Sei la mia vita
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Sei la mia vita

  1. 228 pagine
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Sei la mia vita

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Un'auto lascia Roma di primo mattino. Alla guida, c'è un affermato regista. Sul sedile accanto, l'uomo che da molti anni ama di un amore sconfinato. Dove stanno andando? Mentre la città si allontana e la strada comincia a inerpicarsi dentro e fuori dai boschi, il regista decide di narrare al compagno silenzioso il suo mondo «prima di lui»: «La mia vita è la tua e ora te la racconterò, perché domani sarà solo nostra». Inizia così un viaggio avanti e indietro nel tempo: i primi anni in Italia, dove era giunto dalla Turchia non ancora diciottenne con il sogno di studiare e fare cinema, le persone che hanno lasciato il segno, gli amici, gli amori, le speranze, le delusioni, i successi. Storie che conducono ad altre storie, popolate da figure indimenticabili e bizzarre: una trans egocentrica sul viale del tramonto, un principe cleptomane, un centralinista con il rimpianto della recitazione, una cassiera tradita dalle congiunzioni astrali, una bellissima ragazza dallo spirito inquieto. E poi, raffinati intellettuali, inguaribili romantiche, noti cinefili, amanti respinti e madri niente affatto banali. Sullo sfondo, il palazzo di via Ostiense dove tutto accade, crocevia di solitudini diverse, ma anche di intense amicizie e travolgenti passioni. Il palazzo che nel tempo si è trasformato, conservando però intatti i suoi più intimi segreti. E, soprattutto, la città di Roma, come nessuno l'ha mai raccontata. Gli anni Settanta-Ottanta e la contagiosa atmosfera di libertà senza freni, le lunghe estati nel segno della trasgressione, il femminismo, la progressiva presa di coscienza di sé della comunità gay, la solidarietà che cementa i legami, gli incontri folgoranti con alcuni protagonisti del cinema italiano, le stagioni, i luoghi e le voci di un passato ormai perduto per sempre. Tante storie, esilaranti eppure commoventi, che compongono «la Storia» di un'esistenza che si annulla in un'altra come estremo dono d'amore. Un Amore che non si arrende, un sentimento assoluto capace di resistere a qualsiasi prova. Con sguardo irresistibile, lieve e toccante al tempo stesso, al suo secondo libro Ferzan Ozpetek, il regista che più di ogni altro sa parlare di sentimenti, ci rivela un mondo sospeso tra lacrime e risate, fiction e realtà, fino all'epilogo, struggente e inaspettato. Un mondo che pare fatto della stessa materia dei suoi film. E che, pagina dopo pagina, ci incanta e ci colpisce. Proprio come la vita.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852064531
V

Una dea in parrucca

Ancora rivedo la scena. Siamo a letto, è tardi. La mezzanotte è già passata. Io leggo un libro di poesie, tu un romanzo. Ho scoperto da poco la poetessa polacca Wisława Szymborska e ne sono rimasto folgorato. Ogni tanto, ti recito ad alta voce qualche verso, tu chiudi gli occhi come per assorbirli meglio.
Ti sono sopravvissuta solo
e soltanto quanto basta
per pensare da lontano.
Fra tante, questa poesia mi aveva colpito. Come nessun’altra coglie il totale struggimento per l’assenza di chi ami, che diventa ancor più dolorosa se ripensi ai luoghi dove si è stati più felici. Sono versi così semplici, eppure profondi e veri che, anche adesso, mentre ci ripenso, un brivido mi trapassa il corpo da parte a parte.
«Come si intitola?» mi avevi chiesto.
«Addio a una vista
«Leggimene un’altra!»
Quanto ti piace startene sdraiato sotto le coperte, mentre io leggo ad alta voce articoli di giornali, poesie, interi capitoli di romanzi! Una volta mi hai confidato che ti fa tornare bambino, quando tua madre, alla luce tenue di un abat-jour, ti raccontava ancora un’ultima favola per farti addormentare. Ti avevano regalato un grande libro di fiabe dei fratelli Grimm, con enormi illustrazioni colorate, e tu non ti stancavi mai di ascoltarle. Per me la felicità è questa, mi avevi confessato, starmene tra le lenzuola, mezzo assopito, mentre una voce familiare mi conduce per mondi lontani e misteriosi, sapendo che non mi accadrà mai nulla di male.
