L'età del caos
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L'età del caos

Viaggio nel grande disordine mondiale

  1. 336 pagine
  2. Italian
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L'età del caos

Viaggio nel grande disordine mondiale

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Vista dagli Stati Uniti, l'Italia fa notizia perché è quel piccolo paese dove approdano ondate di disperati, costretti ad attraversare il Mediterraneo per fuggire a devastazioni molteplici: l'avanzata dello Stato Islamico, le guerre civili, la miseria. La Germania è un colosso economico dai piedi d'argilla, prepotente e timida al tempo stesso, incapace di dare all'Europa un progetto nuovo, forte e convincente. La Nato si riarma per far fronte a Vladimir Putin, ma gli europei hanno altro a cui pensare: i figli senza lavoro o sottopagati, i tagli alle pensioni, i servizi pubblici in declino, l'insicurezza sociale.

Non sta molto meglio la «mia» America. Dopo sei anni di crescita, la maggioranza continua a pensare che «il paese è sulla strada sbagliata». Anche qui molti giovani, pur avendo sbocchi professionali migliori dei loro coetanei in Europa, non possono aspirare al tenore di vita dei genitori. Pesa anche la perdita di una missione. La nazione leader non crede più possibile una pax americana nel mondo.

Insomma, siamo i primi testimoni di un evento epocale, la fine del dominio dell'uomo bianco sul pianeta. Il pendolo della storia torna dove l'avevamo lasciato cinque secoli fa, quando il baricentro del mondo era Cindia, l'area più ricca e avanzata, oltre che più popolosa. Ma il pendolo della storia è lento. Siamo ancora in uno di quei periodi instabili e pericolosi in cui l'ordine antico sta franando e del nuovo non c'è traccia.

L'Età del Caos descrive le linee di frattura che attraversano il mondo in cui viviamo e le forze che lo stanno riplasmando, dalla geopolitica all'economia, dall'ambiente alla crisi delle democrazie, dalla rivoluzione tecnologica al ruolo delle potenze emergenti, su tutte Cina e India. C'è una sorta di seduzione del Caos, come principio dinamico e risorsa strategica. Da una parte ci sono le classi dirigenti, i governanti, irrimediabilmente radicati nel passato e incapaci di capire il futuro. Dall'altra le nuove élite, i veri protagonisti dei prossimi decenni: guerriglieri e, per ragioni opposte, creatori di start-up vedono nell'instabilità la loro grande chance. Tanto che nella Silicon Valley il vocabolo più in voga è disruptive, cioè dirompente, distruttivo. Appena smetti di esserlo, e ti siedi sugli allori, sei finito. Dietro di te un altro giovane assatanato sta preparando la tua rovina.

Non c'è da stupirsi, quindi, se per i più giovani, i più trasgressivi, i più creativi tra di noi il Caos è una promessa di illimitate possibilità. Un mondo dove i minuscoli cambiamenti di oggi possono produrre grandi conseguenze domani. Perché vederne, allora, solo il lato negativo?

Domande frequenti

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Informazioni

VIII

La tecnologia al potere (il problema siamo noi)

