La grande guerra (HISTORY)
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La grande guerra (HISTORY)

I segreti della Prima guerra mondiale

  1. 372 pagine
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La grande guerra (HISTORY)

I segreti della Prima guerra mondiale

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I primi carri armati. I primi aerei. Le prime armi chimiche. La Grande Guerra è stata la prima guerra moderna, rivoluzionaria nella tecnologia ma anche orribile nelle conseguenze: oltre 16 milioni di morti e 20 milioni di feriti. A un secolo dallo scoppio del primo conflitto moderno, questo volume offre un'ampia documentazione sugli avvenimenti storici di quegli anni. Nelle sue pagine, il lettore potrà ripercorrere il passaggio dalla vita tranquilla e idilliaca, che si rifletteva nella produzione culturale della fine del diciannovesimo secolo, a un periodo connotato dalla brutalità e dal terrore della guerra, e troverà un'analisi approfondita della situazione geopolitica e dei cambiamenti avvenuti nella bilancia economica e commerciale mondiale, cambiamenti che hanno tracciato in gran parte i confini territoriali attuali. Inoltre La Grande Guerra ricostruisce la vita quotidiana al fronte e le principali innovazioni tecnologiche protagoniste del primo conflitto mondiale (carri armati che scuotevano i campi di battaglia, sottomarini che agitavano i mari e aerei che striavano i cieli) con i tremendi risvolti di questa evoluzione: le truppe diventano cavie per testare micidiali armi chimiche e le città vengono sommerse dalle macerie dei bombardamenti.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2015
ISBN
9788852064791
Argomento
Historia
Parte terza

VIVERE LA GUERRA

7

La guerra dei soldati

Quando scoppiò la Prima guerra mondiale, nell’estate del 1914, un’intera generazione di giovani si riversò allegramente nelle strade d’Europa per celebrare l’avvenimento che avrebbe cambiato le loro vite. Pochissimi tra loro avevano idea di quanto la guerra li avrebbe trasformati. Nel 1918 solo alcuni riuscirono a fare ritorno a casa, gravati da ferite fisiche e spirituali di ogni genere; e molti di coloro che tornarono furono incapaci di adattarsi a una società di cui avevano smesso di fare parte quattro anni prima. Quali furono le esperienze di quegli uomini? Perché tanti si lanciarono con entusiasmo in un’ecatombe senza precedenti? Come reagirono a ciò che trovarono sul fronte di guerra?
Sono domande a cui la storia tradizionale, la Grande Storia, non ha dato risposte per decenni, concentrata com’era sui processi politici ed economici e sui personaggi pubblici che determinarono gli eventi. Da qualche tempo, però, gli storici dei cinque continenti si dedicano a capire quale fu davvero l’esperienza di coloro che combatterono, lottarono, resistettero e morirono sui campi di battaglia. Sono andati alla ricerca delle fonti che ci parlano di quegli uomini, recuperando per noi un autentico fiume di lettere, diari, memorie. Questo