Furia
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Furia

  1. 350 pagine
  2. Italian
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Informazioni sul libro

Malik Solanka, storico delle idee in pensione e irascibile fabbricante di bambole, un giorno cambia radicalmente vita, abbandona la famiglia e fugge a New York. Sente una furia agitarsi dentro di sé e teme di diventare un pericolo per quelli che ama. Sbarca a Manhattan nel momento in cui l'America è al vertice della sua onnivora potenza. Solanka cerca pace, ma tutto quel che lo circonda sembra ugualmente dominato da una furia: battibecchi e litigi, meschinità e risentimenti percorrono la metropoli da un capo all'altro. E i sentimenti del protagonista, le sue emozioni e i suoi desideri, diventano travolgenti, sfrenati, folli. Ma nel suo destino ci sono due donne: un'attivista che vuole salvare l'umanità e una bellissima Venere bruna che gli fa conoscere un'altra furia, lontano, in un diverso angolo del mondo. Furia è un romanzo di esplosiva energia, una grande, cupa e divertita discesa nei lati più oscuri della natura umana. Ma è anche uno strepitoso ritratto di New York e insieme una travolgente storia d'amore.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852064777

PARTE SECONDA

8

Le prime bambole, i piccoli personaggi che aveva creato quando era più giovane per popolare le case che aveva progettato, le intagliava con acribia in blocchi di legno tenero, abiti e tutto, e poi le pitturava, le vesti a colori vivaci e i visi pieni di dettagli piccoli ma significativi: qui una gota femminile gonfia per insinuare il sospetto di un mal di denti, là un ventaglio di zampe di gallina agli angoli degli occhi di qualche buontempone. Da quei lontani inizi il suo interesse per le case era venuto meno, mentre i personaggi che faceva crescevano di statura e di complessità psicologica. Oggi nascevano come figurine di creta. La creta con cui Dio, che non esisteva, aveva fatto l’uomo, che esisteva. Ecco il paradosso della vita umana: il suo creatore era fittizio, mentre la vita stessa era una realtà.
Solanka pensava alle sue bambole come a persone vere. Quando le faceva, per lui non erano meno reali di tutte le altre persone che conosceva. Una volta create, però, una volta conosciute le loro storie, era felice di lasciarle andare per la loro strada: altre mani potevano manipolarle per la telecamera, altri artigiani potevano colarle in uno stampo e riprodurle. Il personaggio e la storia: non gli interessava altro. Tutto il resto era solo un gioco.
L’unica delle sue creature di cui s’innamorò – l’unica che non volle far toccare da nessuno – gli avrebbe spezzato il cuore. Era, naturalmente, Cervellino: prima una bambola, poi una marionetta, poi un cartone animato e infine un’attrice o, in vari altri momenti, l’ospite di un talk show, una campionessa di ginnastica, una ballerina o una top model vestita come Cervellino. La sua prima serie in seconda serata, da cui nessuno si aspettava granché, era stata realizzata più o meno esattamente come voleva lui. In quel programma ideato un po’ come una macchina del tempo, Cervellino era il discepolo, e i veri eroi erano i filosofi che incontrava. Dopo il passaggio al prime time, però, i direttori del canale gettarono sulla bilancia tutto il loro peso. Il format originario venne giudicato troppo intellettuale. Cervellino era la star, e si decise che il nuovo show doveva essere costruito intorno a lei. Invece di viaggiare in continuazione, Cervellino aveva bisogno di una sede e di un cast di personaggi ricorrenti con i quali dialogare. Aveva bisogno di uno spasimante, o meglio ancora di una serie di pretendenti, cosa che avrebbe permesso ai giovani attori sulla cresta dell’onda in quel momento di essere gli ospiti d’onore nel suo show, senza vincolare lei. Soprattutto aveva bisogno di buoni dialoghi: dialoghi intelligenti, dialoghi intelligenti e spiritosi, sì, ma l’importante era che ci fossero molte risate. Magari anche preregistrate. Si sarebbe potuto affiancare, anzi, si sarebbero sicuramente affiancati a Solanka degli sceneggiatori per aiutarlo a sviluppare la sua idea per il grande pubblico con cui ora essa sarebbe venuta in contatto. Era questo che voleva Solanka, no? Raggiungere le masse. Se un’idea non si evolveva, moriva. Questi erano i fatti della vita televisiva.
