Ogni conquista, anche la più piccola, la più insignificante esige uno sforzo. Tu punta sempre al massimo, chiedi a te stesso più di quello che a se stessi chiedono gli altri. Gioca le tue carte al meglio, ma non prefiggerti troppi obiettivi. Scegline uno per volta e non lasciare nulla d’intentato per raggiungerlo. Non distrarti, che non significa negarti agli svaghi della tua età, ai passatempi che, se non ti temprano, ti rilassano. Fai la tua vita, la vita di un giovane, e non perdere la gioia di vivere, neanche nei momenti difficili, in quelli che sembrano togliertene il piacere.
Sii risoluto, ma non imperioso; dolce, ma non arrendevole; fiducioso, ma non corrivo; ironico, ma non sarcastico; ottimista, ma non troppo sognatore; serio, ma non serioso; semplice, ma non sciatto; tollerante, ma non indifferente; buono, ma non buonista.
Molti cercheranno di contrastarti, mossi dall’invidia, dalla gelosia o dalla cattiveria, ma tu tira diritto. Non scendere a compromessi disonorevoli e non subire ricatti. Le difficoltà non ti mancheranno, ma, se non ti perderai d’animo e saprai affrontarle, ne avrai ragione. Capiterà anche a te, come è capitato a me, di avere la peggio, di ricevere immeritati rimproveri o di subire palesi ingiustizie. Metti quelli e queste nel conto e ribellati alla sorte ostile, memore di quel che diceva il mio mentore Seneca (fallo anche tuo): “La virtù senza le avversità marcisce”.
Guardati dagli adulatori che ti lodano non perché ti ammirano e vogliono emularti, ma per vellicare la tua vanità e invischiarti nelle loro fatue e perfide spire. Ama le cose belle: la grande musica, la grande arte, i grandi scrittori e, nei momenti di sconforto, affidati alla natura, che ti stupisce con le sue prodigiose epifanie e metamorfosi e ti turba con i suoi infiniti arcani, ma che mai t’ingannerà o tradirà.
Non sentirti solo, soprattutto quando sei solo: le risorse dentro di noi sono infinite. Giudica gli altri per quello che sono, non per quello che sembrano o per quello che hanno. Riponi la tua fiducia solo in chi la merita e fai di tutto per riscuotere quella di chi stimi.
Spesso chi mi legge pensa che io sia un cinico, confondendo il cinismo con il realismo. Io, oggi, con l’esperienza che ho alle spalle, le cose le vedo come sono, non come vorrei che fossero. La vita la conosco, e la conosco bene. Ho avuto i miei alti e bassi, come tutti. Non mi sono mancati i fiori e le rose, ma quante spine mi hanno punto, anche in profondità. Sono pieno di cicatrici ma, tutto sommato, ne sono fiero. Fiero perché mostrano che ho combattuto tante battaglie e nessuna mi ha lasciato sul campo. Niente, per chi sa farne tesoro, è più istruttivo e prezioso di una sconfitta. L’importante è rialzarsi, riprendere in mano le armi, indossare di nuovo la corazza e tornare alla carica. Chi rinuncia alla lotta non è solo un debole, ma anche un pusillanime, a meno che le forze, tutte le forze fisiche e morali, non lo abbiano abbandonato. Ma le forze fisiche e morali abbandonano solo chi ha perso irrimediabilmente la salute.
È vero, io vedo sempre più spesso nero. Un po’ perché questa è la mia natura, un po’ perché, secondo me, e non solo secondo me, la vita è più una via crucis che un giardino delle Esperidi. L’uomo è nato per soffrire e ci riesce così bene che soffre dalla culla alla tomba, con brevi, e spesso casuali, tregue. Non chiedetemi perché. Non lo so e non lo saprò mai. Chi dice di saperlo o è un impostore o è un imbecille.
Sono pessimista, ma il pessimista è un ottimista deluso e bene informato, uno che ha finalmente capito come stanno le cose, come gira la ruota, come va il mondo. Vi è mai capitato di leggere uno dei più grandi libri della letteratura francese, e non soltanto di quella francese, Candido di Voltaire? È la splendida satira del pensiero di Leibniz tanto amato dagli ottimisti, a cominciare dal professor Pangloss, maestro di Candido. Il quale, a dispetto di tutte le traversie subite, di tutti i guai passati, ha ancora fiducia nell’umanità, convinto che quel che succede sulla terra – anche le guerre, le rivoluzioni, le stragi, i terremoti, i maremoti, i colossali incendi che radono al suolo città come Lisbona – sono mali solo apparenti. A scatenare queste Erinni non è il caso, ma la necessità, a maggior profitto e gloria di chi ne è vittima.
