzione due aggiunte. La prima è che le rivoluzioni che non sono «di sinistra» non sono vere rivoluzioni. Ne deriva, quindi, che solo le rivoluzioni marxiste, le rivoluzioni di matrice comunista, erano e sono effettivamente tali. Tuttavia, nel 1989 quasi nessuno si è azzardato a sostenere che le rivoluzioni nei paesi dell’Est che hanno abbattuto i regimi comunisti erano controrivoluzioni, rivoluzioni reazionarie. La «sinistrizzazione» del concetto si è così dissolta. Parce sepulto.
La seconda aggiunta è, invece, seria. Intuitivamente, rivoluzione sta per evento rivoluzionario, e cioè per un insieme circoscritto di accadimenti: l’attacco dal basso, una sequela di atti di forza e di violenze, e infine la ristrutturazione del sistema di potere. Diciamo che questa è la definizione «politica» di rivoluzione. Il marxista la estende.
Per lui, la rivoluzione non si conclude con la conquista del potere e l’impianto di un nuovo ordine politico; per lui, la «vera rivoluzione» deve anche impiantare un nuovo ordine economico-sociale. La definizione marxista di rivoluzione è, dunque, una definizione onnicomprensiva: politica ma, in più, sociale. A prima vista, l’aggiunta convince. In passato, anch’io ho ritenuto che di rivoluzione si potevano dare due definizioni, una stretta (politica e circoscritta) e l’altra onnicomprendente (economico-sociale), a condizione che venissero tenute distinte e impiegate appropriatamente. Ma, in questo modo, mi sfuggiva – ritengo ora – il veleno nascosto nella coda.
La rivoluzione «allargata», e cioè intesa in senso lato, è in sostanza una rivoluzione senza scadenza. La definizione politica di rivoluzione configura, invece, un evento che deve finire e che finisce (esattamente come le guerre) in un momento precisabile: la sconfitta del vinto e la vittoria del vincitore. Per contro, la definizione onnicomprensiva configura una rivoluzione che non finisce mai, e quindi approda alla teoria della rivoluzione permanente. Se la rivoluzione deve rifare tutto, e alla fin fine deve rifare anche l’uomo, allora può dover continuare all’infinito, o comunque ad indefinitum.
Il punto non è – si badi – se le rivoluzioni abbiano, non abbiano o debbano avere una prosecuzione economico-sociale. È abbastanza ovvio che, nel fatto, è sempre così. Nel fatto non si è mai visto che una rivoluzione si sia fermata e racchiusa all’interno del palazzo che ha conquistato (se fosse così, si esaurirebbe nell’essere un colpo di palazzo). E passerò anch’io a sostenere, tra poco, che la parte importante delle rivoluzioni è cosa producono dopo, a evento rivoluzionario concluso. Il punto è, allora, se l’intervento economico-sociale del regime insediato dalla rivoluzione debba ancora avvenire con «metodi rivoluzionari», al prezzo di tutti i morti ammazzati che fa comodo ammazzare (senza fine).
È davvero importante, allora, distinguere tra rivoluzione e dopo, e limitarsi alla definizione stretta e puntuale di rivoluzione. Se la demarcazione tra evento rivoluzionario e governo post-rivoluzionario (a rivoluzione vinta e Stato rifatto) è cancellata, la «rivoluzione continua» diventa la giustificazione della «dittatura continua». Tante grazie, ma proprio no. Per quanto si voglia insistere a sostenere che la rivoluzione politica è una rivoluzione «incompleta», il punto è – ripeto – che la continuazione della rivoluzione nel contesto economico-sociale non deve avvenire con i metodi violenti dell’atto rivoluzionario. Altrimenti la rivoluzione si autodistrugge: tanto più diventa permanente (e quindi violenza che continua), tanto più divora i propri figli o, meglio, i figli che avrebbe potuto avere. L’emblema della rivoluzione comunista è il mito di Saturno.
