Gulag
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Gulag

Storia dei campi di concentramento sovietici

  1. 756 pagine
  2. Italian
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Storia dei campi di concentramento sovietici

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A partire dal 1973, quando l'opera letteraria di Aleksandr Solzˇenicyn ha fatto conoscere al mondo la ferocia dei campi di concentramento sovietici, e in particolare dopo il crollo dell'Unione Sovietica, molti documenti tenuti fino allora segreti o nascosti hanno gettato nuova luce sul ruolo dei Gulag: spietato strumento repressivo, ma anche potente risorsa economica per Stalin che fece del lavoro coatto la base dell'industrializzazione a tappe forzate del Paese. È quanto emerge dall'accurata ricostruzione di Anne Applebaum, che rievoca in modo completo e documentatissimo il sistema sovietico dei campi, dalla nascita, subito dopo la Rivoluzione d'ottobre, all'enorme espansione durante il Grande terrore staliniano, al suo smantellamento, negli anni Ottanta della glasnost' gorbacioviana. Ma soprattutto racconta, in base a testimonianze di sopravvissuti, lettere e memoriali, la vita di prigionieri, guardie, comandanti, facendo rivivere quello che fu un "paese nel paese", una civiltà sommersa nell'estremo nord della Russia con leggi, usanze, una lingua, un'etica proprie.

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Informazioni

Editore
Mondadori
Anno
2017
ISBN
9788852081514
Argomento
History
Categoria
World History
Parte seconda