Così Cervellino si trasferì in Via Cervello a Cervellopoli, con un’intera famiglia e una squadra di Cervelli per vicini: aveva un fratello maggiore che si chiamava Cervellone, in fondo alla strada c’era un laboratorio scientifico che si chiamava Fuga dei Cervelli, e tra i vicini c’era addirittura un laconico divo dello schermo protagonista di innumerevoli western (John Brayne).1 Era doloroso, ma più scendeva il livello dello show, più salivano gli indici di ascolto. Via Cervello cancellò in un minuto il ricordo delle Avventure di Cervellino e si preparò a una carriera lunga e redditizia. A un certo punto Malik Solanka si piegò all’inevitabile e lasciò il programma. Ma mantenne il proprio nome nei titoli di testa, si assicurò che i suoi “diritti morali” fossero tutelati e incamerò una bella fetta degli utili derivanti dallo sfruttamento dell’immagine della sua creatura. Lui non poteva più guardarlo, il programma. Ma Cervellino sembrava felicissima di vederlo andare via.
Aveva superato il suo creatore – letteralmente: era a grandezza naturale, adesso, e di parecchi centimetri più alta di Solanka – e proseguiva per la sua strada. Come Occhio di Falco o Sherlock Holmes o Jeeves, aveva trasceso il lavoro che l’aveva creata e raggiunto la versione romanzesca della libertà. Ora reclamizzava prodotti alla televisione, inaugurava supermarket, teneva discorsi ai banchetti, presentava spettacoli di dilettanti. Quando Via Cervello ebbe fatto il suo corso, Cervellino era diventata una personalità televisiva completa. Ebbe il proprio talk show, fece delle comparsate in nuove commedie di successo, sfilò in passerella per Vivienne Westwood e fu attaccata, per avere degradato le donne, da Andrea Dworkin – «le donne intelligenti non devono essere bambole» – e, per avere castrato gli uomini, da Karl Lagerfeld («quale vero uomo vorrebbe una donna con un… diciamo, vocabolario più grosso del suo?»). Dopodiché i due critici accettarono immediatamente, riscuotendo fior di compensi per la consulenza, di aggregarsi al concept group che si occupava di Cervellino, una squadra che alla Bbc era nota come il Trust dei Cervellini. Il primo film per ragazzi di Cervellino, Colpo di genio, fu un grosso passo falso e un fiasco disastroso, ma il primo volume delle sue memorie (!) andò in testa alle liste dei bestseller di Amazon appena ne fu annunciata l’uscita, mesi prima della pubblicazione, totalizzando più di un quarto di milione di copie vendute solo grazie alle prenotazioni di isterici ammiratori decisi a essere i primi della fila. Dopo la pubblicazione batté tutti i record; seguirono un secondo, un terzo e un quarto volume, uno all’anno, volumi che vendettero, secondo la stima più prudente, cinquanta milioni di copie in tutto il mondo.
Era diventata la Maya Angelou del mondo delle bambole, un’autobiografa instancabile come l’altro uccello in gabbia,2 la sua vita il modello per milioni di giovani – i suoi umili inizi, i suoi anni di lotta, i suoi trionfali successi; e… oh, il suo coraggio davanti alla miseria e alla crudeltà! Oh, la sua gioia quando il Fato la volle tra gli Eletti! – tra i quali la stessa controllatissima imperatrice della 70ma Strada Ovest, Mila Milo, era orgogliosa di annoverarsi. (La sua vita non vissuta! pensava Solanka. La sua storia fittizia, in parte fiaba alla Dungeons & Dragons, in parte saga di ghetto miserabile, e tutta scritta per lei da anonime persone di fantomatico talento! Questa non era la vita che Solanka aveva immaginato per Cervellino; questo non aveva niente a che fare con la storia del suo passato che lui aveva inventato per il proprio orgoglio e per la propria gioia. Questa Cervellino era un impostore, con la storia sbagliata, i dialoghi sbagliati, la personalità sbagliata, il guardaroba sbagliato, il cervello sbagliato. In qualche posto di medialandia c’era uno Chateau d’If in cui era tenuta prigioniera la vera Cervellino. In qualche posto c’era una Bambola con la Maschera di Ferro.)
La cosa straordinaria della sua base di ammiratori era la cattolicità: i ragazzi l’apprezzavano quanto le ragazze, gli adulti quanto i bambini. Cervellino varcava tutti i confini, di lingua, di razza e di classe. Diventava, variamente, l’amante o la confidente o la meta ideale dei suoi ammiratori. Il suo primo libro di memorie era stato originariamente inserito da quelli di Amazon nelle liste della non-fiction. La decisione di spostarlo, quello e i volumi successivi, nel mondo della fiction, cioè della finzione, fu osteggiata sia dai lettori che dal personale. Cervellino, sostenevano, non era più un simulacro. Era un fenomeno. La bacchetta magica l’aveva toccata, e lei era diventata vera.