Siamo ancora lì, tu e io. Sfoglio piano il libro della Szymborska, in cerca di altri versi.
Ed ecco che, con una tempistica perfetta, l’assurdo più sublime sceglie di fare la sua comparsa, interrompendo le nostre riflessioni.
«Ascolta! C’è di nuovo quel rumore!» esclami all’improvviso, appoggiandomi la mano sul braccio per catturare la mia attenzione.
Da alcune notti sentiamo quei colpi secchi, ripetuti, come se qualcuno stesse piantando sul muro un chiodo per un quadro. Non sappiamo esattamente quando siano iniziati, ma stanno diventando un appuntamento molesto.
Toc. Toc. Toc. Toc. Toc.
Sembrano venire da fuori.
Spinti più dalla curiosità che dall’irritazione, scattiamo verso la finestra, spalanchiamo vetri e persiane e ci affacciamo sul cortile.
Ritagliata nella luce fredda del lampione condominiale, una figura si agita su un balconcino a pochi metri da noi. È Vera. Sbatte qualcosa con forza contro la ringhiera. Sembra una parrucca.
Ci guardiamo increduli. Come possono dei capelli produrre un tale rumore?
«Amo’, che c’è di strano? Le do qualche colpetto di assestamento! Vorrei vedere te!… Dopo che ci spalmi il bostik da una vita, diventa dura come il ferro, sai? Come il ferro!» sarebbe stata la sua spiegazione il giorno dopo.
Vera è così. Una creatura che, fino all’ultimo, non ha rinunciato a produrre scompiglio con ogni mezzo, nella buona e nella cattiva sorte. Agitando piume colorate, sbattendo ciglia finte, rumoreggiando nella notte. Una creatura capace di irrompere nelle vite altrui con l’energia di una dea guerriera. Perché Vera, in quel suo modo cialtrone e sfacciato, eccentrico ed emarginato, possedeva l’inconsapevole grandezza degli eroi solitari.
Per anni l’ho incontrata per le scale sempre trafelata, che tornava a casa o si precipitava fuori, al «posto di combattimento». Lasciava dietro di sé una scia voluttuosa di Madame Rochas, il suo profumo preferito. Batteva su uno stradone vicino al raccordo anulare, a ridosso di un cavalcavia. Ma lavorava molto anche in casa, di solito nel primo pomeriggio. Diversi suoi clienti, infatti, erano impiegati statali con la propensione a divertirsi in pausa pranzo.
Molti se li era fatti grazie agli annunci che metteva periodicamente sul «Messaggero». Più di una volta, su sua richiesta, mi sono recato io stesso alla sede amministrativa del giornale per farli pubblicare. Perché, anche se non l’avrebbe mai ammesso, affrontare gli addetti e la loro becera ironia la faceva sentire a disagio. Lei che di notte non aveva paura di niente, alla luce del giorno, in quegli ambienti freddamente formali, dominati dalla burocrazia, provava vergogna di se stessa.
Me la vedo ancora davanti, nelle fredde sere invernali, uscire di casa tutta bardata. La corta pelliccia spelacchiata con le cosce bene in mostra, le enormi scarpe – portava il 43 – dalle zeppe chilometriche, che si era comprata a Parigi. Spesso si trascinava dietro un sacchetto di carbone che le serviva per accendere il fuoco sul viale.
Quando era venuta ad abitare in via Ostiense, si chiamava Mario e lavorava come coreografo al Club Méditerranée. Creava show en travesti, musical, balletti e spettacoli comici per allietare sciami di turisti nei villaggi vacanza d’Europa e non solo. Motivo per cui parlava un perfetto francese e inglese. Per anni si era speso alacremente per il divertimento altrui, finché non aveva appurato che fare la trans non solo era molto più remunerativo, ma assai gratificante.