Veniamo cacciati dalla patria, messi al bando, umiliati, perseguitati, banditi? Nostra moglie ci abbandona, perdiamo il lavoro, i genitori, gli amici? Non sappiamo più dove battere la testa, siamo al verde, con addosso un abito cencioso e maleolente? Ci buschiamo l’Aids e altre immonde malattie, moriamo di fame, di sete, di stenti? Perché lamentarsi, recriminare, imprecare, ribellarsi al fato ostile? C’è una legge superiore, che non conosciamo, ma sappiamo esista, che ha deciso così nel nostro interesse. Se ci ribelliamo, contravveniamo a questa legge, e chi l’ha emanata e ha il compito di farla rispettare punirà con implacabile severità la nostra improvvida trasgressione. Felice, alla resa dei conti, sarà solo chi subirà la sorte avversa, si piegherà al destino maligno.
L’ultimo consiglio che il saggio Pangloss dà al pupillo Candido è questo: “Coltiva il tuo orticello e non pensare ad altro”. È una scelta anche questa, ma non è la nostra. Una scelta che lasciamo volentieri agli ottimisti, a quelli che, di fronte a un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto, lo vedono tutto pieno così come noi lo vediamo tutto vuoto. Ognuno è fatto a modo suo, e noi siamo fatti così.
Del resto, le avversità, i rovesci, le amarezze, i dolori, e anche le umiliazioni e le mortificazioni, li abbiamo messi nel conto. Questo, come ho detto, sarà pessimismo, ma è anche realismo. Fra l’altro, il pessimista ha il vantaggio – e non è un vantaggio da poco – di non andar incontro a troppe sorprese, di risparmiarsi molte delusioni, di evitare tanti inganni.
Provate a rispondere: è meglio affrontare una situazione difficile paventando più insidie di quante effettivamente minino il percorso o immaginando questo scevro di sgradevoli imprevisti e sicuro? Io, forse a torto (o a ragione?), credo che sia meno temerario e rischioso, quindi più saggio, immaginare il peggio per agguerrirsi meglio. Se penso che i ladri non verranno mai a casa mia, in virtù e nella presunzione di chissà quale immunità e, quindi, non prendo le mie precauzioni, non chiudo le porte, sarò molto più esposto a visite indesiderate e indifeso. Se l’occasione fa l’uomo ladro, fa il ladro ladrone.
Morale: non cediamo troppo all’entusiasmo, ricordiamoci che la vita è una lotta continua e il nemico è sempre in agguato. Pensiamo pure positivo, ma con pessimismo. Senza, cioè, farci soverchie illusioni. Né su di noi né sugli altri.
La vita, l’uomo la trascina. C’è chi la trascina meglio, chi peggio, ma tutti la trascinano. Non chiedetemi perché: non lo so. Se avessi quella fede che mi manca, ma che un giorno potrebbe illuminarmi, mi sarebbe più facile, molto più facile, capire e spiegare il perché dell’esistenza. Ma questa è un mistero, un mistero per tutti. Un mistero che nessuno, nemmeno chi pretende di avere gli strumenti per penetrarlo, riuscirà mai a svelare.
Se la vita non fosse un immenso, insondabile arcano, forse soffriremmo ugualmente. O, addirittura, soffriremmo di più. Il futuro è meglio non conoscerlo, anche perché non è fatto solo di gioie e di piaceri, ma anche, anzi soprattutto, di dolori e di rovelli. Meglio non immaginarlo, il futuro, perché, se ostile o tragico, ci renderebbe la vita impossibile. La sola certezza è la morte. Una certezza assoluta che, lungi dal farcela accettare, ci tormenta e ci angoscia. È davvero singolare, e forse provvidenziale, che pensiamo così raramente di doverci, un giorno, congedare dal mondo. Sfidiamo presuntuosamente il tempo e, se esiste, Dio, ignorandone gli immutabili decreti e gli implacabili verdetti.
Non è facile concentrarsi sull’ineluttabilità e la perentorietà di un epilogo cui nessuno è mai sfuggito, e mai sfuggirà. Ma è la nostra fortuna, la nostra effimera salvezza.