Finora ho precisato la definizione di rivoluzione. La «cultura della rivoluzione» attende, invece, all’esaltazione della rivoluzione. Fino alla metà del XX secolo l’idea che la violenza fosse «buona» era, se c’era, un’idea di piccole sette di cospiratori. L’idea generale (dei rivoluzionari) era che la rivoluzione era necessaria e che la violenza ne era, purtroppo, un risvolto inevitabile. Ma in quegli anni, in Occidente, esordivano generazioni di giovani per le quali non c’era mai stata fame, guerra né, tantomeno, rivoluzione, e cioè autentica esperienza sulla propria pelle di violenza e di morte. Erano anche, e forse proprio per questo, generazioni idealistiche, facilmente convertibili al perfezionismo democratico.
Il perfezionista ritiene che gli ideali siano da realizzare alla lettera. Quando avverte che, a forzarli, producono esiti invertiti, la sua ricetta è soltanto di rincarare la dose, di esagerarli. E, al cospetto dell’inevitabile insuccesso, si innesca un vortice vizioso. Alla fine, il perfezionista si ritrova rivoluzionario. L’esistente è intrinsecamente malvagio, e per estirpare il male dal mondo occorre frantumarlo e creare un nuovo mondo ab imis fundamentis. A questo impulso, a questa rabbia, la cultura della rivoluzione fornisce l’alibi intellettuale: l’idea che nulla cambia (sul serio) senza violenza e, congiuntamente, l’idea che la rivoluzione è in sé stessa atto creativo.
La gravità della tesi che senza violenza non ci può essere «cambiamento radicale» non deve sfuggire. Che la storia grondi di violenza e di sangue è purtroppo vero. Ma l’elogio della violenza, l’idea che la violenza sia non solo necessaria ma anche salvifica, non precede le Riflessioni sulla violenza di Georges Sorel. Osserva esattamente Sergio Cotta: «Il fatto veramente caratteristico del nostro tempo è l’esaltazione della violenza. Fino al XIX secolo non si trova traccia consistente di tale esaltazione» (Perché la violenza? Una interpretazione filosofica, 1978). Se talvolta si insegnava a usarla, infatti, è perché si pensava che in alcune circostanze si trattasse di un male necessario, non certo di un bene. Così pensava anche Machiavelli. Si possono, è vero, trovare nel passato non poche esaltazioni della forza, ma si tratta, appunto, della forza e non già della violenza.
Siccome l’esaltazione della violenza pareggia violenza e forza, importa che la distinzione sia riaffermata. Si capisce che la forza, o meglio l’uso della forza, può trapassare in violenza, ma come il ghiaccio che si scioglie diventa acqua, del pari la forza che si tramuta in violenza diventa violenza.
Violenza è brutale far male; la forza, di per sé, no. La forza comanda, impone e sottopone; la violenza aggredisce, ferisce, distrugge. La forza è una vis coactiva compatibile con lo stato di pace; la violenza caratterizza lo stato di guerra. Lo Stato che mi impone le sue leggi e che, se le violo, mi arresta, rinvia a giudizio e condanna (con corretti procedimenti giudiziari) è «forza», mentre un aggressore che mi punta un coltello al ventre, l’assassino che mi ammazza, o una folla che mi lincia, sono «violenza». Forza e violenza sono, dunque, la stessa cosa? Negli anni Sessanta-Settanta è stata tutta una nobile gara per rispondere di sì, per annebbiare la distinzione.
Si è cominciato dal mal tradurre, o comunque mal intendere, Max Weber. La sua notissima definizione dello Stato ne fa il titolare del «monopolio dell’uso legittimo della forza fisica». Ammettiamo che la traduzione possa anche essere «monopolio dell’uso legittimo della violenza». Anche così, come si fa a ignorare la qualificazione di «uso legittimo»? Uso legittimo è subordinazione della forza e/o della violenza allo Stato di diritto e alla giuridicizzazione della politica. Rifarsi a Weber per fargli dire che lo Stato è violenza è una macroscopica forzatura che rivela un’ancora più stupefacente ignoranza di quanto la condizione umana sia debitrice della civiltà di diritto. Ma la distorsione della teoria weberiana è soltanto l’inizio.
L’immagine del «mondo come violenza» viene diffusa in tutte le case passando attraverso due finestre. Da un lato, si inventa la violenza che non si vede e non si sente, una violenza latente e onnipresente. Chi ha mai detto che la violenza richieda violenti e violentatori? Johan Galtung (Essays in Peace Research, 1975) ci fa scoprir...