La rivista «Backstreets» è stata fondata nel 1980 e, nel giro di trent’anni, è diventata il primo periodico internazionale, nonché risorsa online, dedicato a Springsteen e a tutti gli artisti del New Jersey a lui collegati. Christopher Phillips si è unito alla redazione nel 1993, diventandone cinque anni dopo direttore e editore. Ma è solo nel 2004, dopo ventiquattro anni passati a «bruciare per la strada», che Springsteen parla per la prima volta con un giornalista di «Backstreets». L’intervista che segue coglie il cantautore nel momento in cui sta per offrire il proprio appoggio ufficiale alla candidatura di John Kerry in vista delle elezioni presidenziali – una mossa che suscitò aspre polemiche in una parte dei suoi fan, molto diversi tra loro per orientamento politico – e in cui si appresta a lanciare Vote for Change (Vota per il cambiamento), una serie di concerti pensati, a detta di Bruce, per «mobilitare gli elettori progressisti … [per] modificare la rotta seguita dal governo e unire le nostre voci a quella di chi si batte per un cambiamento al vertice del nostro paese».
Bruce Springsteen è entrato apertamente nell’agone politico di queste elezioni autunnali alla guida di una coalizione di artisti che attraverserà i cosiddetti «swing states»1 per sostenere l’elezione di John Kerry il prossimo 2 novembre. A distanza di un anno dalla conclusione del tour Rising allo Shea Stadium, Springsteen terrà cinque date a inizio ottobre, che lo vedranno impegnato sul palco insieme alla E Street Band (con una possibile sesta data a Miami, ancora in forse quando questo articolo va in stampa).
Assieme a loro, per le serate in Pennsylvania, Ohio, Michigan, Minnesota e Florida (nemmeno una data in New Jersey, roccaforte di Springsteen), ci saranno i REM, John Fogerty e i Bright Eyes. Dopo tanti anni, questa sarà la prima volta in cui i concerti del cantautore di Freehold verranno aperti da ospiti. L’ultimo era stato John Wesley Harding nel 1995, in occasione delle date di Berkeley del Tom Joad, il tour acustico da solista di Springsteen.
Insieme ad altri musicisti come i Pearl Jam, la Dave Matthews Band, i Jurassic 5 e Bonnie Raitt, Springsteen ha fatto leva sul proprio considerevole peso artistico e commerciale per sostenere la serie di concerti di Vote for Change e promuovere un cambiamento nelle prossime elezioni. I ricavi di questa iniziativa, realizzata con il contributo di MoveOn (www.moveonpac.org), andranno ad America Coming Together (www.actforvictory.org). La piega presa da Springsteen, com’era prevedibile, ha prodotto un certo clamore tra i politici conservatori, gli opinionisti e non pochi fan, che hanno condannato il suo «improvviso» attivismo politico. Perché il cittadino Bruce, che per decenni ha commentato la società attraverso la propria arte, ha deciso di parlare forte e chiaro?
Abbiamo pensato di chiederlo direttamente a lui.
In quella che è la sua prima intervista in assoluto con «Backstreets», Springsteen parla con il direttore Christopher Phillips nei giorni immediatamente precedenti il 4 agosto, data dell’annuncio del tour Vote for Change. Chiarendo quello che a lungo è stato espresso attraverso la sua opera, Springsteen discute delle ragioni che stanno alla base del suo impegno: «Questa, probabilmente, è l’elezione più importante della mia vita … Considerato tutto quello che ho scritto, come pure tutte le cose che ho voluto che la nostra band sostenesse nel corso degli anni, è una battaglia troppo importante per starne fuori».
Springsteen parla in termini inequivocabili delle sue speranze per il futuro dell’America, delle sue convinzioni in merito al ruolo degli artisti nella società, dei suoi punti di vista sul rapporto tra musica e politica, della complessa responsabilità che sente nei confronti del proprio pubblico.
Negli anni hai appoggiato tante cause, e per quanto in molti dei tuoi lavori fosse chiaramente visibile una profonda coscienza politica e sociale, questa è la prima volta che intervieni in una campagna elettorale. Direi, quindi, che la domanda da un milione di dollari è: perché proprio adesso?
Questa, probabilmente, è l’elezione più importante della mia vita. Penso che il governo si sia allontanato troppo dai valori americani. Dopo l’11 settembre, anch’io ero come tutti gli americani: ero a favore dell’intervento in Afghanistan e sentivo il paese straordinariamente unito, come non lo avevo mai sentito prima. È stato un momento di tristezza infinita, ma anche una grandissima opportunità. E penso che questa opportunità sia stata distrutta quando ci siamo buttati a capofitto nella guerra in Iraq, una guerra che non ho mai capito. Ne ho parlato anche in tour: non ho mai capito come e perché siamo finiti laggiù. Abbiamo mandato a morire la nostra gioventù migliore per ragioni che si sono dimostrate infondate. Da giovane mi ero già trovato a vivere una situazione simile, e ti posso assicurare che la guerra in Vietnam, per chi di noi ci è passato, è stata devastante.
