Queste cose cominciano così, con piccoli problemi di cui non si tiene tanto conto.
Specialmente quando si è giovani come lo era mia madre al tempo.
A ventisei anni, anche se la vita ti ha fatto diventare grande un po’ più in fretta degli altri e hai già due figli a cui pensare, senza neppure la spalla di un compagno a cui aggrapparti, sei sempre una ragazza di ventisei anni.
E così era mia madre. Bellissima, con decine di amici e cugini affezionati, una famiglia che la supportava: una vita divertente, da vivere ancora appieno.
“Non sarà niente” deve aver pensato, quando quei problemi – piccoli problemi, appunto – avevano cominciato a presentarsi.
Io non ricordo nulla di quelle prime avvisaglie. Avevo otto anni, e non erano cose che mi riguardavano, specialmente perché sembrava non dovesse trattarsi di nulla di grave.
Mia nonna, però, insisteva affinché mia madre andasse dal dottore e si sottoponesse ad alcuni esami. Soprattutto perché era convinta che fosse sempre bene farsi vedere, e non perché realmente preoccupata che qualcosa di brutto potesse succedere a quella sua figlia così bella ed esuberante.
Era aprile e la primavera, in Sardegna, regala già giornate calde, meravigliose, giornate in cui assaporare l’estate alle porte, giornate che non sono fatte per le brutte notizie. Forse si potevano rimandare ancora, quegli esami.
Ma mia madre, alla fine, si era lasciata convincere, e adesso – in quella splendida giornata di primavera – i risultati erano pronti.
Il verdetto fu spietato. Incredibile. Eppure tremendamente reale.
Cancro all’utero largo quattro centimetri.
A comunicarglielo fu un medico dell’ospedale di Cagliari, nel suo camice bianco. Uno dei tanti che, a partire da quel momento, l’avrebbero accompagnata in un percorso di sofferenza e sempre maggiore consapevolezza.
Come avrà reagito mia madre in quella situazione? Biascicando un “Cosa?!” pieno di stupore, forse. O rimanendo ammutolita. Oppure sarà scoppiata a piangere al pensiero di me e Federico, e di quello che poteva significare, per noi, quella notizia.
«Che si può fare?» chiese.
«Ben poco, purtroppo» fu la risposta. «Se vuole possiamo provare a intervenire. Anche se non le garantisco nulla, signora.»
Signora. Improvvisamente mia madre veniva trattata da donna adulta, perché era da adulti il problema che si ritrovava ad affrontare.
E spesso mi chiedo: cosa fece dopo essere uscita dall’ambulatorio? Corse subito a casa? O prima di comunicare la notizia ai famigliari vagò per le strade di Cagliari, per poi sedersi all’aperto al tavolino di un bar, godendosi il sole caldo e sperando fosse solo un brutto sogno?
In ogni caso, ora doveva partire. A me fu detto che mamma doveva assentarsi qualche giorno per andare a curarsi, per andare a stare bene. E che, una volta tornata, avremmo organizzato una festa in suo onore.
La festa si fece. Con tutta la mia famiglia. Vennero sfornate torte, comprate bibite di ogni tipo e patatine, con lo stereo che suonava in sottofondo, mentre uno striscione recitava “Bentornata Monica”: tutto quello che serviva per rendere una giornata allegra.
Ma allegra era solo in apparenza.
Le notizie, quelle che a noi bambini non venivano dette, erano terribili e, se fossi stato più grande, forse sarei riuscito a leggerle sul volto di nonna, nonno, zia Cristina, zia Sabrina e in primo luogo di mamma: avevano rinunciato a operarla e non le davano più di quattro mesi di vita. Solo quattro mesi. Praticamente, era stata aperta e subito richiusa; il tumore era troppo esteso, per cui i medici, prima di operare di nuovo, decisero di tentare con un ciclo di chemioterapia e successivamente di radioterapia per cercare di ridurne le dimensioni. Per la radio mamma sarebbe dovuta andare a Varese perché l’ospedale di Cagliari non era attrezzato.
Una bomba che era esplosa nella sua vita, con una forza ancora maggiore, forse, rispetto allo scoprirsi malata. Le possibilità di guarigione erano quasi nulle e doveva mettersi nell’ottica di affrontare un vero e proprio calvario.
“Chemioterapia” e “radioterapia”, infatti, erano parole che facevano paura.
Non furono quelle, però, che arrivarono alle mie orecchie, nella prima fase della malattia.
Conoscevo già le parole “tumore” e “cancro”, perché in casa, vista la situazione, se ne parlava spesso. D’altronde sarebbe stato inutile tentare di nascondermi la verità: era fin troppo evidente.
Sapevo anche che la mia bisnonna Ninnuccia era morta di questo male, ma che era una malattia da cui si poteva guarire, per cui non me ne preoccupavo più di tanto.
Vedevo che mia madre era ancora lì, bella come sempre, sorridente come sempre, affettuosa come sempre.
Quindi, qualunque cosa fosse questo “cancro”, non era poi così grave, in fondo.
Ho un ricordo ben preciso del momento in cui mi accorsi che qualcosa davvero non andava per il verso giusto.