A tutto ciò Malik Solanka assistette da lontano con orrore crescente. Questa figlia della sua immaginazione, nata dalla parte migliore di se stesso e dalle sue più pure aspirazioni, stava trasformandosi sotto i suoi occhi in quel genere di mostro di pacchiana celebrità che più profondamente lui aborriva. La sua Cervellino originaria, ora cancellata dalla faccia della terra, era stata davvero intelligente, capace di tener testa a Erasmo o a Schopenhauer. Era stata una bambola bella e mordace, ma aveva nuotato nel mare delle idee, vissuto la vita della mente. Questa sua edizione riveduta, sulla quale da un pezzo Solanka non esercitava più il controllo creativo, aveva l’intelletto di uno scimpanzè appena sopra la media. Di giorno in giorno diventava una creatura del microverso dell’intrattenimento, con videoclip – sì, adesso era anche una cantante! – più sboccati di quelli di Madonna, con partecipazioni alle première in tenute più audaci e provocanti di qualunque stellina avesse mai calcato il tappeto rosso. Era insieme un videogioco e una cover girl, e questo, non dimenticate, almeno nel suo modo di presentarsi, significava che era, in sostanza, una donna con la testa completamente nascosta dentro quella dell’iconico bambolotto. Eppure molte aspiranti alla celebrità se ne contendevano il ruolo, anche se il Trust dei Cervellini – che era diventato troppo grosso per la Bbc, e se n’era staccato per trasformarsi in una florida impresa indipendente decisa a sfondare, un giorno o l’altro, la barriera del miliardo di dollari – pretendeva la più assoluta riservatezza: i nomi delle donne che animavano Cervellino non venivano mai svelati, anche se abbondavano le dicerie, e i paparazzi d’Europa e d’America, forti della loro speciale competenza, sostenevano di essere in grado di identificare quest’attrice o quella modella grazie agli altri attributi, quelli non facciali, che con tanta fierezza Cervellino metteva in mostra.
Stranamente, la trasformazione in gattina tutto sesso non le fece perdere i suoi fan, ma portò a Cervellino, con la sua maschera di gomma, nuove legioni di ammiratori. Era diventata irrefrenabile: teneva conferenze stampa durante le quali parlava di fondare la propria casa di produzione cinematografica, lanciava la propria rivista in cui consigli di bellezza, suggerimenti sugli stili da scegliere per la propria vita e cultura contemporanea d’avanguardia avrebbero tutti ricevuto lo speciale trattamento di Cervellino, e parlava addirittura alla nazione, agli Usa, attraverso la televisione via cavo. Ci sarebbe stato uno spettacolo a Broadway – era in trattative con tutti i più importanti esponenti del mondo della musica, il caro Tim e il caro Elton e il caro Cameron e naturalmente il caro, carissimo Andrew – e si stava preparando anche un nuovo film con un budget di parecchie cifre. Questo non avrebbe ripetuto gli stucchevoli errori da teeny-bopper3 del primo, ma sarebbe nato e si sarebbe sviluppato “organicamente” dalle sue memorie miliardarie. «Cervellino non è una fantastica Barbie Spice di plastica» disse al mondo – aveva cominciato a parlare di se stessa in terza persona – «e il nuovo film sarà molto umano, e di qualità dall’inizio alla fine. Marty, Bobby, Brad, Gwynnie, Meg, Julia, Tom e Nic sono tutti interessati; anche Jenny, Puffy, Maddy, Robbie, Mick; credo che di questi tempi tutti vogliano una Cervellino.»
La marcia trionfale di Cervellino suscitò inevitabilmente molte analisi e molti commenti. I suoi ammiratori furono derisi per la loro facile ossessione, ma eminenti esperti di teatro si fecero subito avanti per parlare dell’antica tradizione delle maschere teatrali, delle loro origini greche e giapponesi. «L’attrice in maschera si libera della sua normalità, della sua quotidianità. Il suo corpo acquista straordinarie nuove facoltà. È la maschera a dettare tutto questo. È la maschera che agisce.» Il professor Solanka si tenne in disparte, declinando ogni invito a parlare di una creatura che gli era ormai sfuggita di mano. Il denaro, tuttavia, non poteva rifiutarlo. I diritti d’autore continuavano ad accumularsi nel suo conto in banca. L’avidità lo aveva compromesso, e il compromesso gli sigillava le labbra. Obbligato per contratto a non attaccare la gallina dalle uova d’oro, doveva nascondere i propri pensieri e, così facendo, si riempì della biliosa amarezza delle sue tante insoddisfazioni. A ogni nuova iniziativa mediatica presa dal personaggio che una volta aveva delineato con tanta spigliatezza e tanta cura, la sua furia impotente cresceva.
