Mare al mattino
eBook - ePub

Mare al mattino

Margaret Mazzantini

  1. 120 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Mare al mattino

Margaret Mazzantini

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«Questo libro è una novità nel percorso della Mazzantini. Il suo stile si è prosciugato mettendo in rilievo l'essenziale; le frasi, brevi o brevissime, spesso aforistiche, hanno un grande potenziale emotivo. Ognuna ci colpisce, e va ben meditata e assimilata. La narrazione, fotografando visioni di forte impatto simbolico, ci lascia immagini inconsuete e non dimenticabili.» Cesare Segre, CORRIERE DELLA SERA
«Un piccolo libro su un'immensa catastrofe, una testimonianza del nostro tempo, piena di poesia.» BUCH MARKT
«Come sempre Mazzantini trova le parole per esprimere il dolore e la sofferenza dei vinti, i dimenticati ai margini della Storia.» LE MONDE
«Margaret Mazzantini conferma, se mai ce ne fosse bisogno, le sue eccezionali doti narrative. Mare al mattino evita il facile sentimentalismo che spesso accompagna il dramma dell'emigrazione.» EL PAIS

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852065842

Mare al mattino

A te con Dhaki
sul coche pequeño

Farid e la gazzella

Farid non ha mai visto il mare, non c’è mai entrato dentro.
Lo ha immaginato tante volte. Punteggiato di stelle come il mantello di un pascià. Azzurro come il muro azzurro della città morta.
Ha cercato le conchiglie fossili sepolte milioni di anni fa, quando il mare entrava nel deserto. Ha rincorso i pesci lucertola che nuotano sotto la sabbia. Ha visto il lago salato e quello amaro e i dromedari color argento avanzare come logore navi di pirati. Abita in una delle ultime oasi del Sahara.
I suoi antenati appartenevano a una tribù di beduini nomadi. Si fermavano negli uadi, i letti dei fiumi coperti di vegetazione, montavano le tende. Le capre pascolavano, le mogli cucinavano sulle pietre roventi. Non avevano mai lasciato il deserto. C’era una certa diffidenza verso la gente della costa, mercanti, corsari. Il deserto era la loro casa, aperta, illimitata. Il loro mare di sabbia. Macchiato dalle dune come il manto d’un giaguaro. Non possedevano nulla. Solo impronte di passi che la sabbia ricopriva. Il sole muoveva le ombre. Erano abituati a resistere alla sete, ad essiccarsi come datteri, senza morire. Un dromedario apriva loro la strada, una lunga ombra storta. Scomparivano nelle dune.
Siamo invisibili al mondo, ma non a Dio.
Si spostavano con questo pensiero nel cuore.
D’inverno il vento del nord che attraversava l’oceano di roccia stecchiva i barracani di lana sui corpi, la pelle si aggrappava alle ossa dissanguata come quella di capra sui tamburi. Antichi malefici cadevano dal cielo. Le faglie di sabbia erano lame, toccare il deserto significava ferirsi.
I vecchi venivano sepolti lì dove morivano. Lasciati al silenzio della sabbia. I beduini ripartivano, frange di stoffe bianco e indaco.
In primavera nuove dune nascevano, rosate e pallide. Vergini di sabbia.
Il ghibli infuocato si avvicinava insieme al gemito rauco di uno sciacallo. Piccoli riccioli di vento come spiriti in viaggio pizzicavano la sabbia qua e là. Poi raffiche radenti, affilate come scimitarre. Un esercito resuscitato. In un attimo il deserto si sollevava e divorava il cielo. E non c’era più confine con l’aldilà. I beduini si piegavano sotto il peso della tempesta grigia, si proteggevano contro il corpo di animali caduti in ginocchio, come sotto la coltre di un’antica condanna.
Poi si erano fermati. Avevano costruito una muraglia di creta, e un pascolo chiuso. C’erano solchi di ruote sulla sabbia.
Ogni tanto una carovana passava da quelle parti. Erano sulla rotta dei mercanti che dall’Africa nera tagliavano il deserto verso il mare. Portavano avorio, resine, pietre preziose, uomini legati da vendere come schiavi nei porti della Cirenaica e della Tripolitania.
I mercanti si rifocillavano nell’oasi, mangiavano, bevevano. Era nata una città. Muri di argilla essiccata simili a corda intrecciata, tetti di palme. Le donne vivevano in alto, separate dagli uomini, attraversavano i tetti scalze. Camminavano fino al pozzo con anfore di terracotta sul capo. Mescolavano il couscous con le interiora di pecora, la farina bollita. Pregavano sulle tombe dei marabutti. Al tramonto danzavano sui tetti al suono del nay, muovendo i ventri come serpi assonnate. In basso gli uomini impastavano mattoni, facevano scambi, giocavano a dadi persiani fumando narghilè.