È stata una tragedia assurda. Non la dimenticheremo facilmente. Ha colpito la nostra sensibilità più di tante altre, magari anche più gravi nei bilanci delle vittime. Mi riferisco al suicidio del pilota tedesco Andreas Lubitz, che non ha voluto morire da solo: il 24 marzo 2015, al comando del volo Germanwings 9525, schiantò il suo Airbus sulle Alpi Marittime francesi, uccidendo altre 149 persone. Le prime reazioni incredule, poi costernate, indignate, hanno puntato l’indice contro la compagnia aerea, filiale di Lufthansa, e i medici che lo curavano (o non lo curavano affatto) per la sua grave depressione. Oltre al dolore dei familiari delle vittime, uccise da quel gesto assurdo, c’è stato uno sconcerto generale, di massa: a torto o ragione si pensa che il suicidio sia un gesto terribile ma esclusivamente solitario, in cui l’aggressività viene rivolta contro se stessi, non contro gli altri. Dopo questo avvenimento, però, la lezione che rimarrà rischia di essere un’altra. Quella e altre tragedie diventeranno evitabili quando la smetteremo di voler fare le cose noi. Noi esseri umani. Pieni di difetti, imprevedibili, fragili, malati. Noialtri creature del Caos.
Un mondo perfetto. Un mondo sicuro. È possibile, è realistico? Forse sì, a condizione che sia un mondo… senza di noi. Questo è il paradosso contenuto nelle promesse dell’Intelligenza Artificiale, A.I. nell’abbreviazione inglese. La nuova frontiera del progresso tecnologico è già realtà. Eliminare gli incidenti aerei, o le ecatombi del weekend sulle autostrade, è ormai un traguardo alla nostra portata. Cancellando ogni interferenza umana, i pericoli si riducono quasi a zero. Resta da decidere cosa fare di noi (dopo esserci salvati).
Molto prima della strage assurda del volo Germanwings, le compagnie aeree avevano imboccato la strada che porta verso l’automazione. La mortalità da incidenti aerei è in costante calo, da decenni, grazie al poderoso flusso d’innovazioni che hanno trasformato i jet in macchine semiautomatiche, governate dall’informatica più che dai piloti. Io, che devo volare molto spesso, ho ricevuto questa confidenza da comandanti esperti con lunghe carriere alle spalle: il loro mestiere si è trasformato fino a essere irriconoscibile. Sui jet delle ultime generazioni, un pilota è realmente ai comandi, su un volo intercontinentale di molte ore, solo per poche decine di minuti. La maggior parte del tempo è l’informatica a decidere tutto. Un Boeing o un Airbus fabbricato oggi assomiglia, apparentemente, a uno fabbricato trent’anni fa, ma la somiglianza si limita al «guscio» esterno: dentro è cambiato tutto, grazie alla rivoluzione digitale. Quando succede il disastro – e succede sempre meno – il «fattore umano» è al primo posto fra i soliti sospetti. Nel caso di Lubitz, lui ha dovuto letteralmente violentare il pilota automatico. I computer non avrebbero voluto consentirgli una manovra palesemente sbagliata.
Google, Apple, Tesla sono in gara tra loro per applicare la stessa ricetta alle automobili. Un giorno la capitale mondiale dell’automobile sarà a casa loro. San Francisco e dintorni: Silicon Valley. Un mondo lontano anni luce dalla vecchia Detroit, dai signori attempati che ancora vanno in ufficio in giacca e cravatta. Già oggi la Silicon Valley ha realizzato una silenziosa presa di potere «dall’interno». Nel senso che un’auto è fatta sempre più di elettronica, e le tecnologie digitali hanno in California la loro cabina di regia, i loro padroni, i loro inventori. In quanto a risorse da investire, Apple o Google, se volessero, potrebbero divorare in un solo boccone General Motors, Ford, Fiat-Chrysler, anche Toyota, tanto è immane il dislivello di capitalizzazioni. Ma i ragazzini high-tech che vanno a lavorare in T-shirt, bermuda e infradito non hanno un’idea «lineare» dell’evoluzione. No, la storia del capitalismo per loro è distruzione creatrice, schumpeteriana. Procede per salti, per discontinuità. Come ho già detto, la loro parola d’ordine è disruptive, dirompente. Dunque troverebbero assurda, tragicomica, l’idea di ripensare l’auto partendo da chi l’ha fatta e ne ha dominato il mercato negli ultimi cent’anni. No, il progresso non può avere gli stessi protagonisti del passato, l’auto del futuro è una cosa talmente diversa che nascerà per forza altrove. Anzi, sta già nascendo. O forse è appena nata.