ricco materiale si è dimostrato fondamentale per comprendere la dimensione umana della tragedia che fu la Grande Guerra. Grazie al lavoro di storici come Paul Fussell, Marc Ferro o Peter Englund quei soldati oggi possono raccontare a tutti noi che cosa furono la vita e la morte al fronte. L’operazione di recupero della memoria non ufficiale della guerra è appena iniziata, ma ciò che è stato recuperato già ci permette di dare una voce e un volto a chi sopravvisse alla distruzione, come a chi ne fu travolto e tuttavia cercò di lasciare una traccia, perché gli uomini non dimenticassero.
Negli ultimi giorni di luglio e nei primi di agosto del 1914 le potenze europee si abbandonarono a una guerra che avrebbe coinvolto non soltanto il continente, ma anche buona parte della popolazione mondiale. Ancora oggi è difficile comprendere perché gli Stati più ricchi e civilizzati della storia si fossero divisi in due blocchi contrapposti, avventurandosi in un conflitto senza che esistesse – almeno oggi ai nostri occhi – una ragione sufficientemente grave. La scintilla che provocò l’incendio fu l’assassinio dell’erede al trono dell’impero austro-ungarico, a Sarajevo, il 28 giugno 1914. Ma secondo le logiche dell’epoca un fatto simile avrebbe dovuto provocare “soltanto” un conflitto regionale, tra l’antico Stato degli Asburgo e il giovane regno di Serbia. Invece una serie di correnti interne ai diversi paesi, attive già da decenni, finirono per esasperare la situazione, tanto da scatenare le forze più incontrollate e incontrollabili. La Germania e l’Austria-Ungheria si lanciarono in una guerra contro Russia, Francia e Regno Unito, alleati di Serbia e Belgio, nella quale poi sarebbero stati coinvolti attivamente quasi tutti gli altri Stati europei, portando a una catastrofe senza precedenti.
Si sarebbe potuta evitare quella guerra? Questa domanda è risuonata nelle coscienze fin dall’inizio del conflitto. Ma i governi e le popolazioni di molti Stati in realtà si preparavano da decenni a una lotta che mettesse fine al lungo periodo di pace inaugurato nel 1871 e interrotto soltanto da piccoli conflitti periferici, che non avevano mai portato a uno scontro aperto fra le grandi potenze. Nonostante proclamassero che la pace era uno degli obiettivi della loro politica, i maggiori paesi d’Europa si armavano fino ai denti già dagli anni Novanta del XIX secolo, spinti dalle rivalità politiche ed economiche che intaccavano lentamente e quasi impercettibilmente le relazioni internazionali. Ma non si trattava solamente di una corsa agli armamenti. Tutti sapevano che i protagonisti dello scontro finale, gli elementi chiave delle strategie belliche sarebbero stati gli uomini e, più esattamente, il numero di uomini che ogni paese sarebbe stato in grado di mobilitare nei primi giorni di conflitto. Purtroppo questi pedoni sulla scacchiera dei grandi strateghi non erano che esseri umani, per di più neppure lontanamente preparati a ciò che stava per accadere.