E, oltre a questo, l’aumento del debito pubblico, la stretta su servizi fondamentali come il doposcuola per i bambini più bisognosi, i grossi tagli alle imposte sugli utili straordinari delle società, il crescente divario tra ricchi e poveri, che minaccia ormai da vent’anni la tenuta della coesione sociale… tutte cose che, con l’avvicinarsi delle elezioni… insomma, se adesso non facessi la mia parte, non terrei fede alle idee di cui ho scritto per trent’anni.
Non penso di aver mai visto niente di simile in vita mia. Credo che le libertà che finora abbiamo dato per scontate – in tour ho parlato un po’ anche di questo – vengano erose piano piano. In passato ho collaborato con diverse associazioni della società civile che incarnavano, per così dire, il mio modo di vedere le cose, e che credevo nel mio piccolo di poter aiutare. L’ho fatto per una ventina d’anni, e sono stato felicissimo di lavorare con loro. Ho sempre pensato che gli artisti debbano tenersi lontani dai centri di potere, se vogliono conservare una voce indipendente. Ed era così che a me piaceva svolgere il mio lavoro. Però questa volta la posta in gioco è troppo alta. Considerato tutto quello che ho scritto, come pure tutte le cose che ho voluto che la nostra band sostenesse nel corso degli anni, è una battaglia troppo importante per starne fuori.
In questi concerti sarai accompagnato da diversi artisti davvero unici, straordinari: REM, Pearl Jam, Jurassic 5, Bonnie Raitt… Immagino però che, nonostante l’unione che deriva dall’avere uno scopo comune, tra voi ci siano diversi punti di vista. Secondo te, quanto questa cosa troverà espressione sul palco? Credi che ogni artista ci offrirà una prospettiva diversa?
Immagino di sì, tante prospettive quanti sono gli artisti coinvolti. A unirci è stato uno scopo ben preciso, ma penso che ognuno di noi potrebbe avere idee diverse sulla direzione da prendere da lì in avanti. Per quanto mi riguarda, John Kerry mi piace un sacco. Non credo che abbia tutte le risposte, o che le abbia John Edwards, però penso che abbiano la necessaria esperienza di vita e siano sinceramente interessati a fare le domande giuste sull’America e a cercare soluzioni oneste. Io credo che lo faranno. Mentre non ho la stessa impressione riguardo ai personaggi che sono ora al governo. Sento che quella fiducia è stata tradita, e che ormai non si può più tornare indietro.
Cosa hai pensato del discorso di Kerry [alla convention nazionale dei Democratici]?
Ho pensato che fosse fantastico, il migliore di quelli che gli ho sentito fare.
E i responsabili della campagna elettorale ti hanno chiesto l’autorizzazione per usare «No Surrender» come accompagnamento musicale delle sue entrate?
No, qualcuno mi ha detto di averla sentita in altri comizi in giro per il paese… ma è stata una bella scelta.
Tu ti sei concentrato sui problemi dell’America molto più di quanto non abbiano fatto nel corso degli anni i vari gruppi politici o i partiti, senza distinzione fra Democratici, Repubblicani, American Independent Party, Reform Party, Green Party o chiunque altro. La tua è parsa una decisione molto consapevole: ti sei deciso a scendere in campo perché, secondo te, siamo a un punto critico?
Sì, direi di sì. Insomma, sono cresciuto in una famiglia di Democratici. Da quel che mi ricordo, in casa mia ho sentito parlare di politica una sola volta: un giorno, da piccolo, quando ero appena tornato da scuola, dove forse un mio compagno mi aveva chiesto per chi votassimo. Probabilmente era periodo di elezioni, e io avrò avuto l’età di mio figlio, otto o nove anni. Tornai a casa e dissi: «Mamma, noi cosa siamo?», e lei rispose: «Eh, siamo Democratici. Siamo Democratici perché i Democratici stanno dalla parte dei lavoratori». E niente, questa è stata l’unica volta che ho sentito parlare di politica a casa mia in tipo diciotto anni.
Per cui ho sempre avuto un orientamento progressista, liberal. Quando ho cominciato a scrivere, penso che… il tuo background ti lascia un’impronta indelebile, c’è poco da fare. Sono cresciuto in una famiglia che viveva stretta in una morsa, sempre impegnata a cercare di arrivare a fine mese. Con mia madre che correva alla finanziaria a chiedere un prestito per comprare i regali di Natale, e poi impiegava fino al Natale successivo per ripagarlo, e a quel punto era costretta a chiederne un altro. Quindi so di cosa parlo. E questa volta non c’era assolutamente modo di starsene seduto in disparte.
Questo mi fa pensare a quella «critica» che sembrano farti in continuazione: come può un milionario come te scrivere ancora dei problemi che affliggono le tute blu? Anche a Edwards rivolgono un’obiezione simile: è figlio di un operaio, ma si è trasformato in un avvocato milionario, come se una cosa escludesse l’altra. Però è chiaro che queste esperienze formative lasciano un’impronta indelebile nel tuo modo di vedere il mondo.