«Vi presentiamo Steve Mahan, uno dei primi utenti dell’auto Google che si guida da sola.» Così il sito di Google invita a fare un test virtuale su strada. «Guardate questo video, seguite Steve mentre guida in giro per la città, fa le sue commissioni, senza mai toccare il volante. Mentre l’auto che si guida da sola si sta ancora sviluppando, l’obiettivo è di rendere la guida più sicura, più efficiente, più divertente.» Google prosegue descrivendo quel che vedete come «un sogno di fantascienza che diventa realtà, e l’opportunità per una tecnologia di cambiare la vita di milioni di persone».
Immagino le obiezioni dei lettori italiani, soprattutto se maschi adulti. Ma quale «piacere» di guida, se uno si lascia trasportare da un automa? Che gusto c’è a viaggiare su strada come se si fosse seduti su un treno Frecciarossa? Poi c’è lo scetticismo di fondo, l’insicurezza viscerale che ci prende all’idea di salire su un’auto senza guidatore, dove tutto viene deciso da un computer (o da molti computer in dialogante cooperazione fra loro). Qui, però, s’intuisce una frattura generazionale. Per i «nativi digitali», cioè i nostri figli o nipoti che dalla più tenera infanzia accarezzano coi pollici uno smartphone o un tablet, il divertimento è quello. L’orgasmo del guidatore all’italiana sta scomparendo dai loro orizzonti, l’automobile ha smesso di essere un sex symbol, basta guardare i dati di vendite e i sondaggi tra i più giovani. Poi c’è di mezzo l’egomania del guidatore, convinto di avere la strada sotto controllo. Persuaso che i suoi riflessi-lampo sono un salvavita. Purtroppo è vero il contrario: proprio come in cielo, anche sull’asfalto si muore quasi sempre per errori umani, non per guasti delle macchine. Siamo noi che ci mettiamo alla guida dopo aver bevuto troppo, o dopo aver lavorato troppo, stanchi e appannati. Presuntuosi, arroganti, prepotenti, esposti alla distrazione fatale. Colpi di sonno, raptus di aggressività, depressione, cocktail di psicofarmaci: siamo capaci di tutto. Migliaia di vite umane possono essere salvate, proprio com’è accaduto negli ultimi decenni di storia dell’aviazione civile: rendendo sempre più padrona l’informatica.
Google Car non è il solo progetto che promette di rivoluzionare l’automobile. Ho fatto personalmente un test su una possibile concorrente: la Tesla, già oggi numero uno fra le auto elettriche made in Usa, e all’avanguardia nella ricerca sulla batteria extralongeva. Gioiello californiano, concupito da Google e da Apple. Proprio un ingegnere di Apple mi ha fatto provare la sua Tesla nuova fiammante, sull’autostrada 101 che attraversa la Silicon Valley. Motore silente. Ripresa e scatto da purosangue. Il limite di 65 miglia all’ora va rispettato, ma quando si apre la possibilità di un sorpasso l’auto decolla in avanti come un proiettile, ha l’accelerazione di una Maserati. Se la vettura che precede rallenta, la Tesla frena per mantenere la distanza di sicurezza. Ho scritto «la Tesla» perché il soggetto è lei. Tutto questo avviene grazie al pilota automatico, mentre il conducente umano si occupa d’altro: naviga su Internet o legge online i giornali sul megaschermo di bordo dalle cento funzioni: di volta in volta è un telefono in vivavoce con videoconferenza Skype, una Tv ad alta definizione, un radar tridimensionale, un pannello di controllo per monitorare tutte le funzioni di questa «astronave», un motore di ricerca in Rete, una pagina Facebook. Il pilotaggio è un optional, l’auto può fare quasi tutto da sé. Sembra irritata se «lui» riprende i comandi, lo sgrida con una vibrazione del volante appena percepisce che si sta distraendo: è il segnale d’allarme antisonno. Un test su strada, ben più lungo di quello che ho fatto io, ha dimostrato che questa Tesla può andare in pilota automatico per 1300 chilometri, da San Francisco a Seattle (l’altra tecnopoli della West Coast, sede di Microsoft e Amazon), con l’unica eccezione dei tratti urbani, ma anche questa eccezione, forse, è più un omaggio alle vetuste convenzioni del codice stradale.