Un’allegra partenza

I militari ritenevano che il numero di uomini che si sarebbe potuto mobilitare nei primi giorni di guerra fosse il fattore essenziale per assicurarsi un vantaggio, in previsione di uno scontro nel quale le forze si sarebbero dimostrate molto equilibrate. Nei decenni precedenti gli Stati europei si erano dedicati a predisporre i mezzi politici, economici e amministrativi per mettere in marcia, in caso di necessità, il loro potenziale umano. Nel XIX secolo gli Stati liberali nati dalle rivoluzioni e dai processi unitari che spazzarono via il vecchio ordine dell’assolutismo avevano istituito il servizio militare obbligatorio in tempo di pace. Il Regno Unito fu l’unica potenza in cui non fu introdotta la leva obbligatoria, altrimenti ritenuta il mezzo migliore per catechizzare le persone sul dovere di difendere il proprio paese. Per fronteggiare la crescita delle rivalità internazionali e la corsa agli armamenti, negli anni precedenti il 1914 si misero in atto vasti piani di reclutamento: la Germania, molto preoccupata dalla disponibilità di effettivi dell’esercito russo (che superava il milione di soldati), diede avvio a un programma d’incremento dell’esercito; la Francia rispose portando da due a tre anni la durata del servizio militare, come già avveniva in Germania.
A tutto questo bisogna sommare un fattore all’epoca totalmente nuovo. Come afferma lo storico britannico Michael Howard analizzando la risposta popolare alle dichiarazioni di guerra dell’estate 1914: «Ovunque il popolo sosteneva il proprio governo. Non era una guerra “limitata” tra gli Stati sovrani. La guerra era diventata una questione nazionale». Ciò fu possibile perché nel XIX secolo i paesi europei avevano sviluppato programmi per l’istruzione obbligatoria fortemente improntati dal nazionalismo, affinché i bambini andassero a scuola e ricevessero una formazione basata sul riconoscimento della propria identità nazionale. Paradigmatico, al riguardo, fu il caso della Terza repubblica francese, che dal 1871 istituì l’istruzione nazionale pubblica, gratuita, obbligatoria e laica, che forgiò l’identità nazionale francese e fece praticamente sparire le antiche identità regionali bretoni, occitane, provenzali, borgognone... I proclami ufficiali che all’inizio della guerra avrebbero chiamato i giovani a imbracciare le armi per difendere il paese in pericolo poterono così fare affidamento su un pubblico pronto a rispondere all’appello. Lo scrittore austriaco Stefan Zweig ricorda nelle sue memorie le reazioni alla dichiarazione di guerra: «A Vienna trovai la città tutta in preda all’ebbrezza. Il primo spavento di fronte a una guerra che nessuno aveva voluto, né i popoli, né i governi, a una guerra guizzata fuori dalle mani maldestre dei diplomatici contro le loro stesse intenzioni, si era trasformato in un improvviso entusiasmo. Si formavano spontanei cortei per le strade, dovunque fiammeggiavano impetuosamente le bandiere, echeggiava la musica e le giovani reclute passavano in trionfo, con volti luminosi: perché si sentivano acclamati, loro, quei piccoli uomini del mondo di tutti i giorni, che nessuno di solito osservava o festeggiava».
Gli storici hanno messo in evidenza che esistevano anche fattori culturali che favorirono il coinvolgimento entusiastico della gente comune. La monotonia e le frustrazioni che il lavoro industriale e la vita moderna causavano a chi viveva nelle città generavano un’insoddisfazione, nascosta ma in costante crescita, che spinse molti a desiderare un evento drastico, che portasse una ventata di novità in una vita alienante. Questa insoddisfazione permise alle propagande nazionali di avere enorme efficacia all’inizio del conflitto e nelle città di tutto il continente vi furono reazioni d’entusiasmo a sostegno della guerra.
Nei primi giorni la mobilitazione interessò soprattutto soldati e riservisti, ma fin dall’inizio ci furono appelli insistenti per l’arruolamento dei volontari, fatto che si rivelò d’importanza vitale per alcuni paesi, come per esempio la Gran Bretagna, che aveva soltanto un piccolo corpo di spedizione da impiegare nell’Europa continentale, dato che il resto delle truppe si trovava nelle colonie.
Gli specialisti in materia non si sono ancora accordati sul numero di effettivi mobilitati nell’estate del 1914, ma sembra che fossero più di dieci milioni. In alcuni paesi le coincidenze nelle mobilitazioni furono sorprendenti. Sia la Germania sia la Francia riunirono circa tre milioni di uomini ciascuna e i soldati, in un momento di esaltazione, decorarono i vagoni dei treni su cui viaggiavano con le scritte «Nach Paris» e «À Berlin» (“A Parigi” e “A Berlino”, rispettivamente in tedesco e in francese). Altri casi furono molto diversi. L’impero austro-ungarico mobilitò un numero ancora superiore di uomini, di undici nazionalità differenti, che parlavano lingue molto diverse. Nel corso della guerra questa eterogeneità fu tra gli elementi che fecero