Sulla rivista “Hello!” Cervellino – per un compenso dichiarato di sette cifre – permetteva ai lettori di visitare la sua bella casa di campagna, che era, ovviamente, un vecchio e maestoso edificio Queen Anne nel Gloucestershire, a due passi dalla casa dal principe di Galles, e Malik Solanka, la cui prima ispirazione erano state le case di bambola del Rijksmuseum, rimase folgorato dall’audacia di quest’ultima inversione. Oggi, dunque, le grandi dimore appartenevano a questi supponenti bambolotti, mentre la maggior parte della razza umana viveva ancora in ristrettezze? L’ingiustizia – la bancarotta morale, a suo parere – di questo particolare sviluppo lo allarmò profondamente; tuttavia, personalmente lontanissimo dalla bancarotta, frenò la lingua e accettò quei soldi sporchi. Per dieci anni, come “Art Garfunkel” avrebbe potuto dire nel suo microfono, aveva arginato un fiume di rabbia e di disgusto per se stesso. Il furore si ergeva su di lui come la cresta di un’onda di Hokusai. Cervellino era una figlia delinquente, diventata una gigantessa scatenata, che oggi rappresentava tutto ciò che Solanka disprezzava e che con i suoi piedi colossali calpestava tutti i nobili principi per decantare i quali Malik l’aveva generata; compresi, evidentemente, i propri.
Il fenomeno Cervellino si era congedato dagli anni Novanta e non mostrava di volersi esaurire nel nuovo millennio. Malik Solanka fu costretto ad ammettere una terribile verità. Odiava Cervellino.
Intanto, nessuna delle nuove iniziative che intraprendeva dava molti frutti. Continuava a proporre storie e personaggi alle case inglesi produttrici di film di animazione con pupazzetti di plastilina che avevano appena avuto un grande successo, ma si sentiva rispondere, a volte gentilmente a volte no, che le sue idee non erano attuali. In un campo che sembrava riservato ai giovani, Solanka non era solo diventato più vecchio, ma qualcosa di molto peggio: era sorpassato. Durante una riunione organizzata per parlare della sua proposta di un lungometraggio con interpreti di plastilina sulla vita di Niccolò Machiavelli, Malik fece del suo meglio per parlare la nuova lingua dell’intraprendenza commerciale. Il film, naturalmente, avrebbe usato animali antropomorfi per rappresentare gli originali umani. «Questo ha proprio tutto» esordì con goffo entusiasmo. «Firenze nella sua età dell’oro! I Medici in tutto il loro splendore: impassibili aristogatti di plastilina. Simonetta Vespissipissi, la più bella gattina del mondo, immortalata da quel segugio di Baubaucelli. La Nascita della Venere Felina! Il Rito della Primavera della Micina! Intanto Amerigo Vespissipissi, il vecchio lupo di mare, suo zio, salpa per scoprire l’America! Savona-Roland, in abito talpare, accende il Falò delle Vanità! E al centro di tutto, un topo. Non un vecchio Topolino qualunque, però: questo è il topo che ha inventato la realpolitik, il brillante drammatopo, l’illustre pubblico roditore, il topo repubblicano scampato alle torture del crudele principe dei gatti che in esilio sognava il giorno del suo glorioso ritorno…» Fu interrotto senza tante cerimonie da uno di quelli che ci mettevano i soldi, un tondo ragazzotto che non poteva avere più di ventitré anni. «Firenze va benissimo» esclamò. «Niente da dire. L’adoro. E Niccolò, come l’ha chiamato? Rattiavelli? Perché no? Potrebbe andare. Ma quello che lei ha qui, questo trattamento… Mettiamola così. Non merita Firenze, ecco tutto. Forse, eh?… forse questo non è il momento buono per un Rinascimento di plastilina.»