Ora quella città non c’è più. Resta un disegno, un santuario mangiato dal vento di sabbia. Accanto è sorta la città nuova voluta dal Colonnello, fatta da architetti stranieri dell’est. Costruzioni di cemento, antenne.
Disseminate lungo la strada ci sono grandi effigi del rais, vestito da deserto, da musulmano, da ufficiale. Certe volte è imperioso e serio, certe volte sorride con le braccia aperte.
La gente è seduta su bidoni di benzina vuoti, bambini ossuti, vecchi che succhiano radici per rinfrescarsi la bocca. I cavi della luce camminano flosci da un edificio all’altro. Il ghibli rovente trascina sacchetti di plastica e immondizie lasciate dai turisti del deserto.
Non c’è lavoro. Solo bibite zuccherate e capre. Datteri da inscatolare per l’esportazione.
Molti giovani se ne vanno, raggiungono le zone petrolifere, i grandi blocchi neri. Le fiamme perenni del deserto.
Non è una vera città, è un agglomerato di vite.
Farid abita nella parte vecchia, in una di quelle case basse con le porte tutte intorno alla stessa corte, un giardino selvatico e un cancello sempre aperto. Va a scuola a piedi. Corre con le sue gambe magre che si spellano sempre come canne. Jamila, sua madre, gli incarta qualche bastoncino di sesamo per la merenda.
Al ritorno gioca insieme ai suoi amici con un carretto fatto di lamiera che trascina barattoli, oppure a pallone. Si rotola come un bacherozzo nella polvere rossa. Ruba banane piccole e grappoli di datteri neri. Si arrampica con una corda fino in alto, nel cuore di quelle piante piene d’ombra.
Ha un amuleto al collo. Tutti i bambini ce l’hanno. Un piccolo sacchetto di cuoio con qualche perlina, qualche ciuffo di bestia.
Gli sguardi cattivi guarderanno l’amuleto e tu sarai in salvo, gli ha spiegato sua madre.
Omar, suo padre, è un tecnico, installa le antenne delle tv. Aspetta il segnale. Sorride alle donne che non vogliono perdersi la puntata della telenovela egiziana e lo trattano come un salvatore di sogni. Jamila è gelosa di quelle stupide donne. Lei ha studiato canto. Ma il marito non vuole che si esibisca durante i matrimoni o le feste pubbliche o tanto meno per i turisti. Così Jamila canta solo per Farid, lui è il suo unico spettatore in quelle stanze di tende e tappeti, profumate di artemisia e erbe aromatiche, sotto quel tetto a uovo di calce.
Farid è innamorato di sua madre, delle sue braccia che fanno vento come foglie di palma, del suo alito quando canta uno di quei malouf pieni di amore e lacrime e il suo cuore si gonfia così tanto che deve tenerselo stretto con tutte e due le mani per non farlo cadere in terra, nella bacinella di ferro dell’acqua piovana piena di ruggine e sempre asciutta.
Sua madre è giovane, sembra una sorella. Ogni tanto giocano agli sposi, Farid le pettina i capelli, le aggiusta il velo.
La fronte di Jamila è un grande sasso rotondo, gli occhi sono orlati come quelli degli uccelli, le labbra sembrano due datteri dolci e maturi.
È un tramonto senza vento. Il cielo è color pesca.
Farid si siede contro il muro del suo giardino. Si guarda i piedi, le dita luride che spuntano dai sandali.
C’è una colatura di muschio giovane che s’infila in una crepa, Farid si avvicina con il naso a quell’odore fresco. Solo allora si accorge che un animale gli respira accanto. È così vicino a lui che non può muoversi, il cuore gli salta negli occhi.
Ha paura che sia uno uaddan, la pecora asino dalle grandi corna protagonista di tante leggende. Suo nonno gli ha detto che appare all’orizzonte tra le dune come un miraggio cattivo. Ormai sono molti anni che nessuno vede uno uaddan, però nonno Mussa giura che si nasconde ancora nello uadi nero di croste arenarie dove nessuna vita resiste ed è molto arrabbiato per tutte quelle jeep che rovinano il deserto, lo spostano con le loro ruote.
Ma l’animale non ha ciuffi bianchi, né corna lunari, e non digrigna i denti. Ha il manto color sabbia e corna così sottili che sembrano arbusti. Lo guarda, forse ha fame.