dell’esercito un conglomerato umano praticamente ingovernabile. Nel caso dell’impero russo la caratteristica principale sarebbe stata l’origine contadina della maggior parte dei soldati. Il processo di industrializzazione e di modernizzazione sociale era penetrato con intensità diversa nei vari paesi europei e la Russia, nonostante i progressi realizzati negli anni immediatamente precedenti il 1914, continuava a essere un paese prevalentemente rurale. Se nelle potenze più avanzate il nazionalismo delle masse fu essenziale per rendere più efficaci le argomentazioni dei governi, in Russia fu la tradizionale sottomissione allo zar, oltre che la benedizione della Chiesa ortodossa, ad avere un ruolo determinante per la mobilitazione. Con il passare degli anni e il protrarsi delle ostilità tali risorse avrebbero dimostrato d’essere meno solide di quanto non pensassero il governo e l’aristocrazia dell’impero.
Alcuni soldati misero per iscritto le loro impressioni al momento di partire per la guerra. Il ventenne tedesco Herbert Sulzbach servì nell’esercito del suo paese e tenne un diario. All’inizio del settembre 1914 scriveva: «Siamo i primi del pugno di volontari che arriveranno al fronte. Siamo partiti dalla stazione merci e ho provato una strana sensazione, era una miscela di felicità, esaltazione, orgoglio, emozione per l’addio e consapevolezza dell’importanza del momento. Eravamo tre batterie e abbiamo sfilato in formazione chiusa per la città, tra gli evviva degli abitanti».
I militari che partivano per il fronte non erano i soli a sapere che la guerra che stava per iniziare era un momento di grande importanza storica. Anche molti civili tennero diari di guerra, come la dodicenne tedesca Elfriede Kuhr, che ci ha lasciato la sua testimonianza sulla partenza dei soldati: «Poi apparve il centoquarantanovesimo [reggimento di fanteria] in formazione chiusa, avanzando sul binario come un’onda grigia. Tutti i soldati avevano appese al collo grandi ghirlande di fiori estivi. Mazzi di aster, come se andassero a sparare fiori contro il nemico. I soldati erano molto seri. Mi aspettavo che ridessero ed esultassero [...] Adesso la banda suonava Vostri saranno gli allori della vittoria. La gente nella piazza agitava cappelli e fazzoletti. Nel vagone di coda i riservisti imitavano i musicisti con le mani e con la bocca e facevano ridere tutti [...] Poi il treno dei riservisti partì, i riservisti cantavano e gridavano “Evviva!” e noi agitammo le mani finché non lo perdemmo di vista».
Le immagini degli uomini che partivano per il fronte non furono molto diverse nelle città extraeuropee. Nei territori coloniali a maggioranza bianca dell’impero britannico, la chiamata alle armi contro la minaccia tedesca fu percepita come una grave urgenza. Il sentimento di vicinanza alla madrepatria, dovuto a legami familiari e culturali (quasi tutti i giovani che si arruolarono erano figli di emigranti arrivati dalle isole britanniche), fu il motivo principale per il quale i volontari presto riempirono le navi in partenza da Canada, Nuova Zelanda, Australia e Sudafrica. Si mobilitarono addirittura le truppe del più poderoso esercito britannico, quello indiano (si calcola che nel corso della guerra furono un milione gli indiani che lasciarono il proprio paese per prestare servizio militare) e i soldati arrivarono anche da luoghi esotici quali le Indie occidentali britanniche. Nota lo storico Niall Ferguson: «Il Corpo di spedizione britannico [fu] un’impresa completamente multinazionale che, a differenza degli omologhi austriaco e russo, riuscì in certa misura a resistere alle profonde divisioni etniche e spesso a una guida deplorevole». Anche così, i calcoli sulla durata della guerra si rivelarono errati. Nel primo anno e mezzo del conflitto, 2.631.000 uomini risposero all’appello di Kitchener e si arruolarono spontaneamente per andare in aiuto del piccolo esercito professionale britannico di 250.000 effettivi: eppure nemmeno questa affluenza straordinaria bastava a coprire le necessità dei fronti.
Nel gennaio 1916 il governo britannico abbandonò le reticenze e impose il servizio militare obbligatorio per i cittadini maschi di età compresa tra i diciotto e i quarantuno anni. Anche la Francia attivò le risorse delle colonie per rafforzare gli effettivi, ma con risultati più modesti. Si procedette all’arruolamento di francesi o di loro discendenti diretti residenti nei territori con un legame molto stretto con la madrepatria (in Algeria) e si utilizzarono truppe di popolazione indigena delle colonie dell’Africa subsahariana. A differenza che per la Gran Bretagna, l’apporto dei contingenti coloniali alle truppe francesi impegnate nel conflitto fu limitato.
Ma europei, africani, antillani, asiatici... indipendentemente dalla loro nazionalità e origine, presto tutti questi soldati avrebbero smesso di sperare in un’esperienza straordinaria e liberatrice e avrebbero scoperto che la guerra era tutt’altra cosa.