Tornando al mio test, l’auto ci aveva riconosciuti prima che salissimo a bordo: estraendo le maniglie delle portiere quando siamo stati a pochi metri da lei; poi regolando tutte le comodità interne (temperatura dell’abitacolo, tipo di sospensioni, stile di guida a seconda degli itinerari) con la memoria che ha immagazzinato le nostre preferenze.
L’ultima Tesla, l’auto elettrica che in California è una moda di massa malgrado prezzi dai 40.000 ai 100.000 dollari (la versione S ultrasportiva), è il giocattolo preferito di una generazione di «nativi digitali». È un bolide su strada; ha emissioni zero; è un modo di viaggiare che prefigura il futuro. L’autonomia raggiunge i 450 chilometri, le stazioni di servizio sono un po’ dappertutto e spesso gratuite. Ha due bagagliai sotto i cofani anteriore e posteriore perché il motore tradizionale… non c’è: le batterie ultrapiatte di nuova generazione sono talmente sottili da stare sotto l’abitacolo.
Il pieno di energia, il mio pilota lo fa gratis, in ufficio: da Apple. Come Google, anche Apple offre questo regalo ai dipendenti, per incentivarli all’auto elettrica. Ma dietro c’è molto più della coscienza ambientalista della Silicon Valley.
Forse solo i Padroni della Rete possiedono il know how per rendere l’auto del futuro ciò che dovrà essere: un luogo di lavoro, di fruizione dell’entertainment, ad altissima sicurezza, zero emissioni di CO2, e con l’intelligenza necessaria a farci stare il minor tempo possibile in mezzo al traffico. Google è partita per prima, ma non si sa chi taglierà il traguardo da vincitore. L’autostrada 101 è usata regolarmente per i collaudi della Google Car senza guidatore. Una tecnologia figlia dell’era di Big Data aggiorna una quantità massiccia di informazioni (stato del traffico e del meteo), comunica costantemente con tutte le altre auto in circolazione, in un dialogo informatico che rende quasi impossibili incidenti, errori, infrazioni. Zero mortalità sulle strade è un obiettivo meno fantascientifico di quanto sembri, se davvero tutte le auto «si parlano» alla velocità della luce. Google Car cerca di superare la diffidenza umana, per ottenere dalle autorità della California i permessi necessari a circolare liberamente ovunque. Tim Cook, chief executive di Apple, non è ancora certo se inseguire Google Car sulla strada dell’auto totalmente automatica, o sposare un concetto ibrido che consenta fasi di pilota automatico e altre in cui il piacere della guida ci viene concesso con indulgenza. Con 700 miliardi di capitalizzazione e 180 miliardi di cash, il tesoro di guerra di Apple non ha eguali al mondo: il costo di ricerca e sviluppo di un nuovo modello per Ford o General Motors, in media un miliardo di dollari, è pocket money, cioè spiccioli della mancia per Apple. Fallire un nuovo modello è un colpo duro per le casse di Ford e Gm; un’inezia nel bilancio di Apple.
La voglia di Cook di impadronirsi del mercato dell’auto è coerente con la sua strategia: dentro l’abitacolo molti di noi spendono un pezzo di vita, spesso «sprecato» in umili funzioni meccaniche e di vigilanza che l’Intelligenza Artificiale può esercitare meglio di noi. Tutto il tempo libero che guadagniamo, mentre siamo su strada, può essere riempito da altre funzioni che Apple o Google ci offrono: navigare in Rete, lavorare sullo schermo, telefonare e scrivere messaggi, scaricare musica e video. Coccolati nel confortevole abitacolo, siamo inermi di fronte al bombardamento di sollecitazioni al consumo. L’idea di Google e di Apple si spinge fino a superare la «proprietà» dell’automobile. Unendo altri pezzi di innovazioni, nate sempre nella Silicon Valley, come la Zipcar, i Padroni della Rete immaginano un futuro in cui ordineremo all’autista automatico più vicino di venirci a prendere e condurci a destinazione. Vivi. Grazie alle macchine più intelligenti di noi.
Con quale effetto sul mercato del lavoro, però: intere categorie e mestieri, dai tassisti ai camionisti, saranno minacciati di estinzione?