Detto questo, va anche detto che la vita dobbiamo trascinarla con coraggio e vigore, come un fardello che non riusciamo a sollevare, ma che il destino ci ha messo sulle spalle senza spiegarci il perché. Guai a farsi sopraffare dalla sorte maligna. Se, alla fine, alla resa dei conti, sarà lei a fissarne l’ammontare e a esigerne il saldo, a noi resterà la soddisfazione di non esserci ribellati alla soma, anche se, in certi momenti, essa sembrava soverchiare le nostre forze. L’importante è non farsi trascinare indolentemente dal fato, ma secondarne con virile consapevolezza il corso. Un corso che non abbiamo tracciato noi, ma qualcuno che non conosciamo e, forse, non conosceremo mai.
Quanto al Moloch che ficca il naso e allunga i perversi tentacoli sui nostri affari personali, sulla nostra vita privata, non c’è niente da fare.
Non confondiamo il progresso con la civiltà. Il progresso è scienza e tecnologia; la civiltà, conquista morale e spirituale. Demiurghi del primo sono stati Galileo, Newton, Einstein e, più vicino a noi, e contemporaneo, Bill Gates. Artefici della seconda, Platone, Seneca, Kant, grandi pensatori del passato, ma anche Bach, Beethoven, Mozart, sommi e ispirati compositori.
Il progresso è spietato, e nessuno l’arresta. È una sfida che la ragione lancia a se stessa, esaltandosi e imponendosi. Il progresso ha le sue leggi, le sue regole, cui è impossibile, e quindi inutile, sottrarsi individualmente. La sola speranza dell’uomo riflessivo e avveduto, dell’uomo che vuole capire e cercare le ragioni delle cose, anche di quelle che apparentemente non sembrano averne alcuna, le ragioni per i profani più insignificanti, è che, al di là, ci sia qualcosa.
Se il mondo deve cambiare perché non può non cambiare, pena la paralisi e l’estinzione, cambi pure, ma non diventiamo robot, burattini, uomini a una dimensione, tutti uguali di fronte a una legge che farà sempre eccezioni e distinguo, e di fronte a un potere che questa legge amministrerà a proprio uso e consumo, a proprio insindacabile giudizio e arbitrio.
Quando Orwell, trentacinque anni prima, pubblicò 1984, prefigurando l’avvento di un “Grande Fratello” che aggioga l’uomo alla sua tenebrosa volontà, al suo occhiuto, implacabile controllo, molti pensarono che fosse l’incubo di un visionario, il delirio di un folle. E, invece, era una terribile, torva profezia che, scevra di oniriche suggestioni e di cupe sudditanze, si sarebbe puntualmente avverata.
A questo Moloch niente sfugge. Niente, a parte la coscienza di chi si ribella al plagio inesorabile, alla perversa sottomissione.
Non è facile definire l’amicizia, sentimento fra i più nobili e belli e, proprio per questo, fra i più rari. Più raro dell’amore perché la sua essenza non è la passione, ma il sentimento. Nell’amicizia non c’è la diffidenza che c’è anche negli amori più forti, ma la fiducia. Una fiducia fondata sulla stima. Io posso amare una donna malvagia e volgare, una megera calcolatrice e fedifraga, ma non potrò mai esserle amico. Potrò solo essere amico di chi ha la mia stessa sensibilità, la mia stessa lealtà, i miei stessi gusti e disgusti, la mia stessa morale, i miei stessi principi, di chi condivide con me quei valori che rendono la vita degna di essere vissuta, e senza i quali, prima degli altri, tradiremmo noi stessi.
L’amicizia ha un costo, ma i benefici che la ripagano non hanno prezzo. Ci s’infiamma per una donna o per un uomo anche a prima vista, e quando il nostro cuore batte per un altro o per un’altra, i suoi palpiti sfuggono a ogni controllo. Quando l’attrazione fisica diventa imperiosa e irresistibile, noi ne cadiamo in balia e solo il suo appagamento ci restituisce, con la pace dei sensi, quella dello spirito e quel discernimento che ci consente di valutare con lucidità e senza pregiudizi gli accadimenti esterni, i loro protagonisti. L’amicizia è una conquista lenta e progressiva che può anche richiedere anni. Finché non si penetra nell’animo del futuro sodale, sviscerandone le intime pieghe, svelandone i segreti, scoprendone le debolezze, ma anche la forza, i vizi e le virtù, le abdicazioni e le aspirazioni, finché, insomma, non sapremo tutto, o tutto quello che è possibile sapere di un altro essere umano, l’amicizia non avrà il definitivo suggello.