Farid capisce che è una gazzella. Una giovane gazzella. Non scappa. I suoi occhi, spalancati e così vicini, sono limpidi e calmi. Il manto è scosso da una vertigine. Forse trema anche lei. Ma anche lei è troppo curiosa di quell’incontro per indietreggiare. Farid lentamente le avvicina un ramo, la gazzella apre una bocca di denti piatti e bianchi, strappa qualche pistacchio fresco. Se ne va arretrando su se stessa, senza smettere di guardarlo. Poi di colpo si volta, salta il muretto di fango e corre sollevando sabbia, oltre l’orizzonte delle dune.
Il giorno dopo a scuola, Farid riempie pagine di gazzelle, le disegna storte, a matita, le colora spingendo il dito nelle tempere ad acqua.
La televisione manda in loop il film prodotto dal rais con Anthony Quinn che interpreta il leggendario Omar al-Mukhtar. Il guerrigliero beduino che ha combattuto come un leone contro gli invasori italiani. Farid è fiero, il cuore gli batte nelle ossa. Suo padre si chiama Omar, come l’eroe del deserto.
Gioca alla guerra con i suoi amici, cerbottane fatte di canne che sputano pistacchi, sassi rossi lasciati dalle tempeste.
Sei morto! Sei morto!
Litigano, perché nessuno ha voglia di buttarsi in terra e finire il gioco.
Farid sa che da qualche parte è scoppiata la guerra.
I suoi genitori bisbigliano fino a notte fonda e i suoi amici dicono che sono arrivate armi dal confine, le hanno viste scaricare dalle jeep di notte. Anche loro vorrebbero avere un kalašnikov, un razzo.
Sparano qualche bengala accanto al vecchio mendicante sordo.
Farid salta, si diverte come un pazzo.
Hisham, il più giovane dei suoi zii, studente universitario a Bengasi, si è unito all’esercito dei ribelli.
Nonno Mussa che fa la guida ai turisti fino alla Montagna Maledetta e sa riconoscere le impronte dei serpenti, e decifrare i disegni rupestri, dice che Hisham è stupido, ha letto troppi libri.
Dice che il qa’id ha lastricato la Libia di asfalto e cemento, l’ha riempita di tuareg neri del Mali, ha inciso le parole di quel suo ridicolo libro verde su ogni muro, ha incontrato finanzieri e politici in giro per il mondo circondato da belle donne come un attore in vacanza. Però è un beduino come loro, un uomo del deserto. Ha difeso la loro razza perseguitata dalla storia, respinta ai margini delle oasi. Meglio lui che i Fratelli Musulmani.
Hisham ha detto meglio la libertà.
Omar sale sul tetto, sistema la parabola satellitare. Prendono un canale non criptato dal regime. Le città della costa sono in fiamme. Ora sanno che il profeta dell’Africa Unita spara sulla sua Jamahiriyya. Ormai è solo nel castello del potere. Quando vede Misurata distrutta, nonno Mussa tira giù dal muro la stampa del qa’id, l’arrotola e la butta sotto il letto.
È arrivato il telegramma. Hisham ha perso la vista. Una scheggia in faccia. Non leggerà più i libri con i suoi occhi. Tutti piangono, tutti pregano. Hisham è all’ospedale di Bengasi. Almeno è vivo, non è nei sacchi verdi come il figlio di Fatima.
Per strada la gente graffia via dai muri le parole del rais, le coprono di scritte che inneggiano alla libertà e vignette satiriche sul grande topo ricoperto di medaglie false. La statua davanti alla medina è decapitata dalle pietre.
È notte, c’è solo una piccola luce nuda che non smette di vibrare come se avesse la tosse. Omar svuota un sacchetto del mercato sul tavolo, dentro ci sono soldi. I dinari dei risparmi di Omar, gli euro e i dollari che nonno Mussa ha guadagnato con i turisti del deserto. Omar conta i soldi, poi toglie una pietra e li nasconde nel muro. Parla con Jamila, chiude le mani intorno alle sue mani strette. Farid non dorme, guarda quel nodo di mani nel buio che tremano come una noce di cocco sotto la pioggia.
Omar dice che devono andarsene. Che avrebbero dovuto farlo da un pezzo. Nel deserto non c’è futuro. E adesso c’è la guerra. Ha paura per il bambino.
Farid pensa che suo padre si sbaglia ad aver paura per lui, lui è pronto per la guerra come zio Hisham. Ha provato con le mani sugli occhi, a vedere come si vive da ciechi. Si sbatte un po’, ma non importa.
Farid si siede contro...

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