La sfida dell’Intelligenza Artificiale è proprio questa. A un certo punto il dilemma finale sarà stringente: salvare vite umane, o salvare posti di lavoro? Difenderci come i luddisti della prima Rivoluzione industriale inglese – che davano l’assalto ai telai meccanici delle tessiture – o arrenderci alla disoccupazione di massa, come prezzo per un mondo migliore? L’elenco delle professioni minacciate è molto più lungo di quanto si pensi. L’automazione nelle fabbriche avanza perfino in Cina: la Repubblica popolare ormai rivaleggia con Stati Uniti e Giappone per gli investimenti nella robotica, pur avendo ancora tanta manodopera a buon mercato. Le tute blu hanno già perso la guerra di resistenza, mentre si moltiplicano le categorie dei colletti bianchi assediate.
Giornalisti, scrittori e musicisti non sono gli unici «impoveriti» dalla gratuità di Internet che rimpingua i profitti di Google (clicchiamo gratis, lei vende pubblicità). Milioni di ore di lavoro dei medici generici sono state dirottate a vantaggio di Google, che infatti investe nei nuovi software dell’autodiagnosi, sempre in gara con Apple che ha appena lanciato l’Apple Watch: tra le altre funzioni, l’orologio digitale da polso è il nuovo medico incollato in permanenza al nostro corpo. Chiunque creda di appartenere a una professione protetta dalla concorrenza di A.I., ha un eccesso di presunzione o un deficit di fantasia.
Rise of the machines (L’ascesa delle macchine) è il titolo con cui il «Financial Times» ha passato in rassegna tutti gli ultimi saggi usciti in America che trattano proprio di questo. Sono tanti. C’è chi scrive sull’«invenzione che sarà l’ultima, e segnerà la fine dell’era umana» (James Barrat). C’è chi evoca l’«eclisse dell’uomo» (Charles Rubin). Chi descrive l’arrivo di macchine Smarter Than Us, più intelligenti di noi (Stuart Armstrong). E affidabili. Non soggette a gelosie tra colleghi, rancori, vendette, sabotaggi.
Già da molto tempo, non siamo più noi a decidere fin dove deve spingersi l’automazione: è la logica del profitto che sposta la frontiera sempre più avanti. La vera questione ormai è un’altra. Fino a quando saremo noi a controllare le macchine, e quando cominceranno a riprodursi da sole, mettendoci in un angolo, per diminuire la nostra nocività? Il dibattito tra gli scienziati è ormai su questo secondo tema. In California è nata un’università e una corrente di pensiero (alcuni la definirebbero una religione), quella della Singularity. Il suo precursore storico fu John von Neumann negli anni Cinquanta, il suo teorico più autorevole oggi è Ray Kurzweil, non a caso un superconsulente di Google. Nella definizione di Wikipedia, la Singularity è l’ipotesi secondo cui l’accelerazione del progresso tecnologico diventa esponenziale, irrefrenabile e incontrollabile, fino al momento in cui «l’Intelligenza Artificiale supera la capacità umana di comprenderla e controllarla, operando così un radicale mutamento di civiltà».
Come sempre, la grande letteratura – in questo caso la fantascienza – ha immaginato questi problemi molto prima che diventassero attuali. Il computer Hal di 2001: Odissea nello spazio (film di Stanley Kubrick del 1968) uccide quasi tutti gli astronauti perché sa che solo lui può portare a termine la missione. Lo scrittore Isaac Asimov fu il primo, nel 1950, a concepire la necessità di un codice etico dei robot. Oggi è inquietante scorrere l’elenco di luminari della scienza e di grandi imprenditori che concordano nel denunciare A.I. come un pericolo per il genere umano: si va da Stephen Hawking a Bill Gates, dal fondatore di Skype a quello di Tesla.
Il punto di non-ritorno sarà quando i supercomputer cominceranno a progettare altri supercomputer, inaugurando l’era della loro riproduzione autonoma? Quand’anche volessero – bontà loro – rimanere al nostro servizio, è possibile che «interpretino» come Hal la missione da noi affidatagli arrivando a conseguenze indesiderate? Stuart Armstrong, del Future of Humanity Institute, immagina i possibili malintesi tra «noi» e «loro». Dite all’Intelligenza Artificiale di debellare ogni malattia contagiosa, e potrebbe eliminare il genere umano: missione compiuta. Chiedetele di aumentare subito il Pil degli Stati Uniti, e potrebbe radere al suolo Los Angeles provocando un boom d’investimenti per la ricostruzione. Il pericolo maggiore, ci avverte il filosofo Stephen Cave (autore di Immortality) sul «Financial Times», è che tutte le ricerche su A.I. sono «spinte o da interessi finanziari, oppure da progetti militari». In altri termini, le risorse a disposizione sono immense. E il bene dell’umanità non figura in cima agli obiettivi perseguiti.