La sua era stata una scoperta del tutto casuale. Per lavoro era spesso in giro per località turistiche o nella sede centrale di Parigi. Capitava, dunque, che durante le assenze lasciasse l’appartamento in prestito ad amici. Uno di questi, un bel giorno, pensò bene di subaffittare a sua volta i locali a un altro tizio. Così, quando Mario ritornò dall’ennesimo tour de force lavorativo, trovò la casa occupata da uno sconosciuto, per giunta convinto di potervi risiedere stabilmente. Volitivo e abituato com’era a farsi rispettare, ci mise un attimo a liberarsi dell’intruso e a riprendere pieno possesso dell’appartamento. Non poteva, però, certo immaginare che quel tipo, nel frattempo, avesse pubblicato su un quotidiano una serie di annunci nei quali offriva i suoi servigi, in qualità di «massaggiatore». L’indirizzo fornito ovviamente era via Ostiense…
Certo, se avesse voluto, avrebbe potuto chiarire subito l’equivoco. Ma non lo fece. Allettato dalla possibilità di provare nuove esperienze, lasciò, diciamo, che le cose facessero il loro corso. E con grande sorpresa scoprì quanto quell’attività fosse ben pagata: aveva trovato il modo di diventare ricco divertendosi! E poi, dato che da cosa nasce cosa, ci aggiunse la propria passione per gli abiti sottoveste e le parrucche.
Fu dunque per uno scherzo del destino che, quasi da un giorno all’altro, Mario si trasformò in Vera, il più famoso travestito di Roma. E quando, alla fine degli anni Ottanta, il palazzo era stato messo in vendita, lei era stata tra quelli che si erano potuti permettere di comprare il proprio appartamento. Nei tempi d’oro, infatti, aveva guadagnato molti soldi. Però, altrettanti ne aveva spesi. E, alla fine, l’unica cosa che le era rimasta era la casa.
Vera, comunque, se l’è sempre cavata. E nei momenti peggiori ha trovato chi l’aiutava. Per diversi anni, ogni mese, per tacito accordo, le ho passato 500 euro. A volte anche qualcosa di più.
Quante volte ci siamo affacciati alla finestra e lei era là, ricordi?, seduta al tavolino del bar, sul marciapiede di fronte a casa! Ordinava un cappuccino ed era capace di farselo durare un pomeriggio intero.
Ogni tanto, lanciava improperi irripetibili a qualche passante. Un giorno la vidi accanirsi con particolare trasporto contro una donna che abitava nel quartiere, il viso pallido e segnato, una grossa borsa della spesa in ciascuna mano.
«Zozzona!!!» sibilava facendo stridere ogni «z» in modo sinistro, appena la poveretta le si era incautamente avvicinata.
Come venni in seguito a sapere, la donna viveva nel palazzo di fronte al nostro e le sue finestre guardavano quelle di Vera.
«È da una vita che mi spia, quella schifosa!» mi informò lei, chiudendo l’argomento.
A volte, scendendo le scale inciampava rumorosamente, e questo accadeva sempre sul nostro pianerottolo. Attirato dal frastuono, aprivo la porta di casa ed eccola lì, appoggiata alla parete mentre si massaggiava il polpaccio da ciclista.
«Povera me, povera me!» si lamentava.
Era il suo modo, discreto, per ricordarmi che non le avevo ancora dato i soldi del mese.
Quando te l’ho presentata aveva già superato i sessant’anni. Fosse stato per lei, avrebbe continuato a battere ogni notte. Avrebbe ancora pubblicato gli annunci sul «Messaggero» e ricevuto i clienti in pausa pranzo. Il problema è che la sua merce si era deteriorata.
A quarant’anni, però, faceva faville. Ogni festa, locale, evento, decollava quando, a una cert’ora, mai troppo presto, arrivava lei, in tutto il suo splendore. Indulgente con se stessa e spietata con tutti gli altri, sfacciata e inossidabile, si era presa il proprio spazio nel mondo e se ne infischiava di chi, invece, e non erano pochi, la vedeva come fumo negli occhi.
Portava dentro di sé un inestinguibile fuoco, una bramosia d’avventura che la spingeva a flirtare con il pericolo, senza sosta. Anche la sua vita precedente, però, era stata all’insegna della trasgressione. Nata in un piccolo paese dell’Agro Pontino, era scappata a 14 anni da casa per fare il ballerino, sogno che poi l’avrebbe portata fino a Parigi, ai café-chantant delle drag queens e, poi, infine, al Club Méditerranée. Se ci pensi, la sua storia ha qualcosa di paradossale: solo quando Vera ha deciso di non togliersi più gli abiti di scena, ha potuto essere se stessa. E una volta donna, ha conquistato il centro del palcoscenico della vita.
Se le facevi un torto, sapeva essere vendicativa come una dea primitiva. Eppure, in alcune circostanze, oltre gli strati di make-up, sotto quella pelle dura come cuoio, ruvida e abbronzata, il suo cuore poteva diventare sorprendentemente morbido e delicato, come tuorlo d’uovo.