Poteva rimettersi a scrivere libri, pensò, ma scoprì subito che gli mancava l’entusiasmo. L’inesorabilità del caso, il modo che hanno i fatti di deviarti dal tuo corso, lo avevano corrotto e reso inconcludente. La sua vecchia vita lo aveva lasciato per sempre, e anche il nuovo mondo che aveva creato gli era scivolato tra le dita. Lui era James Mason, divo in caduta libera, che beveva come una spugna e affogava nelle sconfitte, mentre quella maledetta bambola, nella parte di Judy Garland, volava verso il successo. Con Pinocchio, i guai di Geppetto finivano quando quel diavolo di burattino diventava un ragazzo in carne e ossa; con Cervellino, come con Galatea, quello era il momento in cui erano iniziati. Nella sua rabbia alcolica il professor Solanka lanciava anatemi contro la sua ingrata Frankenpupa: lasciate che vada dove io non possa più vederla! Vattene, figlia snaturata. Non ti conosco. Non porterai il mio nome. Non cercare mai di me, non chiedere la mia benedizione. E non mi chiamare più padre.
Cervellino lasciò dunque la sua casa in tutte le versioni: gli schizzi, i bozzetti, i modellini, la sua infinita proliferazione nella miriade delle sue versioni, carta, stoffa, legno, plastica, film di animazione, videotape, lungometraggi; e con lei, naturalmente, se ne andò una versione, un tempo preziosa, di se stesso. Non era stato capace di compiere l’atto di espulsione personalmente. Eleanor accettò di assumersene il compito. Eleanor, che vedeva avanzare la crisi – le vene rosse negli occhi dell’uomo che amava, l’alcol, il suo andare alla deriva – nel suo modo gentile ed efficiente disse: «Va’ a passare una giornata fuori e lascia fare a me». La sua carriera in campo editoriale era temporaneamente sospesa, Asmaan essendo tutta la carriera di cui sentiva il bisogno in quel momento, ma Eleanor era stata una manager di successo ed era molto richiesta. Anche questo gli nascose, benché Malik non fosse uno stupido, e sapesse cosa voleva dire quando Morgen Franz e gli altri chiamavano per parlare con lei e stavano al telefono, a blandirla, anche trenta minuti per volta. La volevano, questo Malik lo capiva, tutti avevano qualcuno che li voleva tranne lui, ma lui almeno avrebbe potuto prendersi questa meschina vendetta; anche lui poteva non volere qualcosa, fosse pure soltanto quella creatura bifronte, quella traditrice, quella… quella… bambola.
Così il giorno stabilito uscì di casa e fece una lunga passeggiata ad Hampstead Heath – abitavano in una grande casa di Willow Road ed erano sempre stati felici di avere la Heath,4 il tesoro della parte settentrionale di Londra, il suo polmone, davanti alla porta – ed Eleanor, durante la sua assenza, fece imballare con cura ogni cosa, che poi venne portata in un magazzino. Lui avrebbe preferito che tutto l’armamentario finisse nella discarica di Highbury, ma venne a un compromesso anche su questo. Eleanor aveva insistito. Aveva forti propensioni archivistiche e, non potendo fare a meno di lei per attuare il suo progetto, Malik aveva accolto le sue obiezioni con un cenno della mano, come avrebbe fatto per scacciare una zanzara, e non aveva protestato. Camminò per ore, lasciando che la fresca musica della Heath gli calmasse il petto ansante, prima il tranquillo battito cardiaco dei suoi lenti sentieri e degli alberi, poi la dolcezza degli archi di un concerto estivo sulla spianata dell’Iveagh Bequest. Quando fu di ritorno, Cervellino era sparita. O meglio, quasi sparita. Perché, all’insaputa di Eleanor, una bambola era stata chiusa in un armadio nello studio di Solanka. E là rimase.
La casa sembrava vuota quando tornò, deserta come dopo la morte di un bambino. Gli parve di essere improvvisamente invecchiato di venti o trent’anni; come se, divorziato dal frutto migliore dei suoi entusiasmi giovanili, Solanka si trovasse finalmente faccia a faccia con quella cosa spietata che è il Tempo. Ad Addenbrooke, alcuni anni prima, Waterford-Wajda aveva parlato di un sentimento simile. «La vita diventa, non so, molto circoscritta. Ti rendi conto che non hai niente, che non hai legami, che stai usando le cose provvisoriamente. Il mondo inanimato ride di te: tu presto te ne andrai, mentre esso resterà. Non molto profondo, Solly, è una filosofia da Winnie Pooh, lo so, ma ti strazia lo stesso.» Questa non era solo la morte di un bambino, pensò Solanka: somigliava di più a un omicidio. Crono che divora sua figlia. Era lui l’assassino della sua romanzesca progenie: non carne della sua carne, ma sogno dei suoi sogni. C’era, però, un bimbo in carne e ossa ancora sveglio,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Furia
  4. PARTE PRIMA
  5. PARTE SECONDA
  6. PARTE TERZA
  7. Copyright