Equiparare ogni innovazione a progresso, ogni avanzata dell’automazione a un miglioramento delle nostre vite, è contraddetto dall’esperienza quotidiana. In America forse più che in ogni luogo del mondo. Perché qui non ci sono sindacati forti, niente rigidità, e il feticismo delle tecnologie non conosce argini. Quando in Italia entrate in un’agenzia di banca, ne sono sicuro, la prima cosa che vi viene in mente non è questa: «Ora sto per incontrare un povero». Qui in America sì. Lo dicono gli ultimi rilevamenti sulla povertà a New York. Tra coloro che cadono sotto la soglia del reddito di sussistenza ci sono molti lavoratori dipendenti. Compresa una quota di addetti alle agenzie di banca. Vigilantes privati, personale delle pulizie, certo. Ma anche bancari veri e propri. Impiegati allo sportello. Mentre gli stipendi dei loro chief executive schizzano verso la stratosfera, e guadagnano milioni anche le star che operano come trader, gli operatori della finanza speculativa, chi sta allo sportello non ce la fa più a mantenere una famiglia, coi costi della vita di Manhattan.
E vi confesso che questo non attenua la mia esasperazione nei loro confronti. Non quando il Bancomat si mangia per la seconda volta consecutiva un assegno circolare. La prima era stato l’assegno con lo stipendio di mia moglie. Pochi giorni dopo è toccato a un assegno dell’Internal Revenue Service, l’Agenzia delle Entrate americana, un rimborso per alcune centinaia di dollari di tasse pagate in eccesso. Stesso Bancomat, stesso disservizio. La macchina che normalmente legge gli assegni mi risponde che stavolta «non è in grado». Neppure è in grado di restituirmelo, però. Che fine faranno i nostri soldi? Vado a reclamare dall’essere umano che sta dietro lo sportello. Mi risponde come sono addestrati a rispondere questi derelitti. Che lui non ha potere sulle macchine. Non è autorizzato ad aprirla per recuperare l’assegno sottratto. Non ha neppure, il poveretto, l’autorità per disattivare il Bancomat, metterlo fuori servizio, perché almeno non infligga lo stesso scherzo ad altri clienti. Il bancario dello sportello mi allunga un numero. È il numero verde del servizio clienti. Ahi.
Il servizio clienti è una replica in grande dell’agenzia bancaria. Anche al servizio clienti comandano le macchine. Al telefono mi risponde un automa, chiamatelo computer parlante o robot, ma in questo caso non usiamo l’espressione Intelligenza Artificiale, che è eccessiva. Gli automi del telefono verde - servizio clienti sono computer di serie B, manovalanza istruita per atti ripetitivi e stupidi. La finta voce umana mi elenca un’infinita serie di opzioni. Devo digitare numeri, inserire informazioni, conto corrente, codice fiscale, data di nascita, la tipologia della mia chiamata, insomma la ragione per cui sto perdendo il mio tempo a «parlare» con questo automa. Alla fine di questa trafila arrivo a un essere umano. Un altro meschino come il bancario dell’agenzia. Si fa ripetere a sua volta tutte le informazioni che mi aveva già chiesto l’automa (e che, non si parlano tra loro? Si tengono il muso? L’automa non è autorizzato a riversare le informazioni che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontispiece
  3. L’Età del Caos
  4. Introduzione
  5. I. Il grande disordine sotto il cielo
  6. II. Democrazie stanche, e la storia va a ritroso
  7. III. Grande stagnazione e innovazioni sterili
  8. IV. Immigrazione, il modello che non c’è
  9. V. Il nuovo ordine cinese
  10. VI. India, la madre di tutti i disordini
  11. VII. La Sesta Estinzione: la nostra
  12. VIII. La tecnologia al potere (il problema siamo noi)
  13. IX. Fuga dalla scienza
  14. Non una conclusione (perché è solo l’inizio)
  15. Copyright