Mi mescolai alla folla dei passeggeri che sbarcavano senza sapere dove andare né cosa fare. Sembrava una gara. Quelli con i trolley sfrecciavano via il più in fretta possibile. Pochi si staccavano dal gruppo per riposarsi nelle sale d’attesa, e mi domandai se anche loro, come me, stessero solo cercando di prendere tempo prima di incontrare il loro destino alla barriera dell’immigrazione.
Per tanto tempo avevo immaginato il mio arrivo a Seul come la fine di un lungo viaggio, ma senza dedicare nemmeno un pensiero a ciò che sarebbe accaduto una volta là. Mi ritrovai a precipitarmi in avanti insieme a tutti gli altri, con piccoli passi nervosi. Un cartello proprio davanti a noi deviava i passeggeri in transito lontano dal controllo passaporti. Il mio biglietto avrebbe dovuto portarmi a Bangkok, e quindi in quella direzione. Avevo lo stomaco sottosopra. Inspirai, rallentai un po’ il passo e mi concentrai sullo scontro che mi aspettava.
I passeggeri si distribuirono in lunghe file davanti ai banchi dell’immigrazione. Io mi unii a una fila riservata agli stranieri. Ci muovevamo in avanti con regolarità, una persona ogni minuto circa, finché non rimasero che cinque persone tra me e il funzionario dell’immigrazione. Avevo la bocca secca e i palmi delle mani sudati. Non sapevo assolutamente cosa avrei detto. Vidi il funzionario scrutare attentamente ogni persona, esaminarne il passaporto, controllare qualcosa su uno schermo. Ancora quattro minuti e sarebbe toccato a me. Sentii un trambusto alle mie spalle e osservai la coda allungarsi per l’arrivo dei passeggeri di un altro volo. Quando mi girai di nuovo, la fila era avanzata ancora un po’. Solo tre persone davanti a me. Imbarazzo. Paura. Solo due persone. Una volta oltrepassata la linea gialla dichiarandomi richiedente asilo non sarebbe stato possibile evitare lo scandalo. Solo una persona.
Il coraggio mi abbandonò.
Lasciai la fila e mi diressi in fondo alla coda.
Mentre me ne stavo là notai una stanza alla mia destra. Attraverso la porta aperta vedevo degli ufficiali in divisa blu scuro davanti ad alcuni computer, e tre persone sedute di fronte a loro, due donne che sembravano venire dal Sudest asiatico e un uomo dall’aria cinese. Immaginai che ci fosse qualcosa che non andava nei loro documenti.
Pensai che quella situazione sarebbe stata meno imbarazzante del banco dell’immigrazione ed entrai. Nessuno fece caso a me.
Il cuore cominciò a battermi così forte che la voce mi uscì strana, come quella di un registratore. «Sono nordcoreana» dissi. «Voglio chiedere asilo.»
Tutti gli ufficiali alzarono gli occhi.
Poi il loro sguardo tornò sullo schermo a cui stavano lavorando. L’uomo che mi aveva fissata per primo mi rivolse un sorrisetto stanco.
«Benvenuta in Corea» disse, e bevve un sorso di caffè da una tazzina di plastica.
Mi sentii sgonfiare. Avevo pensato che il mio arrivo avrebbe creato un pandemonio. Ma al tempo stesso dentro di me scattò qualcosa di primitivo: aveva usato la parola hanguk.
Hanguk – così i sudcoreani chiamano il proprio paese – significa «paese degli Han», in riferimento all’antica etnia che vi abitava. Il nome ufficiale è Repubblica di Corea. Il Nord, invece, chiama se stesso chosun, un termine che deriva dal tempo del regno Joseon. Il nome ufficiale è Repubblica democratica popolare di Corea. L’odio e l’ignoranza creati da una storia sanguinosa e dalla propaganda di partito hanno fatto sì che noi del Nord cresciamo associando hanguk alla parola che significa «nemico», e a tutte le cose brutte.
«Hai fatto bene a venire» disse l’agente. «Prego, aspetta un minuto.»