Chi fa quella critica mostra anche di avere le idee terribilmente confuse su come lavora uno scrittore. Partiamo da qui: sei mai stato a vedere la casa di Mark Twain?
No, mai.
È davvero bella [ride]. La stanza in cui scriveva è bellissima.
Non era una capanna imbiancata, con qualche rana che le saltellava intorno?
No, è una bellissima casa in stile vittoriano. Quindi questa cosa succedeva anche prima! [Ride.] Mi sembra che la critica di cui parli venga rivolta più ai musicisti che non, per dire, ai registi. Nessuno si lamenta del fatto che Martin Scorsese non sia realmente un mafioso. Ma ’sta cosa, con me, salta sempre fuori: ormai mi sono rassegnato al fatto che per tutto il resto della mia vita lavorativa dovrò rispondere a questa domanda. Ma è un’idea molto confusa del modo in cui si scrive di quegli argomenti.
Be’, mi è arrivata voce che in questo periodo scrivi come un matto.
Lo dicono sempre. Magari fosse vero!
Ma mi chiedevo se in questo tour sentiremo brani nuovi, se hai scritto delle canzoni appositamente per i prossimi concerti.
Ci provo sempre… ma non posso dire di avere niente finché non ce l’ho effettivamente, mi spiego? A dire il vero, mi ero preso una bella vacanza. Patti doveva lavorare al suo disco, così ho passato un po’ di tempo con i bambini e mi sono divertito a guardarla lavorare. Però non smetto mai di scrivere, cerco sempre di tirar fuori qualcosa, ma finché non ce l’ho, non ce l’ho. Quindi non saprei dirti.
Hai detto che «uno scrittore scrive per essere compreso». Nel corso degli anni le tue canzoni sono state travisate tantissimo: penso naturalmente a «Born in the U.S.A.» e «American Skin (41 Shots)», che sono i casi più ovvi. Di solito, in passato, hai lasciato che fosse la tua musica a parlare, ma ora mi chiedo, al di là dei cambiamenti che cerchi di introdurre nel paese attraverso questi concerti, se pensi che «Vote for Change» darà al tuo pubblico una visione più chiara riguardo a quelli che sono il significato e l’obiettivo dei tuoi scritti.
Non lo so, è possibile. Di base, ho fiducia nelle canzoni. E, d’altra parte, mi sono arreso al fatto che, una volta che le canzoni sono in giro, sei solo una tra le tante voci nella discussione che le riguarda. È così che funziona. E va bene così, perché penso che siano là fuori proprio perché se ne discuta, almeno alcune. Prendi American Skin: la cosa strana è che, in effetti, ho incontrato persone che credevano per filo e per segno all’interpretazione del «New York Post»! Ma ho incontrato anche parecchia gente che aveva capito perfettamente quello che cercavo di dire. Ed è così che vanno le cose. Quando una canzone va in giro, tu non fai altro che aggiungere la tua voce al coro di persone che litigano per affermare la propria interpretazione e le proprie convinzioni. Io, però, un vantaggio ce l’ho, perché sono io ad avere ancora la chitarra in mano.
Però, magari… non ci avevo pensato, ma potrebbe succedere proprio quello che hai detto tu.
In passato, quando hai sentito l’esigenza di chiarire qualcosa – penso, per esempio, a quando hai illustrato in maniera molto precisa che cosa intendessi dire con il verso di «Empty Sky», «an eye for an eye» (occhio per occhio), durante il concerto ad Atlantic City [nel 2003] –, cos’è che ti passava per la testa, cos’è che ti spingeva a spiegare quelle cose?
Non mi faccio mai scrupoli a interrompermi per spiegare quello che voglio dire con le mie canzoni. E ci sono i momenti giusti per farlo. In quel caso, be’, avevo un palco a disposizione al momento giusto [ride], e in generale se mi accorgo che c’è qualche fraintendimento per un po’ di sere di fila, allora dico: «Ok, c’è qualcuno che…». Forse sono cento persone, forse sono dieci. Forse sono due. Forse sento solo il tipo che fa casino in quel preciso istante. Ma, in fin dei conti, io parlo a te. Ti parlo a tu per tu.
E quindi non ho nessun problema a interrompermi in un determinato momento per chiarire le mie intenzioni. E adesso, grazie all’aiuto favoloso di Internet [ride], queste intenzioni possono arrivare in un attimo in tutti gli angoli del mondo, permettendomi così di chiarire le cose ancora più in fretta.
Be’, ehi, felici di poterti dare una mano.
Oppure può contribuire a confonderle ancora più velocemente, suppongo… Ma se hai un pubblico grande quanto il mio, be’, allora è un pubblico veramente ampio. E quando, durante l’ultimo tour, ho parlato della guerra in Iraq, prima che venisse a galla tutta la verità, c’era chi applaudiva e chi fischiava. È così che vanno le cose. Ho sempre cercato di limitare i miei commenti a un paio di minuti a fine serata, il che mi sembrava discretamente ...