Eravamo in bagno, e mamma era chinata sulla vasca, per lavarsi i capelli.
L’odore dello shampoo arrivava alle mie narici, a suggellare quello spazio di intimità madre-figlio tutto nostro.
Io me ne stavo seduto accanto a lei e le raccontavo cosa avevo fatto a scuola quel giorno, del perché secondo me non era giusto che la maestra mi avesse sgridato e di come ci fossimo divertiti in giardino: si andava ormai verso la fine dell’anno scolastico e il clima delle vacanze imminenti si faceva sempre più palpabile tra noi bambini.
Lei mi ascoltava, e rispondeva un po’ a monosillabi, senza la consueta verve con cui mi incoraggiava sempre a condividere i miei pensieri e le mie giornate.
Finché, a un certo punto, mi accorsi che alcune ciocche dei suoi lunghi capelli le rimanevano fra le dita. Era come se li raccogliesse, foglie che vengono via da un ramo senza opporre resistenza.
Quando lei se ne rese conto, sbarrò gli occhi e si tirò su di scatto, cominciando a urlare terrorizzata: «No! No! No!».
Mi sentii il cuore balzare in petto e corsi fuori a cercare aiuto, anche se avevo paura di lasciarla in bagno in quelle condizioni.
Come potevo sapere che quello era uno degli effetti della chemioterapia a cui mia madre aveva iniziato a sottoporsi poco più di una settimana prima?
Fuori dal bagno incrociai mio fratello. Dopo lo spavento, avevo iniziato a piangere a dirotto.
«Federico, a mamma stanno cadendo i capelli... vai a chiamare subito il nonno!» riuscii a dire fra i singhiozzi.
E corsi di nuovo in bagno da lei.
Aveva gli occhi rossi, e una lacrima le rigava una guancia. Ma ora, vedendo me che piangevo, non urlava più.
Mi accarezzò e mormorò: «Marco, non è successo niente. Non ti devi preoccupare... sto bene».
A quelle parole, e con mia madre che sembrava di nuovo serena, alla fine mi tranquillizzai.
Dopo quel giorno mamma decise di recarsi nel salone da parrucchiera dove lavorava zia Carmen.
Anche zia Carmen ci era passata, dall’esperienza della chemioterapia, dopo che le era stato diagnosticato un tumore al seno. «Monica, è inutile, i capelli cadranno» le aveva detto. «È meglio che li tagli cortissimi, se non addirittura a zero. Sarà meno traumatico quando succederà, fidati.» Ma mamma non aveva voluto rinunciare subito alla sua chioma.
Quando, però, si rese conto che i capelli continuavano a cadere e che non c’era modo di arrestare quel processo, passò a malincuore a un taglio corto seguendo il consiglio di zia Carmen. E tornò a casa con un caschetto.
Fu quello il primo cambiamento che vidi in lei, il primo segno tangibile che qualcosa stava cambiando. E non in meglio.
Ma la vita, come spesso fa, in mezzo alle burrasche più violente regala attimi di pura gioia e nuovi motivi per sperare che la luce ritorni presto a risplendere.
E così a mia madre, proprio mentre la sofferenza cominciava a farsi sentire, fu regalata una nuova, bellissima emozione.
Quell’emozione, per mamma, ebbe il nome di Stefano.
Aveva appena scoperto di essere malata, e ancora la sua vita di tutti i giorni non era cambiata. Ancora scorrazzava con la sua Austin Metro rossa per le strade di Cagliari. Ancora vedeva regolarmente i suoi amici. Usciva. Si divertiva, seppure con un’ombra che man mano le si allargava dentro.
E ancora, come tutti, andava a fare la spesa.
Fu così che un giorno, poco prima dell’estate, parcheggiò l’auto davanti al supermercato ed entrò.
Quando uscì, carica di borse di plastica, non poté credere ai propri occhi.
Il cofano della sua macchina era ricoperto di fiori. Rose rosse.
Si avvicinò a passi lenti, come se quei fiori potessero rappresentare una minaccia, e si accorse che c’erano anche numerosi post-it gialli attaccati qua e là. Almeno una decina.
Appoggiò le borse a terra e ne staccò uno. Diceva: “Sei bellissima”.
Un sorriso affiorò alle sue labbra.
Il successivo, ironia della sorte, diceva proprio: “Hai un sorriso fantastico”.
E poi: “Hai un portamento eccezionale”.
Li lesse tutti. Un complimento dopo l’altro, finché notò un biglietto con su scritto un nome, “Stefano”, e un numero di telefono.
Mia madre all’epoca era single, ed era una bella ragazza di ventisei anni, corteggiata e ammirata, una di quelle ragazze che gli uomini si voltano a guardare per strada.
Ma non era più la ragazza che era stata fino ad appena qualche settimana prima.
Ora non soltanto aveva due figli piccoli cui badare, aveva pure una malattia il cui nome fa paura e crea disagio al solo sentirlo.
Non c’era spazio nella sua vita, per una nuova storia d’amore.
Accartocciò il foglietto giallo e lo buttò in un cestino.
La cosa però la stuzzicava. Specialmente quando si ripeté.
Andò più o ...