Tornò con altri due uomini e una donna vestiti con la stessa uniforme blu scuro. Uno degli uomini aveva con sé un piccolo scanner. Mi chiesero il passaporto e lo scannerizzarono. Poi scossero la testa e provarono di nuovo. C’era qualcosa che non andava.
«Davvero sei nordcoreana?» mi chiese la donna. Rivolgendosi ai suoi colleghi maschi non aveva usato formule onorifiche: ne dedussi che era l’ufficiale di grado superiore, l’agente del controspionaggio.
«Sì, lo sono.»
«Il passaporto e il visto sono autentici» disse ancora la donna. «I nordcoreani non arrivano qui con passaporti veri. Di solito ne hanno uno falso.»
«Il passaporto è vero, ma quella non è la mia vera identità. Io vengo dalla Corea del Nord.»
Allarmata, capii che pensava fossi una sino-coreana che fingeva di essere nordcoreana per ottenere la cittadinanza della Corea del Sud.
Poi fu il mio bagaglio a mano ad attirare la sua attenzione.
«Anche questa Samsonite è vera» disse bruscamente. «Non è taroccata.» Io non mi ero accorta del marchio, quindi non capivo perché chiamasse la mia valigia «Samsonite». L’avevo comprata perché sembrava robusta. Più tardi avrei appreso che solo i transfughi vanno in giro con valigie contraffatte. La donna mi guardò negli occhi come se mi avesse sorpresa a dire una bugia.
«Adesso devi dirci la verità» intervenne uno degli ufficiali. «Non è troppo tardi per farlo.» Il suo tono di voce era amichevole ma anche minaccioso.
«La sto dicendo, la verità.»
«Una volta che sarai sottoposta a indagine da parte del National Intelligence Service non potrai più tornare indietro. Se sei cinese, finirai in carcere e poi sarai rispedita in Cina» aggiunse.
Il NIS era l’agenzia che esaminava i nuovi arrivati nordcoreani. Avevo sentito dire che, se mi avessero estradata, avrei dovuto pagare un grossa multa in Cina. Ma c’era anche il rischio che a quel punto le autorità cinesi scoprissero il mio inganno e decidessero di rimpatriarmi nella Corea del Nord. Ero riuscita ad arrivare a Seul solo per non essere creduta?
Ho fatto un terribile errore.
Intanto l’uomo continuava. «Devi dire la verità. Adesso. Non finirai nei guai. Ti lasceremo tornare a Shanghai.» Poi fece una pausa per lasciarmi assorbire quell’opzione.
«Sto dicendo la verità. Il mio nome è Park Min-young. E voglio essere sottoposta a indagine.»
La verità suonava strana e dubbia perfino alle mie orecchie. Era da più di dieci anni che non usavo il mio nome.
«Bene» disse la donna scuotendo la testa. «È una tua decisione.»
Passai le due ore successive a rispondere alle sue domande, sola con lei in una stanza senza finestre, e a guardarla prendere nota. Quando pensavo che ormai avessimo finito, arrivarono altri due uomini in abiti civili e camicia con il colletto aperto. Erano più anziani, uno sulla quarantina e l’altro, con i capelli grigio acciaio, sui cinquanta. Dal modo in cui la donna li salutò capii che dovevano essere suoi superiori. Poi la donna se ne andò e i due uomini ricominciarono a farmi sempre le stesse domande. Nemmeno loro credevano che fossi nordcoreana. Nella voce del più anziano c’era una vena di aggressività.
Ormai ero stanca e cominciavo ad avere fame, e di tanto in tanto perdevo il filo delle domande.
Che ironia. A Shenyang avevo dovuto convincere un poliziotto sospettoso che ero cinese e non nordcoreana. Ora dovevo fare il contrario.
Dopo altre due ore gli uomini mi dissero che saremmo andati al centro di elaborazione del NIS, a Seul. Mi accompagnarono a un’uscita secondaria e mi fecero salire su un’auto con autista. Ormai era quasi sera. Ero stata all’aeroporto per cinque ore. L’auto era uno scintillante veicolo civile che odorava di nuovo. Occupai il sedile posteriore insieme all’uomo più giovane. Oltrepassammo l’edificio del terminal e imboccammo una superstrada a sei corsie immersa nella luce ambrata dei lampioni stradali.