VITA E LAVORO NEL GULAG

VII

L’arresto

Sentendo parlare di uno dei soliti arresti, non chiedevamo mai: «Perché l’hanno preso?». Ma di gente come noi ce n’era poca. Accecati dalla paura, gli altri si rivolgevano la domanda a vicenda, tanto per consolarsi: «Se le persone vengono portate via per qualche cosa, io posso stare tranquillo, non mi prenderanno, perché non ho fatto niente!». Si lambiccavano il cervello per inventare cause e giustificazioni per ogni arresto: «Quello, però, il contrabbando lo faceva davvero», oppure «Quello lì si permetteva certe cose...» ... O ancora: «C’era da aspettarselo, ha un carattere infernale», «Ho sempre avuto l’impressione che in lui qualcosa non andasse», «Non è mai stato uno dei nostri» ... Per questo motivo la domanda: «Perché l’hanno preso?» era diventata per noi una domanda proibita. «Perché?» gridava infuriata Anna Andreevna, quando qualcuno dei suoi amici, contagiato dalla malattia collettiva, le rivolgeva la consueta domanda. «Come perché? È ora di capire che la gente viene presa senza un perché.»
NADEŽDA MANDEL’ŠTAM, L’epoca e i lupi1
Anna Ahmatova, la poetessa citata in questo brano dalla vedova di un altro poeta, aveva ragione e torto allo stesso tempo. Da un lato, dalla metà degli anni Venti, l’epoca in cui fu istituito l’apparato del sistema repressivo sovietico, il governo non fermava più la gente per strada gettandola in carcere senza alcun motivo o spiegazione: c’erano arresti, indagini, processi e sentenze. Dall’altro, i «reati» per cui si veniva arrestati, processati e giudicati erano privi di senso, e le procedure d’indagine e di incarcerazione erano assurde, addirittura surreali.
In retrospettiva, questo è uno degli aspetti peculiari del sistema dei campi sovietico: il più delle volte i detenuti arrivavano per via legale, sebbene non sempre si trattasse del normale sistema giudiziario. Nessuno processò e giudicò gli ebrei nell’Europa occupata dai nazisti, mentre gli internati nei campi sovietici per la maggior parte avevano subito interrogatori (per quanto sbrigativi), processi (per quanto farseschi) ed erano stati giudicati colpevoli (anche se era bastato meno di un minuto). Senza dubbio coloro che lavoravano nei servizi di sicurezza, come le guardie e gli amministratori che in seguito controllavano la vita dei prigionieri nei campi, erano motivati anche dalla convinzione di agire secondo la legge.
Ma lo ripeto: il fatto che il sistema repressivo fosse legale non significa che fosse logico. Anzi, nel 1947 non era più facile prevedere con certezza chi sarebbe stato arrestato di quanto lo fosse nel 1917. Certo divenne possibile presumere chi rischiava di essere arrestato. Specialmente durante le ondate di terrore, il regime a quanto pare sceglieva le vittime un po’ perché avevano richiamato in qualche modo l’attenzione della polizia segreta – un vicino li aveva sentiti fare una battuta infelice, un superiore li aveva visti comportarsi in modo «sospetto» –, ma soprattutto perché appartenevano a una categoria della popolazione che in quel momento era sotto osservazione.
Alcune di tali categorie erano abbastanza definite – verso la fine degli anni Venti ingegneri e specialisti, nel 1931 kulaki, durante la Seconda guerra mondiale polacchi e baltici dei territori occupati –, altre invece erano molto vaghe. Negli anni Trenta e Quaranta, per esempio, gli «stranieri» erano sempre considerati sospetti. Per «stranieri» intendo cittadini di altri paesi, persone che magari avevano contatti all’estero, o che potevano avere qualche rapporto, immaginario o reale, con un paese straniero. Comunque si comportassero, erano sempre candidati all’arresto, e gli stranieri che in qualche modo si mettevano in vista correvano molti rischi. Robert Robinson, uno dei molti americani neri comunisti che si erano trasferiti a Mosca negli anni Trenta, in seguito scrisse: «Tutti i neri diventati cittadini sovietici che ho conosciuto all’inizio degli anni Trenta sette anni dopo erano scomparsi da Mosca».2
I diplomatici non facevano eccezione. Alexander Dolgun, per esempio, un giovane cittadino americano dipendente dell’ambasciata americana a Mosca, nelle sue memorie racconta come venne prelevato per strada nel 1948 e accusato, senza fondamento, di spionaggio; aveva suscitato dei sospetti un po’ perché seminava con entusiasmo giovanile i «segugi» messigli alle calcagna dalla polizia segreta e un po’ perché era abilissimo nel convincere gli autisti dell’ambasciata a prestargli le macchine, per cui gli agenti ipotizzavano che fosse molto più importante di quanto facesse pensare la sua posizione. Trascorse otto anni nei campi, e ritornò negli Stati Uniti solo nel 1971.
I comunisti stranieri erano spesso nel mirino. Nel febbraio 1937 Stalin disse una frase minacciosa a Georgi Dimitrov, segretario generale dell’Internazionale comunista o Comintern, l’organizzazione impegnata a fomentare la rivoluzione mondiale: «Voialtri del Comintern collaborate tutti con il nemico». Su 394 membri da cui era costituito il Comitato esecutivo dell’Internazionale comunista nel gennaio 1936, nell’aprile 1938 ne erano rimasti soltanto 171. Gli altri erano stati fucilati o mandati nei campi; tra loro c’erano persone di paesi diversi: tedeschi, austriaci, iugoslavi, italiani, bulgari, finlandesi, baltici, persino inglesi e francesi. A quanto pare, una percentuale spropositata era costituita da ebrei. A conti fatti, Stalin uccise più membri del Politburo del Partito comunista tedesco di prima del 1933 di quanti ne uccise Hitler: 41 dirigenti del Partito comunista tedesco, sui 68 fuggiti in Unione Sovietica quando i nazisti presero il potere, morirono giustiziati o nei campi di prigionia. Il Partito comunista polacco forse fu decimato in modo ancora più drastico. Uno studioso ritiene che tra la primavera e l’estate del 1937 siano stati giustiziati cinquemila comunisti polacchi.3