Illusioni e miraggi?

Fin dai primi mesi di guerra si misero in moto molte delle dinamiche che avrebbero segnato la vita dei soldati di entrambi gli schieramenti e che avrebbero presto dimostrato che l’ardore guerriero dei momenti iniziali poggiava su basi molto fragili. Prima del 1914 la guerra era una faccenda che riguardava soltanto i militari di professione, ma nella nuova società di massa, e allo scopo di ottenere una rapida vittoria, i governi mobilitarono l’intera popolazione e il risultato fu un nuovo tipo di conflitto, in cui il grosso delle truppe al fronte non erano militari di professione, ma civili arruolati. Già dalle prime azioni, la guerra mostrò a quegli uomini il suo volto più duro. Lo scrittore e giornalista Jean Galtier-Boissière, che combatté nell’esercito francese, lo raccontò con chiarezza in una descrizione della ritirata generale delle truppe prima della battaglia della Marna, il 22 agosto 1914: «Improvvisamente alcuni sibili stridenti ci fanno gettare faccia a terra, terrorizzati. La raffica era esplosa sopra di noi [...] Questa attesa della morte è terribile. Il caporale, che ha perso il suo képi, mi dice: “E chi se lo immaginava che fosse questa la guerra, ragazzo, se sarà così tutti i giorni, preferisco che mi ammazzino subito”. Non siamo soldati di cartapesta, ma questo primo contatto con la guerra è stata una sorpresa molto dura. Nella sua allegra incoscienza, la maggior parte dei miei camerati non aveva mai riflettuto sugli orrori della guerra e vedeva le battaglie solo attraverso le immagini della propaganda patriottica; da quando avevamo lasciato Parigi, il “Bollettino delle Armate” ci manteneva nell’innocente illusione che la guerra fosse una passeggiata».
Quella appena iniziata non era una guerra come quelle conosciute fino ad allora, ma una guerra industriale su grande scala. L’applicazione del progresso industriale al conflitto portò a uno spiegamento di armi, logistica e produzione bellica formidabili e senza precedenti. Commenta Niall Ferguson: «La guerra divenne, come affermarono molti contemporanei, una macchina colossale che si nutriva di uomini e munizioni». In quel massacro meccanizzato, le perdite umane (sia tra i militari sia tra i civili, anche se le sofferenze e il numero delle vittime fra la popolazione civile non sarebbero stati comparabili a quelli della Seconda guerra mondiale) si contarono a centinaia di migliaia fin dai primi mesi. In Francia, già alla fine di settembre del 1914, il numero ufficiale dei feriti civili e militari era di 385.000. L’allegria iniziale dei volontari fu rapidamente sostituita dall’angoscia di avere davanti a sé una morte più che probabile. Robert Nichols, soldato britannico arruolatosi nel 1914, fu uno dei membri della nutrita generazione di poeti di guerra che la Prima guerra mondiale diede alla lingua inglese. In ciò che scrisse poi su quegli anni, racconta la visita medica per l’arruolamento: «Ricordo molto bene il viso di un comandante gentile e attento [...] in mezzo alla sala gremita [...]. Sorrise a ciascuno di noi, ma nei suoi occhi si leggeva la tristezza. “Quanti anni hai?” chiese a un aspirante che gonfiava il petto nudo per raggiungere la circonferenza richiesta. “Diciannove anni, signore.” “Ragazzo, sembra che tu abbia parecchia fretta di farti ammazzare.” L’aspirante, sconcertato, balbettò: “Signore, voglio soltanto contribuire con il mio granello di sabbia”. “Bene, così sarà, e buona fortuna.” Ma [...] quando il comandante poggiò il capo sul mio petto nudo (io ero il successivo nella fila) ebbi una curiosa sensazione: le sue ciglia erano umide».
In effetti, chi si arruolò alla fine di settembre per andare a combattere non mostrava lo stesso entusiasmo di chi l’aveva preceduto. Kresten Andresen era un giovane di ventitré anni, di origine danese, che servì nell’esercito tedesco durante la guerra. Al momento di partire, due mesi dopo l’inizio delle ostilità, scriveva nel suo diario: «È tale il nostro stordimento che partiamo per la guerra tranquilli, senza lacrime e senza paura, eppure sappiamo bene che ci stanno mandando all’inferno. Ma stretto in una rigida uniforme, il cuore non può battere liberamente. Si smette di essere se stessi, si è a fatica un essere umano, al massimo un automa che funziona come deve e fa ciò che gli dicono senza pensarci troppo. Ah, buon Dio! Magari potessimo tornare a essere persone!». I cupi presentimenti di questo giovane al momento di partire per il fronte si sarebbero materializzati in un modo che lui non poteva sospettare, né lui né il resto dei compagni partiti per la guerra nelle settimane precedenti. La Prima guerra mondiale aveva in serbo per tutti loro una sgradevole sorpresa, un nuovo tipo di combattimento mai visto prima e che avrebbe preso forma quell’autunno.