«Questa è la strada che porta a Seul» disse l’uomo più giovane. Era il più gentile degli ufficiali che mi avevano interrogato. Il suo collega dai capelli d’acciaio, seduto davanti, non disse nulla.
Intanto io cercavo di valutare la mia situazione. Non sono in prigione. Non mi hanno rimesso sull’aereo. Potevo considerarlo un passo avanti. Ma questo pensiero fu rapidamente scacciato da un altro, molto meno consolatorio. Cosa penserebbero i miei amici rimasti in patria se sapessero con chi sono in questo momento? Per i nordcoreani l’angibu, come è chiamato il NIS, è l’infame agenzia che sta dietro tutti i disastri stradali e ferroviari, dietro il crollo dei palazzi, i prodotti difettosi, la mancanza di rifornimenti e gli incendi inspiegabili. Molte persone condannate a morte, soprattutto fra i quadri d’alto livello, sono accusate di aver collaborato con l’angibu.
«Abbiamo avuto molto da fare» riprese l’uomo più giovane. «Questo è il nostro secondo viaggio in aeroporto, oggi. Appena prima di te sono arrivati centocinquanta nordcoreani che in questo momento sono sotto esame.»
«Quanti?»
«Centocinquanta. Ogni settimana ne arrivano almeno settanta dalla Thailandia e quasi altrettanti dalla Mongolia e dalla Cambogia.»
Si trovavano ad affrontare una grande ondata di transfughi, aggiunse, causata da un vasto giro di vite sui clandestini ordinato dalle autorità cinesi in vista delle olimpiadi di Pechino.
Poi mi chiese cosa provassi riguardo al paese in cui mi trovavo in quel momento, e cominciò a darmi alcune informazioni essenziali su aspettativa di vita, sistema sanitario, reddito pro capite medio. Sembrava una tiritera ripetuta chissà quante volte. Il suo scopo era smontare le false credenze che potevo aver appreso dalla propaganda, e cioè che la gente nella Corea del Sud era indigente e perseguitata, e che i soldati americani di stanza a Seul prendevano allegramente a calci bambini e disabili. La propaganda nordcoreana è così grottescamente sopra le righe che, per smascherarla, i sudcoreani non hanno alcun bisogno di esagerare. Già negli anni Settanta, quando la Corea del Sud cominciò a classificarsi tra le principali economie del mondo, per disimparare decenni di propaganda ai transfughi nordcoreani bastava farsi un giro negli impianti automatizzati della Hyundai o nei grandi magazzini Lotte di Seul. La cosa funzionava anche con gli indottrinati commandos catturati dopo il fallimento delle loro missioni segrete al Sud.
Stavamo viaggiando nel traffico veloce dell’ora di punta lungo il fiume Han, vicino a Yeoido, un distretto commerciale pieno di grattacieli: grandi dormitori scintillanti di luci. Guardando in su riconobbi un palazzo che avevo visto nelle serie televisive sudcoreane.
«Il 63 Building» spiegò l’agente. «Un punto di riferimento. Sessantatré piani. Non li costruiamo mai troppo alti perché rischierebbero di diventare l’obiettivo di un attacco nordcoreano.»
Tutta quella luce. Tutta quella ricchezza.
Tutto ciò che vedevo era stato costruito mentre crescevo a meno di trecento chilometri più a nord. Scossi la testa mentre la piena comprensione del luogo in cui mi trovavo si faceva largo dentro di me. Per un istante mi sentii così eccitata da non riuscire quasi a respirare. Ero dall’altra parte del mio paese diviso. Nella Corea parallela. Che era vitale e reale: paragonate all’ignavia e alla tetraggine del Nord, tutta quell’energia e quella luce mi lasciavano senza parole.
Arrivammo al monolitico centro di elaborazione del NIS. Sentinelle armate montavano la guardia all’esterno. L’immenso cancello si aprì automaticamente senza un suono, e io sentii tutta la mia eccitazione svanire. La mia «vera indagine», come gli agenti l’avevano definita, stava per cominciare.