Ma non era necessario appartenere a un partito comunista straniero: Stalin se la prese anche con i compagni di strada. Tra questi ultimi, i più numerosi erano probabilmente i venticinquemila «finlandesi americani»: si trattava di finlandesi che erano emigrati in America, o vi erano nati, e che si erano trasferiti tutti in Unione Sovietica negli anni Trenta, quando negli Stati Uniti c’era la Grande depressione. Erano per la maggior parte operai, e molti negli Stati Uniti non trovavano lavoro. Incoraggiati dalla propaganda sovietica – fatta da reclutatori che giravano nelle comunità americane di finlandesi per descrivere le meravigliose condizioni di vita e le opportunità di lavoro nell’URSS – affluirono in massa nella repubblica della Carelia, dove si parlava finlandese. Crearono problemi alle autorità quasi subito. Scoprirono che la Carelia non assomigliava poi così tanto all’America. Molti lo dicevano a voce alta a chiunque volesse ascoltare, poi cercarono di tornare negli Stati Uniti, ma invece alla fine degli anni Trenta finirono nel Gulag.4
Anche i cittadini sovietici con rapporti all’estero erano molto sospetti, soprattutto quelli appartenenti a «nazionalità della diaspora»: i polacchi, i tedeschi e i finlandesi della Carelia che avevano parenti e amici oltre confine, come pure i baltici, i greci, gli iraniani, i coreani, gli afgani, i cinesi e i rumeni disseminati in tutta l’URSS. Dai documenti degli archivi dell’NKVD risulta che tra il luglio 1937 e il novembre 1938, in queste «operazioni nazionali» ne furono condannati 335.513.5 Come vedremo, operazioni analoghe avvennero anche durante e dopo la guerra.
Ma non era nemmeno necessario parlare una lingua straniera per essere sotto osservazione. Tutti quelli che avevano qualche rapporto con un paese straniero rischiavano l’accusa di spionaggio: collezionisti di francobolli, entusiasti dell’esperanto, chiunque avesse un corrispondente o dei parenti all’estero. La NKVD arrestò anche tutti i cittadini sovietici che avevano lavorato nella Ferrovia cinese orientale, una linea ferroviaria della Manciuria risalente al periodo zarista, e li accusò di aver passato informazioni al Giappone. Nei campi li chiamavano harbinec, perché molti di loro abitavano nella città di Harbin.6 Robert Conquest descrive l’arresto di una cantante d’opera, che durante un ballo ufficiale aveva danzato con l’ambasciatore giapponese, e di un veterinario che curava i cani degli stranieri.7
Verso la fine degli anni Trenta, anche i comuni cittadini sovietici avevano capito come funzionava, e non volevano avere niente a che fare con gli altri paesi. Karlo Štajner, un comunista croato sposato a una russa, racconta: «Era raro che un russo avesse rapporti privati con uno straniero. ... Quanto alla famiglia di mia moglie, praticamente non la conoscevo. Quando seppe che Sonja si proponeva di sposare uno straniero, la famiglia glielo sconsigliò».8 Ancora verso la metà degli anni Ottanta, quando sono andata per la prima volta in Unione Sovietica, molti russi diffidavano degli stranieri, li ignoravano ed evitavano addirittura di incrociarne lo sguardo per strada.
Eppure non tutti gli stranieri venivano fermati dalla polizia e non tutti gli accusati di avere rapporti con l’estero ne avevano davvero. Succedeva anche che la gente venisse portata via per motivi molto più stravaganti.9 Quindi alla domanda: «Perché l’hanno preso?», tanto invisa ad Anna Ahmatova, si può rispondere con una serie davvero straordinaria di presunte ragioni.
Per esempio, Osip Mandel’štam, marito di Nadežda, fu arrestato per una poesia in cui criticava Stalin:
Viviamo senza neanche l’odore del paese,
a dieci passi di distanza non si sentono le voci,
e ovunque ci sia spazio per un mezzo discorso
salta sempre fuori il montanaro del Cremlino.
Le sue dita dure sono grasse come vermi,
le sue parole esatte come fili a piombo.
Ammiccano nel riso i suoi baffetti da scarafaggio,
brillano i suoi stivali.
Ha intorno una marmaglia di ducetti dagli esili colli
e si diletta dei servigi di mezzi uomini.
Chi miagola, chi stride, chi guaisce
se lui solo apre bocca o alza il dito.
Forgia un decreto dopo l’altro come ferri di cavallo:
e a chi lo dà nell’inguine, a chi fra gli occhi, sulla fronte o sul muso.
Ogni morte è una fragola per la bocca
di lui, osseta dalle larghe spalle.10
Anche se le versioni ufficiali sono diverse, Tat’jana Okunevskaja, una delle attrici cinematografiche più amate in Unione Sovietica, riteneva di essere stata arrestata perché aveva rifiutato di andare a letto con Viktor Abakumov, capo del controspionaggio sovietico durante la guerra. A quanto disse, le mostrarono un mandato di arresto firmato proprio da lui per accertarsi che capisse il vero motivo della sua disgrazia.11 I quattro fratelli Starostin, tutti quanti famosi giocatori di calcio, furono arrestati nel 1942. Rimasero sempre convinti che fosse accaduto perché la loro squadra, lo Spartak, aveva avuto la sfortuna di infliggere una sconfitta un po’ troppo netta alla Dynamo, squadra del cuore di Lavrentij Berija.12
Ma non c’era nemmeno bisogno di essere straordinari. Ljudmila Hačatrjan fu arrestata perché aveva sposato uno straniero, un soldato iugoslavo. Lev Razgon racconta la storia di un contadino, Seregin, il quale quando gli dissero che qualcuno aveva ammazzato Kirov rispose: «Non me ne importa un accidente». Seregin non aveva mai sentito nominare Kirov e supponeva che si trattasse di qualcuno morto in una zuffa nel villaggio vicino. Per questo errore fu condannato a dieci anni.13 Nel 1939 molte cose, in certe situazioni, potevano procurare una condanna ai campi di concentramento: fare una battuta su Stalin o ascoltarla; arrivare tardi al lavoro; avere la disgrazia di essere indicati come «cospiratori», coinvolti in un complotto inesistente, da un amico terrorizzato o da un vicino geloso; avere quattro mucche in un villaggio in cui la maggioranza della gente ne aveva solo una; rubare un paio di scarpe; essere cugino ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Gulag
  4. Introduzione
  5. Parte prima. Le origini del gulag. 1917-1939
  6. Parte seconda. Vita e lavoro nel gulag
  7. Parte terza. Ascesa e declino del complesso industriale dei campi. 1940-1986
  8. Epilogo. Memoria
  9. Appendice. Quanti?
  10. Note
  11. Bibliografia
  12. Glossario
  13. Ringraziamenti
  14. Inserto fotografico
  15. Copyright