Guerra di posizione

La dinamica della Grande Guerra non assunse il suo tratto distintivo fino all’autunno del 1914. Fino a quel momento, sul fronte occidentale i tedeschi avevano messo in pratica il loro piano audace di realizzare un movimento avvolgente su Parigi attraverso la Francia nordoccidentale (cosa che implicò la sanguinosa occupazione del Belgio, paese neutrale sin dalla sua indipendenza, nel 1830), attirando contemporaneamente gli eserciti nemici in una trappola nei territori dell’Alsazia e della Lorena. Si trattava del piano Schlieffen, stroncato a settembre dalle truppe franco-britanniche grazie all’offensiva della Marna, che si tradusse per gli eserciti in due mesi di corsa angosciante, per impedire al nemico l’accesso al canale della Manica. Il risultato dell’operazione fu il costituirsi di un fronte stabile, in Belgio e nella Francia orientale. Si passò dalla classica guerra di movimento a una guerra di posizione, in cui i contendenti allestirono strutture improvvisate che servissero sia per resistere agli attacchi del nemico sia per rafforzare la posizione sul territorio. Le trincee che furono approntate presto smisero di essere soluzioni temporanee per le operazioni difensive o d’assedio e divennero l’elemento caratteristico e onnipresente della Prima guerra mondiale.
Non era la prima volta che si ricorreva alle trincee in un conflitto con un armamento industriale – erano già state utilizzate, unitamente ad alcuni degli ultimi ritrovati tecnologici, durante la guerra russo-giapponese del 1904-1905 –, ma prima di quell’autunno 1914 nell’Europa occidentale non era mai successo. Presto il sistema delle trincee divenne stabile, con l’effetto immediato di sconcertare completamente i comandi militari. Già alla fine del 1914 il ministro della Guerra del nuovo governo di concentrazione nazionale formatosi in Gran Bretagna dopo lo scoppio delle ostilità, Lord Horatio Herbert Kitchener (il maresciallo pluridecorato delle campagne coloniali, che per mezzo secolo aveva accumulato vittorie dall’India al Sudan e al Sudafrica), di fronte a questa novità affermò: «Non so che cosa fare, questa non è guerra».
Da quell’inverno e fino alla primavera del 1918, infatti, il sistema di trincee restò fisso. Le linee non si muovevano se non di qualche centinaio di metri, al massimo qualche chilometro. Nel complesso si trattava di un fronte lungo seicentocinquanta chilometri, che andava dal canale della Manica, in Belgio, seguendo poi una linea che attraversava la Francia e univa i territori delle città di Ypres, Béthune, Arras, Albert, Compiègne, Soissons, Reims, Verdun, Saint-Michel, Nancy e arrivava fino alla frontiera svizzera nelle vicinanze di Beurnevésin. Si trattava di due sistemi contrapposti di tri...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La Grande Guerra
  4. Premessa
  5. Parte prima. LO ZENIT DELL’EUROPA
  6. Parte seconda. LA CATASTROFE
  7. Parte terza. VIVERE LA GUERRA
  8. Parte quarta. LA GUERRA È FINITA?
  9. Cronologia
  10. Bibliografia
  11. Copyright