L’amore, più coinvolgente e travolgente di qualunque amicizia, anche la più antica, la meglio collaudata, la più nobile, è, per sua stessa natura, destinato, se non a passare, a scemare, volgendosi, se autentico, in affetto, che non esclude l’amicizia, ma la contamina, senza svilirla o involgarirla, con l’intimità e l’appagamento dei sensi. L’amicizia, proprio perché non ha altri fini se non quello di arricchirsi e di consolidarsi, può durare tutta una vita. Patroclo fu sempre amico di Achille, Eurialo di Niso, Oreste di Pilade, Enea di Acate. Nessuna sfida perduta per colpa di un amico, nessuna prova fallita per la sua inesperienza scalfiscono l’intensità e la luminosità di questo sentimento. Si è amici sempre, ovunque, e nessuna avversità, per quanto severa, potrà far vacillare il potente legame.
L’amico, il vero amico, non ci volge mai le spalle ed è sempre pronto ad accorrere in nostro aiuto, a starci vicino, a confortarci, ad asciugare le nostre lacrime perché è parte di noi.
Mentre l’amore invoca la vicinanza, senza la quale si dispera o sfiorisce, l’amicizia, proprio perché cementata dalla stima, può tollerare il suo opposto, la lontananza. Possiamo sentire estraneo chi lavora al nostro fianco o frequenta il nostro stesso ambiente e riscoprire, dopo tanti anni, un amico di cui avevamo perso le tracce per una necessità del destino, per un capriccio o un dispetto del volubile, imprevedibile fato. Ma nel momento stesso in cui lo riabbracciamo, anche senza parlare, ritroviamo l’antica sintonia. E questo perché il vincolo profondo che ci univa, forse senza che ce ne rendessimo conto, non si era allentato né alterato: era rimasto quello di sempre, di quando avevamo scoperto che le nostre anime vibravano all’unisono.
Purtroppo non tutti coloro che si proclamano amici sono amici. C’è chi ci offre il suo braccio e il suo conforto, chi ci attesta la sua devozione non perché amico nostro, ma della nostra fortuna. Quando questa ci abbandona, anche il sedicente amico, con pretestuosi distinguo o con penose menzogne, o senza troppe spiegazioni, con cinismo e ingratitudine, si allontana da noi, salvo rifarsi vivo se la buona sorte torna a dispensarci i suoi favori, nella speranza, o nell’illusione, di esserne nuovamente partecipe e beneficiario.
Se si hanno amici, amici veri, teniamoceli stretti. Ma prima accertiamoci che nella disgrazia saranno al nostro fianco e, se cadremo, si contenderanno il soccorso. Facciamo tesoro delle parole di Hubbard: “Amico è chi sa tutto di te e nonostante questo gli piaci”. O di Joubert: “Quando i miei amici sono guerci, li guardo di profilo”. O del grande Francis Bacon: “L’amicizia raddoppia le gioie e divide a metà le sofferenze”.
Conosco bene la depressione. La prima volta che mi colpì, ghermendomi alle spalle in modo subdolo, ma inesorabile, avevo ventitré anni e mi trovavo negli Stati Uniti. Una sera non riuscivo a prendere sonno e davo la colpa al caldo umido e afoso di New York. Non capivo quel che mi stava succedendo, ma sentivo che mi stava succedendo. Qualcosa di misterioso e d’insidioso, d’indecifrabile e d’ineffabile. Avvertivo una strana tristezza, un turbamento interiore mai provato. Il mio spirito era inquieto, la mia volontà aveva perduto ogni nerbo, ogni stimolo reattivo. Piano piano, con serpentina, tortuosa invasività, il passato m’imprigionò. Ma non il passato prossimo, quello che era successo ieri o ieri l’altro; no: il passato remoto, di cui credevo di avere perso memoria, che m’illudevo di aver archiviato. Mentre lo avevo solo rimosso, sepolto in quella fossa dei serpenti, anticamera e incubatrice della follia, che è dentro di noi, e che sprofonda negli abissi i più sventurati. Mi assalirono atroci, incomprensibili sensi di...