Si divertiva a sedurre schiere di devoti padri di famiglia con le sue provocazioni ed era in grado persino di sbaragliare un manipolo di picchiatori omofobi, con qualche colpo ben assestato fra i testicoli. Eppure, le bastava ricevere una telefonata da casa o, peggio, un invito a una ricorrenza familiare per piombare nella più nera disperazione.
Ai genitori non aveva mai detto nulla. Una famiglia semplice e tradizionale, la sua, agricoltori da diverse generazioni. Se n’era andata da giovane uomo, e tale per loro era rimasto.
Per sua fortuna, i rapporti con i genitori erano rari e, quanto a lei, si guardava bene dallo stimolarli. Quelle poche volte che riceveva notizie da casa, però, tutta la sua sicurezza andava in pezzi. Diventava un pulcino smarrito e piagnucolante.
Fu quello che accadde quando la madre la informò che una sua cugina si sarebbe presto sposata. Vera, anzi, Mario, era invitato al matrimonio. Seppure tra mille patemi, finora, in occasioni simili, se l’era cavata tornando semplicemente a vestirsi da uomo. Nel frattempo, però, alcune cose erano cambiate. A iniziare dal seno. Vera se l’era appena fatto ritoccare e ora lo esibiva più prorompente che mai.
«Se non ci vado è peggio. Poi quelli si insospettiscono! Vengono qui e mi scoprono!» gemeva disperata.
La sua più grande preoccupazione era deludere Enzo, l’amatissimo nipote, un ragazzo di circa vent’anni, che le chiedeva soldi di continuo. Vera ne parlava spesso e con adorazione. Una volta era stata capace di mandargli un milione di lire come regalo di compleanno.
Eravamo, manco a dirlo, in terrazza, sotto il tiepido sole di una domenica di inizio primavera. Avevamo riunito il consesso degli amici per trovare una soluzione. E alla fine decidemmo all’unanimità che si sarebbe vestita comunque da uomo. Le tette, dopotutto, non erano un problema irrisolvibile.
Il matrimonio era il sabato seguente. Quel giorno Valerio e io ci svegliammo all’alba per aiutarla a prepararsi. Un amico infermiere all’ospedale Gemelli ci aveva fornito una benda elastica con la quale le fasciammo il seno talmente stretto che ebbi paura che non riuscisse più nemmeno a respirare.
Valerio le prestò il completo scuro che aveva comprato per la cerimonia di laurea e che da allora non aveva più indossato. La giacca le tirava di spalle e i pantaloni le stavano un po’ lunghi – Valerio era più alto di almeno dieci centimetri – ma nel complesso poteva andare.
L’altro problema erano le sopracciglia depilate, che Vera si ridisegnava con il kajal. E, poi, avrebbe dovuto rinunciare alla parrucca, il che andava oltre ogni suo limite di sopportazione.
Dopo innumerevoli prove e crisi di pianto, optammo per un paio di occhiali scuri e un cappello a falde larghe tipo Borsalino, sempre di Valerio, l’elegantone del gruppo. Non se li sarebbe mai tolti, nemmeno in chiesa, a costo di apparire maleducata e persino irrispettosa, dichiarò Vera con voce da martire. A ogni buon conto, per non dare troppo nell’occhio, le consigliammo di sistemarsi durante la funzione negli ultimi banchi, in fondo. Anzi, magari avrebbe potuto limitarsi a fingere di entrare, per poi appostarsi sul sagrato.
«Come strategia difensiva, potresti portarti dietro un sacchetto di riso, da gettare in faccia a chiunque ti guardi con sospetto» le suggerii ironico. Non mi rispose neppure.
Le ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Sei la mia vita
  4. Prologo
  5. I. Via Ostiense
  6. II. E se…
  7. III. Una sera sul Ponte Sisto
  8. IV. La seconda primavera
  9. V. Una dea in parrucca
  10. VI. Il dono più bello
  11. VII. Il Buco
  12. VIII. L’amore che uccide, l’amore che salva
  13. IX. Il coraggio di essere se stessi
  14. X. Danzando con il fuoco
  15. XI. Il principe dei ladri e la cassiera tradita dalle stelle
  16. XII. I luoghi del cuore
  17. XIII. La cena degli addii
  18. Epilogo
  19. Copyright